la riflessione

Unix, la filosofia per la privacy e l’importanza dei modelli mentali

Orizzontarsi in Unix è molto facile, ma in che cosa consiste la “filosofia” di questo venerabile sistema operativo nato agli inizi degli anni 70? Ognuno la descrive in maniera un po’ diversa. Proviamo a fare chiarezza per capire cosa ha a che fare con la privacy

Pubblicato il 10 Feb 2020

Giovanni Salmeri

Università degli Studi di Roma Tor Vergata

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I problemi della privacy sono strettamente legati, come abbiamo visto, alle scelte delle aziende e al modo in cui esse si incrociano con la legislazione vigente. Ma una parte non piccola (questo lo sanno tutti) è giocata anche dai comportamenti degli utenti. Ma essi sono colpevoli di comportamenti imprudenti, o piuttosto i computer attuali incoraggiano poco a capire esattamente che cosa accade durante il loro uso?

Per farvi capire meglio l’essenza del mio ragionamento, c’è un dialogo standard che mi capita sempre più spesso, soprattutto quando qualcuno mi chiede aiuto per sistemare qualcosa nel computer. «Bene, dove lo hai salvato?» «Lo ho salvato in Word [o qualsiasi altro nome di programma].» «Sì, ho capito, intendo dire dove nel computer?» «Cioè? In Word!» «Va bene: ma intendo dire, in quale cartella?» «…» Provo con la terminologia antica: «In quale directory?» «…» Provo sconsolato con la pronuncia alternativa: «In quale dairèctori?» «…». Getto la spugna.

La filosofia Unix

Ogni volta devo fare un poco di sforzo per ammettere che non è colpa del mio interlocutore se alla mia ingenua e banalissima domanda non sa rispondere. Ciò che chiedo è in effetti elementare: ma lo è per chi viene da quella che viene chiamata la «filosofia Unix» e che, mutatis mutandis, ha avuto un’influenza enorme anche negli altri sistemi operativi che hanno accompagnato il successo dell’informatica personale: Windows e MacOS (non citiamo Linux e *BSD perché si tratta di vere forme di Unix). Ma in che cosa consiste la «filosofia» di questo venerabile sistema operativo nato agli inizi degli anni 70? Ognuno la descrive in maniera un po’ diversa, ma almeno una sua parte importante può essere descritta così: il sistema operativo provvede una serie di strumenti che fanno ciascuno «una cosa sola e bene» e operano su oggetti (i file) organizzati in un’unica struttura (il filesystem). La prima parte di questa descrizione è ovviamente opinabile: che cosa sia «una cosa sola» dipende dal grado di astrazione che si sceglie (qualcuno potrebbe per esempio dire che faccia «una cosa sola» un visualizzatore in grado di leggere sia PDF sia ePub, qualcun altro potrebbe ritenere che queste sono cose diverse che è meglio affidare ognuna ad un programma specializzato). La seconda parte è invece meno soggetta ad interpretazioni: ogni oggetto trattato da un progamma è registrato in una stessa struttura (la celebre struttura ad albero divisa, appunto, in cartelle e sottocartelle), a cui hanno accesso tutti gli strumenti forniti dal computer. Esattamente come tutti gli strumenti di cancelleria che ho (penne, forbici, colla) possono essere adoperati su tutte le carte che ho raccolte sul mio scaffale, suddivise in faldoni e cartelline. Se chiedo a qualcuno: «Dove hai messo quel documento?» non mi aspetto come risposta: «Lo ho messo nella spillatrice!» solo perché il giorno prima lo ha spillato.

Orizzontarsi nella «filosofia Unix» è insomma molto facile: la stessa terminologia inglese (file e directory, oppure più tardi folder) è fatta per suggerire un paragone con l’attività di lavoro e organizzazione che avviene in qualsiasi ufficio. Si tratta ovviamente solo di un paragone, perché a livello hardware le cose sono molto diverse, e infiniti dettagli su come realmente sono organizzati i dati in maniera fisica restano completamente nascosti all’utente: ma una macchina è facile da usare quando appunto è facile costruirsi un modello mentale di ciò che avviene in essa, non tanto quando se ne conoscono esattamente i dettagli realizzativi. Ciò vale specialmente per il computer che è una straordinaria macchina di simulazione, che può cioè rappresentare virtualmente qualsiasi altra macchina concepibile: ma la cosa importante è la chiarezza dello strato operativo presentato all’utente.

Perché il modello mentale Unix è entrato in crisi

Perché il modello mentale iniziato da Unix è un po’ entrato in crisi? Mi pare che i motivi principali siano quattro.

