la riflessione

Come ho smesso di aver paura dell’algoritmo cattivo

Non tutti gli algoritmi vengono per nuocere. Quelli che usiamo quotidianamente e da (quasi) sempre, altro non sono che procedure definite che sulla base di dati iniziali forniscono dati univoci. Non manipolano l’opinione pubblica, non decidono per noi. Non dovremmo preoccuparci di loro, insomma. Ma ecco, piuttosto, di cosa

Pubblicato il 10 Ott 2018

Alberto Berretti

Dipartimento di Ingegneria Civile ed Ingegneria Informatica, Università di Tor Vergata

algoritmi

Non è l’algoritmo a perpetrare manipolazioni dell’opinione pubblica: è chi sapientemente lo gestisce e lo orienta, magari da una palazzina nella periferia di S. Pietroburgo.

Entusiasmo sfrenato vs critica pessimista

C’è un sentiero stretto per il quale dobbiamo spesso passare se vogliamo comprendere il significato delle trasformazioni sociali indotte dal digitale. La maggior parte dei commenti, infatti, e delle interpretazioni dei fenomeni, sono fortemente polarizzati (e come ti sbagli) tra due posizioni apparentemente opposte: l’entusiasmo sfrenato e la critica pensosa e pessimista.

Non è un fenomeno nuovo, tant’è che ne parlammo oltre venti anni fa (“L’Italia, ovvero, la forbice arretratezza-iperinformazione”, in “Avvisi ai Naviganti” di A. B. e V. Zambardino, 1996, 2nd ed., p. 12; se oggi non si può parlare di fenomeno solo italiano, da noi si toccano comunque delle vette). Puntualmente il fenomeno si ripete, ogni volta che una novità scuote la placida ed incontenibile avanzata delle tecnologie digitali nella realtà di tutti i giorni, e ogni volta che un problema di qualche genere, specie se ha a che fare con la sicurezza, coinvolge qualche contrada della vasta infrastruttura digitale che caratterizza la nostra era.

Pensiero analogico vs pensiero analitico

L’idea di qualche startupparo fa presto a diventare novità epocale (e mai l’espressione disruptive technology, introdotta 23 anni fa dal celebre saggio di Bower e Christensen sulla Harvard Business Review è stata più abusata) ed una banale pietruzza nel cammino della digitalizzazione di questo o quel settore è vista come se il cielo dovesse cadere da un momento all’altro. In Italia, seguiamo in questo una tradizione che parte perlomeno dalle polemiche tra Niccolò Tommaseo e Giacomo Leopardi quasi due secoli fa.

La soluzione a questo dovrebbe essere, in teoria, abbastanza semplice: non abbandonarsi al pensiero analogico («Deve essere così perché c’è stato un caso simile in cui era così») ma seguire rigorosamente il pensiero analitico, e cioè capire sia le tecnologie sia i meccanismi sociali e studiarne in modo appunto analitico le interazioni, come un qualsiasi fenomeno naturale. Ovviamente, si tratta di una facilità tutta teorica perché l’analogia sta sempre in agguato a fornire una qualche scorciatoia.

IoT, se anche la lavatrice è WiFi

E così, la questione oggi è il rischio al pubblico per le cosiddette tecnologie IoT, “Internet of Things“, e dunque tutti quei gadget di ogni genere che sono pesantemente controllati mediante strumenti digitali e a questo punto, perché no, collegati in rete. Chi scrive ha comprato recentemente una nuova lavatrice, e girando per il negozio di una nota catena di elettronica domestica, ha osservato che quasi la metà delle lavatrici in vendita erano dotate di connessione WiFi. Uno si può chiedere a cosa possa servire collegare in rete una lavatrice, e può anche riderci sopra, poi però basta riflettere sulla comodità di procedere alla programmazione dei cicli di lavaggio mediante app dedicata su smartphone, piuttosto che con bottoni e manopole, per capire che si tratta davvero di una innovazione utile.

