Il monitoraggio permanente dei lavoratori sta cominciando a essere un vero problema, di fronte al quale si assiste a un preoccupante ritardo sul fronte legislativo. Certo, tra gli effetti collaterali prodotti dall’implementazione di sistemi tecnologici all’avanguardia, non manca qualche risvolto potenzialmente positivo, come la (teorica) possibilità di ridurre i pregiudizi nascosti ma sulla bilancia pesano molto di più le insidie per i diritti dei lavoratori, non solo quello alla privacy. Ad esempio, è sempre più diffuso l’uso del monitoraggio algoritmico dei dipendenti al fine di calcolare – secondo quanto evidenziato da un recente articolo del “The New York Times” – un punteggio di produttività da cui dipende il pagamento della retribuzione.
Ma andiamo per gradi.
L’innovazione tecnologica e il mercato del lavoro
L’innovazione tecnologica è destinata a stravolgere il mercato del lavoro per effetto della cosiddetta “automazione dei processi robotici” che incide sul classico paradigma organizzativo delle occupazioni, determinando (almeno in astratto) un significativo risparmio di spesa strettamente connesso alla diminuzione del saggio salariale anche come conseguenza di una drastica contrazione del numero di dipendenti impiegati, presto sostituiti da bot e algoritmi tecnologici in grado di replicare perfettamente lo svolgimento di mansioni professionali tipicamente umane, persino con risultati migliori rispetto a quelli conseguiti dai professionisti “in carne ed ossa”, come teorizzano alcuni recenti studi.
Già ora in via generale, nella concreta prassi tecnologica, si assiste alla progettazione sperimentale di strumenti innovativi che realizzano un integrale screening di monitoraggio permanente sulle attività lavorative nell’ambito di una pervasiva sorveglianza aziendale in grado di controllare il comportamento dei dipendenti nei luoghi di lavoro con indici di profilazione talmente invasivi da tenere traccia, ad esempio, della digitazione dei tasti, della posizione della webcam, del desktop e della posta elettronica, con l’ulteriore possibilità di acquisire foto, anche all’insaputa degli utenti, e di attivare i microfoni per ascoltare il contenuto delle conversazioni scambiate nell’ambiente lavorativo.
È stata resa nota la notizia secondo cui Amazon avrebbe da tempo brevettato un braccialetto elettronico che, controllando ogni movimento dei dipendenti, sarebbe in grado di emettere vibrazioni ultrasuoni quando non vengono correttamente effettuate le mansioni assegnate, fungendo anche da strumento di localizzatore per identificare la posizione dei lavoratori mediante l’installazione di un sistema di feedback tattile.
Le implicazioni negative sulla privacy, e non solo
Tutto ciò, naturalmente, è fonte di implicazioni negative che possono pregiudicare la privacy individuale, consentendo alle aziende di spiare la produttività dei propri dipendenti sino a disporne il licenziamento nei casi di comportamenti ritenuti carenti e insufficienti rispetto agli standard di efficienza stabiliti nell’esclusivo interesse datoriale.
Accanto alle anzidette preoccupanti criticità ivi riscontrate emerge però anche, tra gli effetti collaterali potenzialmente positivi prodotti dall’implementazione di sistemi tecnologici all’avanguardia, la (teorica) possibilità di ridurre i pregiudizi nascosti – intrinseci al giudizio valutativo umano (per definizione soggettivo e opinabile, se non peggio ancora irragionevolmente arbitrario) – che tendono fisiologicamente a manifestarsi nelle tradizionali procedure selettive. In altre parole, grazie all’uso di sistemi algoritmi automatizzati le aziende sarebbe in grado di prendere decisioni più veloci ed efficaci per la scelta ottimale del personale da assumere in linea con un ideale “identikit” del perfetto lavoratore dotato delle caratteristiche più adeguate alle esigenze professionali richieste (anche se, in realtà, non mancano evidenze di segno contrario che rilevano l’esistenza di frequenti distorsioni discriminatorie applicate dalle tecnologie a causa di errori di programmazione codificate nello svolgimento delle operazioni di recruiting).
Se l’algoritmo determina lo stipendio da attribuire ai lavoratori
Sta di fatto che, nell’ambito di un mutevole mercato del lavoro in continua evoluzione, si sta espandendo, forse in clima esasperato di neoliberismo predatorio, un sistemico monitoraggio algoritmico dei dipendenti al fine di calcolare un punteggio di produttività da cui dipende il pagamento della retribuzione prevista. Il compenso può raggiungere cifre molto elevate, così come è possibile precludere qualsiasi ristoro economico ove la performance professionale sia ritenuta insufficiente, anche quando ciò riguarda attività effettivamente espletate da remoto ma prive di una corrispondente “impronta digitale” registrata dal contatore virtuale della piattaforma online utilizzata a distanza, al punto da considerare ineseguita la prestazione convenuta con conseguente perdita – persino integrale – dello stipendio.
