L’upcycling è uno dei temi oggi più dibattuti della proprietà intellettuale, come dimostrato nel recente congresso internazionale di AIPPI (Association Internationale pour la Protection de la Propriété Intellectuelle) tenutosi a Istanbul, ove il 25 ottobre si è appunto parlato di upcycling nel contesto di “Use, reuse e recycle”.
Il circolo vizioso di sovrapproduzione, sovraconsumo e inquinamento
La premessa è che viviamo da tempo in un modo in cui sovraproduciamo e sovraconsumiamo, con carichi per l’ambiente ormai difficilmente sopportabili. Dunque, da tempo si discute di sostenibilità, con riguardo a vari settori industriali, fra cui anche quello della moda. Si tratta infatti della quarta industria più inquinante al mondo, responsabile per circa il 10% delle emissioni globali di gas serra, e per il 20% del consumo di acqua.
Il problema dei rifiuti
Con particolare riguardo ai rifiuti, si calcola che l’industria della moda produca oggi oltre 92 milioni di tonnellate di scarti, che dovrebbero raggiungere 102 milioni di tonnellate nel 2030. Di questo quantitativo solo il 12% è riciclato o riutilizzato, mentre il 73% è bruciato, seppellito, o accumulato in enormi discariche, che si trovano generalmente nel cd. terzo mondo, dove i rifiuti vengono spediti. In Europa si sta cercando di affrontare il problema da alcuni anni, con le proposte relative alla economia circolare e alla gestione dei rifiuti. Fra queste va ricordata la EU Waste Framework Directive del 2008, che sta per essere modificata a seguito della proposta del luglio 2023 avanzata dalla Commissione Europea, ove è ben rappresentata la gerarchia delle azioni che si dovrebbero adottare (v. sotto).
Riuso, upcycling e riciclo
Fra queste azioni vi è dunque anzitutto la prevenzione, ossia la riduzione della produzione di rifiuti tramite la modifica delle nostre abitudini, in particolare preferendo prodotti di lunga durata al cd. “fast-fashion”, oppure riparando tutto ciò che si può. Le altre strategie prevedono il riuso, l’upcycling o il riciclo. Per riuso si intende riutilizzare un prodotto dopo che lo stesso è già stato usato, per esempio rivendendolo nelle catene second-hand. L’upcycling consiste nell’elaborazione di un articolo usato, aggiungendo valore, per esempio con nuove decorazioni, oppure con la modifica delle forme e/ dello stile, oppure combinandolo con altri prodotti.
Il riciclo comporta la trasformazione fisica del prodotto, che viene lavorato per ricavare da esso le materie prime che lo hanno composto oppure viene riprocessato per produrre un materiale nuovo. Il riciclo attualmente comporta il dispendio di notevoli risorse economiche e ambientali, così che – nell’attesa di progressi tecnologici futuri – il riuso e l’upcycling sono certamente in linea di principio preferibili per il loro minore impatto sull’ambiente. L’upcycling è poi in generale particolarmente interessante, sempre in linea di principio, perché presuppone che tramite la creatività si riesca non solo a recuperare, ma addirittura a valorizzare ciò che altrimenti sarebbe soltanto un rifiuto.
Upcycling: questione di griffe? I casi giudiziari
Va detto tuttavia che i principali esempi di upcycling hanno a che vedere con il riutilizzo e la trasformazione di capi di abbigliamento di note griffe della moda, come Burberry, Chanel, Levi’s. È infatti in linea generale l’uso del marchio famoso un elemento importante per la creazione di prodotti di upcycling appetibili.
SI veda in questo senso il caso giudiziario più recente di cd. “upcycling”, costituito dall’azione intentata da Levi’s contro Coperni [Levi Strauss & Co. v. Coperni UK Limited (4:23-cv-04590)], per l’asserita violazione da parte di Coperni dei diritti di marchio di Levi’s (oltre al compimento di atti di concorrenza sleale). Nell’azione Levi’s lamenta che Coperni abbia offerto sul mercato pantaloni (v. sotto) costituiti in parte da jeans originali Levi’s, senza alcuna autorizzazione da parte del titolare del marchio, così creando confusione nei consumatori circa la reale origine dei prodotti in questione, ed altresì violando i diritti esclusivi di marchio di Levi’s.
I casi giudiziari (o pre-giudiziari) sull’upcycling sono tuttavia ormai molti, e vanno dalle cd. “Jesus Shoes” e “Satan Shoes” del collettivo MSCHF (che ha modificato un numero limitato di scarpe Nike aggiungendo elementi che rimandavano a Gesù in un caso e a Satana nell’altro caso: v. sotto), fino ai casi della gioielleria di Shiver, che ha riutilizzato bottoni e altri elementi a marchio Chanel per realizzare bigiotteria [v. Chanel v. Shiver and Duke LLC (1:21-cv-01277 (SDNY) – immagine sotto].
Secondo i titolari dei marchi apposti sui prodotti oggetto di upcycling, quest’ultimo tipo di attività non è consentito perché in violazione dei diritti esclusivi sul marchio. È vero, infatti, che esiste il principio di esaurimento del marchio, secondo cui il titolare dei diritti non si può opporre ai successivi atti di distribuzione del prodotto sul territorio ove opera l’esaurimento, una volta che il prodotto stesso sia stato messo in commercio dal titolare o con il suo consenso. Tuttavia, questo principio non si applica quando sussistono motivi legittimi perché il titolare stesso si opponga all’ulteriore commercializzazione dei prodotti, in particolare quando lo stato di questi è modificato o alterato dopo la loro immissione in commercio (v. art. 5 c.p.i. e art. 15 della Direttiva UE 2015/2436). I titolari dei marchi sottolineano che l’upcycling rientra nei casi in cui lo stato dei prodotti è modificato o alterato, e ciò quindi costituirebbe un motivo legittimo per opporsi all’ulteriore commercializzazione del prodotto oggetto di upcycling.