Partiamo dunque da un articolo del Guardian (“Rise of the machines: has technology evolved beyond our control?”) pubblicato lo scorso 15 luglio. L’autore, James Bridle, è un artista inglese ed autore del libro, di prossima uscita, “New Dark Age”, i cui titolo dice tutto (“Nuovo Medioevo”). Bridle spazia tra fenomeni tra di loro piuttosto lontani.

Da una parte abbiamo i falsi cartoni di Peppa Pig che si possono trovare su Youtube, che l’intelligenza artificiale di Google non è in grado di distinguere da quelli veri e pertanto vengono a volte consigliati ai bambini quando si tratta, ovviamente, di una visione altamente sconsigliata ai piccoli, dall’altra il fenomeno della manipolazione dell’opinione pubblica sui social network.

Non vengono tralasciati i fenomeni che accadono in finanza a causa dell’HFT (High Frequency Trading), e cioè il trading di titoli affidato a bot, a programmi che sulla base di criteri stabiliti dal trader compiono le transazioni in automatico nel momento migliore, sfruttando fluttazioni che avvengono anche su scale di tempo piccolissime. Non sfugge all’attenzione dell’autore l’onnipresente cloud – che però non è niente di trascendentale: il cloud è semplicemente il computer che qualcun altro ci presta, e mutatis mutandis è un concetto vecchio quanto l’informatica stessa; semmai ci sarebbe da chiedersi dei perché della ricentralizzazione dell’informatica nell’era post-PC.

Non poteva mancare l’intelligenza artificiale di Google e gli smart speaker che dialogano da soli (ma qualcuno ha iniziato la conversazione, e soprattutto qualcuno li ha programmati: se i due smart speaker che hanno dialogato per giorni in diretta su Twitch fossero stati programmati in modo leggermente diverso, si sarebbero sicuramente comportati in modo diverso). Fortunatamente manca la blockchain.

L’algoritmo non è un virus (e non decide per noi)

Ora, c’è oggettivamente un fenomeno che va compreso, esistono tendenze sociali spinte dalla digitalizzazione di settori sempre più ampi della società che devono essere analizzate. Ma l’analisi non può ridursi a lamentarsi dell’algoritmo come fosse un virus introdotto dal digitale nella società. Un algoritmo è una cosa molto semplice: è, piuttosto rozzamente ma qui nessuno fa il matematico, una procedura definita in modo preciso che sulla base di dati iniziali fornisce dei dati univoci in un tempo finito.

Gli algoritmi li usiamo quotidianamente e da (quasi) sempre. Tutto sommato, quando con la lavatrice – non WiFi! – programmo un lavaggio per capi delicati girando rotelle e premendo pulsanti, sto impostando un algoritmo. Quando l’auto decide quanta benzina miscelata con quanta aria deve iniettare nel motore nell’istante in cui accelero, c’è un algoritmo.

E qui tocchiamo con mano un altro aspetto: l’utilizzo di metafore antropomorfe che sono fuori posto, anche se entrate nell’uso e difficilmente evitabili. Non è “l’auto” che decide come miscelare benzina ed aria quando pigio l’acceleratore, e nemmeno l’ECU (Electronic Control Unit) che controlla l’iniettore. È chi ha scritto il software per la citata ECU che ha deciso come la benzina va dosata e come deve avvenire l’accelerata. Così come il dialogo surreale fra gli smart speaker di Google dal vivo su Twitch non è autonomo, ma frutto di una programmazione, che può occasionalmente avere aspetti imprevisti (che possono eventualmente essere considerati bugs, errori).

Prendiamo un caso più scottante: la prevalenza dello scemo del villaggio globale sui social network (concetto già esplorato da Umberto Eco, più o meno). Le scempiaggini che una volta venivano dette al bar davanti ad un bicchiere di vino di troppo e che invece ora girano su Facebook, sarebbero un fenomeno relativamente innocuo – come taluni superficiali commentatori sostengono con insistenza. Se non fosse per l’algoritmo.

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