Secondo un sondaggio realizzato da Digital.com (riportato dal “The Guardian”), “il 60% delle aziende con dipendenti che lavorano in remoto utilizza software di monitoraggio per controllare l’attività dei dipendenti […] mentre il 17% lo sta prendendo in considerazione”. Inoltre, “l’88% dei datori di lavoro ha licenziato i lavoratori dopo aver implementato un software di monitoraggio”, come strumento in grado di assicurare in ogni caso un “aumento della produttività dei lavoratori” (attestato all’81% dei casi rilevati). Secondo il citato studio, “il motivo principale per cui i datori di lavoro richiedono un software di monitoraggio è capire meglio come i dipendenti trascorrono il loro tempo (79%). I datori di lavoro vogliono anche confermare che i dipendenti lavorino un’intera giornata (65%) e assicurarsi che non utilizzino attrezzature di lavoro per finalità personali (50%)”.
Monitoraggio della produttività, un fenomeno sempre più diffuso
Il monitoraggio della produttività professionale digitale rappresenta un fenomeno trasversale sempre più diffuso che trova applicazione non soltanto rispetto ai livelli più bassi della scala gerarchica occupazionale tra operai e impiegati di concetto, ma altresì in relazione alle mansioni qualificate assegnate a manager, dirigenti e professionisti intellettuali (cd. “colletti bianchi”), esposti quindi alle medesime sanzioni disciplinari e patrimoniali irrogate per addebiti disciplinari da “inattività”.
L’articolo del “The New York Times” descrive un’interessante casistica di presunte “inerzie lavorative” ritenute carenti di valida misurazione anche per la mancata rilevazione di movimenti della tastiera, da cui si evince una preoccupante tendenza di alienazione professionale alimentata da un “modo insensato di lavorare per il solo fine di accumulare click”.
Nonostante la generale consapevolezza sull’esistenza di insidiosi processi organizzativi del lavoro, in nome di una ridefinizione ottimizzata delle attività svolte con modalità sempre più proficue e razionalizzate senza perdere tempo in diversivi inutili (ritenuti tali tutti quelli che esulano dallo specifico espletamento della funzione professionale conferita), si sta diffondendo l’uso massivo di pervasive tecnologie di tracciamento. Un fenomeno motivato dall’esigenza di realizzare un modello di efficienza produttiva collegato alla verifica dei risultati effettivamente conseguiti secondo sofisticati “tracker” di monitoraggio. Tali software consentono in qualsiasi momento di scattare foto e creare schede personalizzate per ogni singolo dipendente, nell’ottica di standardizzare persino gli orari più opportuni per andare in bagno o fare una pausa. Il rischio paventato è quello di provocare un rilevante allungamento delle giornate lavorative che risultano sempre più stressanti per mantenere costante la concentrazione pretesa nello svolgimento delle relative mansioni.
Le sfide regolatorie
Alla luce delle complesse trasformazioni tecnologiche che stanno determinando una profonda metamorfosi del mercato del lavoro, di fronte alle lacune regolatorie riscontrate sul piano normativo (spesso a causa di una reiterata obsolescenza della legislazione vigente in materia, la cui base giuridica di riferimento – negli USA – è ancora oggi rappresentata dal cd. “Fair Labor Standards Act” del 1938 in combinato disposto con la disciplina di cui al cd. “Electronic Communications Privacy Act” del 1986), prolifera l’adozione di interventi di riforma volti ad aggiornare l’attuale quadro normativo.
Ad esempio, a New York è stata presentata una recente legge che attribuisce ai lavoratori il diritto di conoscere in anticipo l’utilizzo di qualsiasi sistema di monitoraggio installato ai fini dell’accesso e dell’utilizzo di telefoni, di e-mail e di Internet, come necessario adempimento preliminare posto a carico delle aziende.
Degno di nota è altresì il cd. “Algorithmic Accountability Act” nella parte in cui prescrive, sempre a carico delle aziende, l’obbligo di effettuare in via preventiva periodiche valutazioni d’impatto sui possibili rischi suscettibili di pregiudicare la tutela dei lavoratori a causa di danni cagionati dagli algoritmi decisionali automatizzati. A tal fine viene sancita l’istituzione di un archivio pubblico dei casi monitorati presso la Federal Trade Commission per garantire la trasparenza dei software, degli algoritmi e di ogni altro sistema automatizzato.
Di certo, si tratta comunque di iniziative ancora troppo limitate ed isolate.
Conclusioni
Pur apprezzando il tentativo – sia pure sporadico – di aggiornare il panorama legislativo vigente, emerge quindi nello scenario generale un preoccupante ritardo normativo destinato ad aggravare i pregiudizi cui sono esposti i lavoratori, la cui garanzia di tutela risulta sempre più abusata da pervasive e sofisticate tecnologie di monitoraggio.