Cybersecurity e information war

Guerra in Ucraina, Big tech Usa in prima fila nel conflitto ibrido: strategie e incognite

Com’è sempre accaduto in tempo di guerra, anche in occasione dell’intervento armato russo in Ucraina, le aziende tecnologiche americane si sono dimostrate disponibili ad affiancare la coalizione, in questo caso nel controllo della sfera informativa. Ma la cyberwarfare non è ancora esplosa. Che succederà poi?

Pubblicato il 02 Mar 2022

Luigi Giungato

Ph.D. St. in Politica, Cultura e Sviluppo, DiSPeS, Unical Ricercatore Società Italiana di Intelligence - SocInt

ucraina attacchi informatici

Da alcune settimane, prima ancora che iniziasse l’intervento armato russo in Ucraina, alcune big tech statunitensi come Meta (Facebook), Microsoft e Google, sono apparse da subito protagoniste del confronto.

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Le Big Tech in prima fila

Sia l’azienda di Zuckerberg che il colosso di Mountain View si sono dimostrate disponibili ad affiancare la coalizione nel controllo della sfera informativa, nella lotta alle narratives ritenute ostili o nella limitazione degli account avversari.

Anche Apple è scesa in campo, con il blocco dei pagamenti elettronici Apple Pay e il blocco delle vendite dei propri prodotti, subito seguita da Google.

E non poteva mancare Microsoft, schieratasi a fianco del Governo americano nell’allestimento delle difese elettroniche, in previsione di un’offensiva informatica da parte di Mosca, dopo avere condiviso con il Governo americano le informazioni relative al malware “FoxBlade”, destinato a minare i sistemi ucraini.

Quello della sicurezza da attacchi ostili non è il solo fronte sul quale l’azienda di Redmond è impegnata al fianco delle forze armate statunitensi. Solo lo scorso anno, il gigante fondato da Bill Gates è stato beneficiario di un appalto da parte del Dipartimento di Stato per la progettazione e costruzione di una serie di nuovi elmetti con visori per la realtà aumentata destinati alla fanteria e, soprattutto, per la realizzazione di una nuova infrastruttura cloud integrata destinata alle forze armate, denominata Joint Warfighter Cloud Capability (JWCC), in associazione con Google, Oracle e Amazon Web Services, tutt’ora in fase di allestimento.

Ma perché la cyberwarfare tarda ad arrivare?

Quello di supervisionare alla sicurezza informatica dell’alleanza, tuttavia, è un compito certamente non facile per un’azienda che ora si vede costretta a coordinare i servizi di intelligence di più Paesi tra loro eterogenei, come la Gran Brategna, l’Ucraina o i Paesi della Nato. È questa, sicuramente, l’occasione di testare le capacità di una partnership che non ha ancora ricevuto un vero e proprio battesimo del fuoco.

Il nemico alle porte, infatti, tarda ad arrivare. Fatta eccezione per sporadici attacchi, solitamente destinati a operazioni di disinformazione o defacement, come quelli perpetrati dal gruppo Ghostwriter, specializzati nella manomissione di siti informativi e, probabilmente, di origine bielorussa, la tanto temuta campagna di cyberwarfare russa non è ancora iniziata.

I motivi possono essere i più disparati, dalla politica di attesa da parte del Cremlino in vista di negoziati, alla difficoltà riscontrata nel “bucare” i sistemi avversari.

E mentre la coalizione a guida USA può avvalersi del contributo delle proprie big tech, a detta dei servizi occidentali l’esercito digitale di Mosca è composto da bande di cybercriminali, specializzati quasi esclusivamente in operazioni di ransomware e, forse, non facilmente manipolabili.

