il giudizio

Decreto crescita e Fintech, la “sandbox” è un errore: ecco cosa servirebbe davvero

Creare un recinto speciale (come da emendamento al decreto) per chi sperimenta non farà grande il Fintech italiano. Serve piuttosto creare e adottare le migliori condizioni possibili di “normalità regolamentare” in cui far operare piccoli e grandi. E l’apertura di una filiera del venture business di classe internazionale

Pubblicato il 24 Mag 2019

Gianmarco Carnovale

Serial tech-entrepreneur

fintech_district

La scelta di istituire un regime cosiddetto di “sandbox” (vacanza regolamentare) per il settore Fintech – come da recente emendamento della Lega al decreto Crescita – per permettere di sperimentare servizi innovativi in un settore altamente regolamentato e vigilato, è a mio avviso profondamente sbagliata.

L’obiettivo, così facendo, sarebbe di sviluppare in Italia il settore per competere internazionalmente. Ma sarebbe un errore strategico per tutto il settore Fintech che nasce – come molte altre policy sbagliate nello sviluppo di impresa negli ultimi anni – dall’ignorare i principi basilari e le pratiche internazionali del venture investing, che è il macro trend all’interno del quale devono essere contestualizzati tutti i verticali dell’economia dell’innovazione.

Come funziona il venture business

Facendo un brevissimo riepilogo su come funziona il venture business: questo si fonda sulla logica dei round di investimento successivi e crescenti, per stage di avanzamento e maturazione, e prevede quasi senza eccezioni il primo passaggio della validazione dell’idea, poi del modello di business, e infine il passaggio alla crescita.

La validazione dell’idea si effettua quasi sempre “astraendo” la stessa e andando per similitudini, senza realizzare il vero prodotto ma una sua approssimativa concettualizzazione (il cosiddetto Minimum Viable Product o MVP nel gergo di settore), e delle volte anche un semplice “falso prodotto” veicolato attraverso una pagina web che finge di venderlo su una sufficiente base di potenziali clienti, da cui misurare facilmente quante persone lo avrebbero acquistato. Le dinamiche del venture vogliono che in questa fase si investano cifre molto molto piccole, nell’ordine di qualche decina di migliaia di euro e denominate pre-seed, che fanno abbandonare a cuor leggero il progetto se questo si rivelasse non gradito.

Solo a quel punto si passa ad un rischio maggiore, raccogliendo un nuovo investimento per realizzare un “prototipo vendibile” e fare un vero market test. La dimensione di questo investimento denominato Seed è direttamente collegata all’onerosità del settore e, internazionalmente, può variare dal centinaio di migliaia di euro fino a pochi milioni.

Uno dei principi fondanti ed inderogabili di questa fase, però, è che il prodotto può essere anche parziale, ma deve assolutamente essere testato in un “real market environment”.

Altrimenti nessun investitore della fase successiva sottoscriverà un Round Serie A, le cui regole della gestione del rischio prevedono che siano soldi che vanno sul piatto solo per la crescita e senza altre incognite.

Perché la sandbox è una prigione per le startup

Ora, bisogna sottolineare l’ovvio: creare una sandbox – o “vacanza regolamentare” – per un settore altamente regolamentato e di difficile accesso è – di fatto – far sperimentare il prodotto/servizio in una situazione irreale, del tutto scollegata dalle dinamiche in cui si andrebbe ad operare.

Una fase in cui si richiede un prodotto avanzato e funzionante, quindi successiva alla validazione dell’idea in cui basterebbe un concept e quindi di eccessiva onerosità per essere la prima, ma contemporaneamente non utile a dimostrare che il modello di business è sostenibile in un reale contesto di mercato. Quindi operare nella sandbox sarà contestualmente troppo costoso in termini di investimento e tempo per essere in fascia pre-seed e perfettamente inutile per essere in Seed e non porterà a raccogliere gli investimenti per poi sviluppare mercato.

Ma c’è di peggio: oltre ad essere uno strumento inutile la sandbox, ove resa accessibile da investimenti raccolti su una base che ignora questi principi, sarà molto probabilmente una prigione per chi è privo di risorse per “fare sul serio”, che per uscirne avrà solo la via di appoggiarsi ad operatori già strutturati e vigilati, cedendone il grosso del valore come avviene sempre quando si opera al di fuori del venture business. Oppure più semplicemente avrà l’effetto di regalare spunti ad altri per copiarli. Non sposando i principi chiave del venture business come quadro di riferimento, quindi, ancora una volta avremo generato un settore industriale nano che anziché competere con il resto del mondo così come si dichiara, al più sarà a servizio degli operatori già grandi ed in grado di affrontare una regolamentazione tra le più onerose al mondo.

Cosa serve davvero per fare grande il Fintech italiano

Il principio della iper-regolamentazione è ormai globalmente riconosciuto come uno sbarramento alla nascita e crescita di nuovi entranti, e di fatto è sostenuto solo in quei paesi dove il legislatore agisce solo a favore di chi è già grande, che invece non ha problemi a scavalcare soglie di accesso elevatissime. Ma ormai è storia che la maggior creazione di valore in mercati esistenti la facciano i nuovi entranti “game changer”, quindi una nazione competitiva deve fare di tutto per favorire la nascita e soprattutto la crescita veloce di nuovi soggetti, semplificando le regole di ingresso e spostando gli effort di regolamentazione sul controllo a posteriori. Peraltro, l’iper-regolamentazione della finanza in Italia non ha impedito nessuna delle grandi frodi finanziarie, quindi difenderla è un principio che poggia sul nulla.

La soluzione per rendere grande il Fintech italiano, insieme a qualsiasi altro settore verticale con un potenziale nel paese, non passa dunque per creare un recinto speciale per chi sperimenta, bensì sull’adozione e creazione delle migliori condizioni possibili di “normalità regolamentare” in cui far operare piccoli e grandi, abbinate allo spalancare le porte ad una filiera del venture business di classe internazionale.

È necessario un alleggerimento generalizzato dei vincoli per il settore per tutti gli operatori, abbassando le soglie di accessibilità al mercato reale. Gli unicorni esistenti nel Fintech globale non hanno sfruttato delle sandbox, bensì le normali regole di mercato afferenti al proprio paese di partenza, che sono tutte drasticamente meno rigide di quelle che valgono per chi cerca di fare la stessa cosa partendo dall’Italia, e che nel nostro paese arrivano poi ad operare – grazie ai trattati internazionali – con le proprie regole di origine e senza soggiacere alle nostre.

Lo schema regolamentare e normativo che stiamo mantenendo, anche con la sandbox, non serve altro che a farci rimanere un facile terreno di conquista per i nuovi giganti esteri, contemporaneamente impedendo che ne nascano in Italia e che sperino di andare a conquistare l’estero. È comprensibile che molti operatori privi di visione di insieme ambiscano a questa sandbox come un assetato nel deserto ambisca a trovare una piccola oasi. Ma l’oasi gli darà solo una vita effimera in cui sarà imprigionato senza dargli una vita reale.

Forse è ora di smetterla di farci del male da soli, e che lo Stato punti ad una semplificazione delle regole ben più semplice del rendere coltivabile il deserto.

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