Una possibile qualificazione dell’upcycling come fenomeno legittimo
Tuttavia, già oggi si potrebbe riflettere su alcuni elementi, che forse potrebbero consentire una qualificazione diversa dell’upcycling, come fenomeno legittimo. Il Regolamento UE 2017/ 1001 sul marchio dell’Unione europea afferma infatti, al considerando 21, come segue: “È opportuno che i diritti esclusivi conferiti dal marchio UE non permettano al titolare di vietare l’uso da parte di terzi di segni o indicazioni utilizzati correttamente e quindi conformemente alle pratiche di lealtà in campo industriale o commerciale […] L’uso di un marchio d’impresa da parte di terzi per fini di espressione artistica dovrebbe essere considerato corretto a condizione di essere al tempo stesso conforme alle consuetudini di lealtà in campo industriale e commerciale. Inoltre, il presente regolamento dovrebbe essere applicato in modo tale da assicurare il pieno rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, in particolare della libertà di espressione”. Questi principi generali sono già applicati pacificamente nel mondo delle opere d’arte, dove fin dalle scatole di zuppa Campbell’s di Andy Wharol si è ritenuto possibile riprodurre marchi famosi (v. sotto).
Negli Stati Uniti (ove, tuttavia, le regole applicabili non sono del tutto assimilabili a quelle europee), grazie all’applicazione del primo emendamento si è anche recentemente qualificata come lecita la riproduzione di alcune borse contraffatte di Louis Vuitton nel film The Hangover Part II, perché tale uso aveva rilevanza artistica e intento umoristico, senza produrre effetti confusori (Louis Vuitton Mallatier SA v. Warner Brothers Entertainment Inc 868 F Supp 2d 172).
Parodia e pastiche le eccezioni riconosciute in Europa
In Europa si guarda alla eccezione tradizionale della parodia e a quella più recentemente introdotta del pastiche nel diritto d’autore, ed ad una loro applicazione estensiva al settore dei marchi. In aggiunta, si potrebbe valorizzare il già ricordato wording degli artt. 15 della Direttiva UE 2015/2436 e 5 c.p.i., ove al titolare del marchio è consentito opporsi all’ulteriore commercializzazione del prodotto quando sussistano “motivi legittimi”. In questo senso si potrebbe sostenere che, nella misura in cui l’upcycling è un modo per riutilizzare prodotti usati che altrimenti diventerebbero rifiuti, il titolare dei diritti di marchio non avrebbe un motivo legittimo per opporsi all’upcycling stesso.
Ovviamente sarebbe importante evitare che un’applicazione indiscriminata di questa linea interpretativa sconfini nell’incoraggiamento di condotte parassitarie, confusorie o comunque eccessivamente pregiudizievoli per il titolare del marchio. Al fine di raggiungere quest’obiettivo si potrebbe valutare (come suggerito nella discussione svoltasi al Congresso di AIPPI) di qualificare l’upcycling come lecito solo al ricorrere di alcune condizioni, tratte in parte dalla giurisprudenza UE in materia di rivendita e di repackaging.
Come evitare gli abusi
Le condizioni potrebbero essere che:
- il prodotto oggetto di upcycling sia effettivamente un bene che altrimenti diverrebbe un rifiuto (ciò che porterebbe ad escludere l’ammissibilità di operazioni come quella di Coperni con i jeans Levi’s, che a quanto pare non erano usati);
- il bene upcycled sia effettivamente commerciabile nel settore specifico di destinazione (e dunque per esempio che un bottone riutilizzato come orecchino rispetti le qualifiche richieste per la bigiotteria);
- non si possa verificare un rischio di confusione per i consumatori, per la sussistenza di indicazioni precise circa il fatto che si tratta di una operazione di upcycling, riferibile all’autore dell’upcycling stesso e non al titolare del marchio;
- non vi siano danni alla reputazione del titolare del marchio, per essere il prodotto oggetto di upcycling effettivamente dotato di creatività, e per l’assenza nello stesso di un effetto di svalutazione del marchio originale.
Conclusioni
In conclusione, forse è giunto il momento di riflettere in modo organico su di un nuovo, adeguato bilanciamento degli interessi in campo, fra diritti esclusivi di proprietà intellettuale da un lato e tutela dell’ambiente, protezione della libertà di espressione e creatività dall’altro lato, consentendo quelle operazioni di upcycling che davvero diminuiscano i rifiuti nell’ambiente e contemporaneamente siano espressione di un valore aggiunto. In chiusura va detto, tuttavia, non è con questo tipo di upcycling (evidentemente destinato ad essere limitato a poche iniziative di alto livello) che si può sperare di risolvere il problema degli scarti della moda. Per farlo bisognerebbe spingersi oltre, e quindi per esempio prevedere una vera e propria eccezione di upcycling (che possa essere applicata al ricorrere di minori condizioni rispetto a quelle sopra elencate), senza dimenticare il ruolo determinante della riduzione dei consumi tramite la modifica delle abitudini di acquisto e di uso, nonché della tecnologia, che dovrà essere sostenuta al massimo per individuare tecniche pulite di ottimizzazione nel riciclo dei beni usati.