Commistione pubblico-privato: niente di nuovo sul fronte occidentale

Nulla di nuovo, invece, per quanto riguarda l’alleanza tra le aziende statunitensi e il proprio Governo in tempo di guerra. Il coinvolgimento del settore privato nello sforzo militare americano era prevedibile e, per certi versi, auspicabile. La commistione tra settore pubblico e privato nella costruzione di un imponente complesso militare-industriale, d’altra parte, è uno dei fondamenti della dottrina americana sin dalla Seconda guerra mondiale, durante la quale la conversione delle più importanti fabbriche di veicoli a motore e componenti, prime fra tutte Ford, si rivelò decisiva per la vittoria alleata in Europa e nel Pacifico.

Una partnership, tuttavia, per certi versi controversa. Il famoso discorso di commiato del 1961, nel quale l’allora Presidente degli Stati Uniti, Dwight Eisenhower, paventava il rischio che una tale commistione di interessi potesse generare successivamente in tempo di pace un’illecita ingerenza del settore privato nelle direttrici della politica estera americana, è ormai ritenuto un classico degli studi politici.

Durante la guerra fredda, in effetti, tale rapporto simbiotico si è andato gradualmente intensificando, divenendo la spina dorsale della produzione di tutti i sistemi d’arma che costituivano la base della capacità di deterrenza del colosso statunitense e, come noto, la stessa infrastruttura di rete alla base di quella che successivamente sarebbe diventata Internet, nasceva come commistione tra finanziamenti pubblici militari, investimenti privati e sfruttamento commerciale da parte delle aziende interessate dei brevetti e dei know-how acquisiti.

Anche durante le campagne militari della prima decade del 2000, il paradigma pubblico-privato non è mai venuto meno, al punto tale da includere massicciamente il settore privato in tutti gli interventi armati condotti dagli Stati Uniti nella cosiddetta “guerra al terrore”, non solo nella produzione dei mezzi bellici, ma anche mediante appalti nel settore dell’addestramento, della costruzione di basi militari, della sicurezza dei luoghi sensibili, fino alla gestione della pubbliche relazioni. In tal senso, significativa nel 2001 la nomina di Charlotte Beers, una delle più importanti personalità del settore pubblicitario d’America, a Sottosegretario per la Diplomazia Pubblica e gli Affari Pubblici, oppure il ruolo svolto dalla Compagnia militare privata Blackwater nella gestione del territorio, sia in Afghanistan che in Iraq. La stessa Blackwater, in particolare, che dal 2011 ha cambiato nome in “Academi”, è tutt’ora protagonista di alcune controverse indiscrezioni sul proprio ruolo in Ucraina, a seguito di uno scoop del 2021 del Time[1], che denunciava gli interessi del proprio fondatore, Erik Prince, nella gestione degli appalti per la sicurezza e per alcune speculazioni nel settore degli armamenti proprio nel Paese dell’Est.

Cybersecurity e information war: quanto è efficiente il paradigma pubblico privato

Tuttavia, è nel campo della cybersecurity e della information war che l’alleanza tra settori pubblico e privato degli Stati Uniti deve ancora dimostrare la propria efficienza, in questo caso dinanzi alla prova del fuoco di un possibile conflitto contro il gigante russo.

Niente di nuovo sotto il sole della storia americana, quindi. Ciò che, invece, appare come un’incognita è quanto le aziende interessate saranno capaci di gestire la fase successiva al conflitto. In effetti, ciò che può apparire ancora difficile da comprendere è quanto il ruolo di sostegno alla politica estera americana da parte delle big tech americane, benché storicamente preventivabile, possa intaccare la propria immagine di fornitori di contenuti universali, ruolo che, finora, è stata garanzia del proprio successo nel mondo.

Tuttavia è un problema che dipenderà dalle condizioni dell’eventuale deescalation. Nel frattempo, le aziende concorrenti, come TikTok, Telegram e Huawei, restano a guardare, in attesa di capire se gli elmetti di guerra indossati dai giganti americani, potranno in futuro concedere loro di erodere anche solo una parte dei loro mercati.

  1. https://time.com/6076035/erik-prince-ukraine-private-army/

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