Il primo: questa «filosofia» ha grande utilità quando i programmi operano il più possibile su pochi tipi di dati standardizzati, diventa meno vantaggiosa quando ogni programma ha il suo proprio formato di dati. A che serve che i dati siano raccolti in una struttura unica, condivisa da tutti i programmi, se alla fine un documento creato da Word (puta caso) può essere manipolato solo con Word? Certo, a qualcosa serve ancora (per esempio per raggruppare per comodità in un’unica cartella documenti, foto, registrazioni relativi ad un evento), ma questa utilità è minore di prima.

Il secondo motivo: quasi tutte le interfacce grafiche hanno creato una fatale confusione nella filosofia Unix, duplicando all’interno di ciascun programma alcune funzioni di gestione dei file: perché mai dovrebbe esistere all’interno di Word un comando «Apri» se un documento creato da Word può essere semplicemente aperto dal gestore di file? Curioso osservare che la prima interfaccia grafica commercialmente usata, quella del glorioso Apple Lisa (1984) è stata da questo punto di vista una rara eccezione, perché non introduceva questa confusione e non prevedeva nessun comando «Apri» all’interno dei programmi!

Il terzo motivo: quasi tutte le interfacce grafiche hanno creato una seconda enorme confusione con l’idea di «desktop», sul quale si trova una bella icona che rappresenta il computer o il suo disco rigido, aprendo la quale si possono cercare file e cartelle, e tra questi file e cartelle si trova in bella evidenza: il «desktop». Come se in uno scatolone posato sulla scrivania si trovasse, aprendo una scatola dopo l’altra, esattamente la propria scrivania. Insomma, un bel regresso all’infinito degno dei disegni di Escher, che sembra fatto apposta per scombussolare qualsiasi modello mentale dell’organizzazione del computer, e anche per indurre a scaraventare pigramente sul desktop qualsiasi cosa si faccia, vanificando così l’utilità organizzativa di un filesystem unificato. (Se qualcuno si sta chiedendo se Lisa avesse questo fatale difetto, la risposta è no! Ma neppure Windows 3.1, per esempio.)

Il quarto motivo: la crescente quantità di file su cui oggi si opera rende in ogni caso meno adatta di un tempo la semplice organizzazione gerarchica del filesystem prevista dalla filosofia Unix. La cartella personale (home nel gergo Linux) del mio computer comprende più di 500mila file: a che pro affidarsi ad un ordine che in ogni caso non è spesso sufficiente neppure per ritrovare i propri documenti? Qualcuno ricorderà agli inizi degli anni 2000 il tentativo della Microsoft di riscrivere completamente il sistema di immagazzinamento dati di Windows, pensandolo molto più dei consueti filesystem come una base di dati variamente organizzabili: ma l’idea fallì (Bill Gates qualche anno fa chiamò questo fallimento la sua più grande delusione alla Microsoft) e i limiti di un filesystem gerarchico sono rimasti tutti lì.

Il problema della privacy

Veniamo al giorno d’oggi: a che cosa pensa qualcuno che dice «Il documento lo ho salvato in Word»? Sicuramente non pensa più alla filosofia Unix. Forse a volte pensa agli attuali smartphone: il desktop (se così vogliamo chiamarlo) contiene normalmente solo app(licazioni), non file (gli utenti più smaliziati possono al massimo creare per essi delle scorciatoie). Un gestore di file se c’è è seminascosto, nell’iPhone poi non esiste per nulla e neppure c’è nessun modo normale in esso per accedere ai singoli file in maniera unificata. Il modello mentale che viene incoraggiato è esattamente quello del mio ipotetico interlocutore: i file si aprono sempre e solo nelle app(licazioni), non si pensano come cose in sé, in alcuni casi non hanno vita autonoma all’esterno dell’app(licazione) che li ha creati, un file si può condividere da un’app(licazione) all’altra solo nei limiti stabiliti dal sistema operativo. Tutto bene? in fondo passare da un modello mentale all’altro cambia poco?

Non proprio, in tutto questo c’è almeno un grande problema. Il nuovo modello spinge a ritenere anche che non c’è più bisogno di pensare a dove si trovino i propri dati, che in fondo sia una cosa secondaria. Questo è un aspetto non piccolo del problema della privacy: in essa non si tratta solo di norme e di leggi, certo importantissime, ma anche della capacità di ogni utente di farsi, senza bisogno di conoscere dettagli tecnici, un’idea chiara (un modello, appunto) di dove siano i suoi dati, e di chi li possa vedere, e a che scopo.

Questa seconda cosa è forse ancora più importante delle leggi: quante volte i problemi nascono da quelle che saccentemente sono denunciate come distrazioni, ma in realtà sono solo l’oggettiva difficoltà di avere un chiaro modello mentale. Nella filosofia Unix esso era evidente. Lo è molto di meno in uno smartphone, per esempio, in cui ogni app(licazione) chiede di norma un po’ di permessi per uscire al di fuori del proprio recinto (e in cui si impara a dire sempre di sì), in cui inserire al momento della configurazione un indirizzo di posta elettronica non sempre è chiaro quali conseguenze abbia.

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