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Startup, i loro tre errori più frequenti e come evitarli



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Giovani, inesperte, creative e spesso fragili: le startup innovative in Italia crescono ma devono fare i conti con l’alto tasso di mortalità e la possibilità di non sopravvivere. I tre errori da non commettere

Pubblicato il 17 ott 2023

Federico Belli

COO e CO-Founder di Peekaboo



start-up innovative - Venture Investing term sheet - ESG

L’Osservatorio trimestrale sul venture capital in Italia, realizzato da Growth Capital e Italian Tech Alliance, evidenzia che nel secondo trimestre 2023 sono stati 273 i milioni di euro investiti in startup, rispetto ai 204 milioni del trimestre precedente. Inoltre, si è registrato un aumento del 34% in startup e Pmi innovative, con 70 round d’investimento, di cui 13 round di Serie A e 2 di Serie B.

Facendo un passo indietro, già durante il terzo trimestre del 2022 in Italia si era registrata una crescita delle startup innovative, che hanno raggiunto il numero di 14.708, con un valore medio di produzione di circa 211.000 euro. Se il mercato risulta vivere quindi una fase di crescita, è anche vero che studi recenti, curati da Startup Genome, hanno dimostrato come le startup innovative abbiano un tasso di mortalità a 18 mesi dalla nascita di circa il 92%: ciò significa che solo 8 su 100 riescono a sopravvivere.

I tre errori più frequenti commessi dalle giovani startup

Come è possibile quindi riuscire a far sopravvivere la propria startup durante la primissima fase di vita aziendale? Secondo l’incubatore Peekaboo, i giovani startupper commettono di frequente tre errori nel primo periodo di vita della propria realtà.

  • Non investono nella formazione imprenditoriale. Laddove si ha una mancanza di esperienza, infatti, il rischio di fallimento dell’iniziativa nei primi mesi è altissimo. Delle startup che riescono a sopravvivere, infatti, il 18% è composto da first-time-founders. Questo dato aiuta a capire ancor meglio come investire nella comprensione delle terminologie, delle good-practices, dei processi, delle metodologie e dei framework sia necessario per aumentare le possibilità di successo dell’iniziativa imprenditoriale. Se si è alle primissime armi è quindi utile fare un lavoro di conoscenza preliminare, mentre se si è già in possesso delle competenze necessarie si può eludere questo step e andare direttamente a lavorare sul business model. Startup diverse necessitano quindi interventi differenti, motivo per cui la metodologia standardizzata risulta ormai obsoleta, rendendo al contrario necessario un percorso di pre-accelerazione personalizzato e flessibile.
  • Pensano che l’unico obiettivo sia quello di trovare fondi per i propri progetti. Sebbene le risorse finanziarie siano imprescindibili per avviare le operations, fare fundraising su un progetto non validato costituisce una gran perdita di tempo ed espone gli imprenditori a rischi di reputazione. Al contrario, i founders dovrebbero prima individuare il mercato di riferimento e gli early adopters che intendono servire, sperimentare diverse value proposition, diverse strategie di acquisizione e diversi business model. Solo una volta determinato il miglior modello ci si può presentare “dati alla mano” dagli investitori.
  • Legato a quest’ultimo fattore vi è il rischio che, se si dà una cattiva impressione ad un investitore – essendo il mercato delle startup non ancora così ampio – questo può influenzare anche l’idea di altri investitori. Obiettivo degli incubatori è quindi cercare di evitare questo scenario, facendo comprendere alle startup che si affidano a loro quando è il momento giusto per parlare con gli investitori e suggerendo i più adatti a seconda del settore in cui operano e della fase di vita in cui si trova la startup.

Nuovi percorsi per nuove esigenze di mercato

Se da una parte le neonate startup non possono non tenere a mente questi errori quando si trovano nella loro primissima fase di vita aziendale, è anche vero che coloro che si occupano di offrire percorsi di pre-accelerazione non possono prescindere dai cambiamenti di mercato e dal contesto in cui queste nascono e germogliano.

I programmi di pre-accelerazione utilizzati fino ad oggi hanno avuto una formulazione standardizzata, basata su sei sprint, ciascuno della durata di tre mesi. Questa si applica alle diverse tipologie di startup, indipendentemente dalla specificità di business. Inoltre, fino ad oggi il modello di riferimento per l’accelerazione di startup ha previsto un programma orientato a un unico obiettivo finale, ossia il pitch day: si tratta del giorno in cui la realtà presenta il proprio progetto a una platea indistinta di potenziali investitori. Questo momento sancisce la risoluzione del rapporto tra startup e incubatore. Oggi, però, risulta più funzionale prevedere un vero e proprio percorso personalizzato che, attraverso mentor ed esperti del settore, sappia accompagnare passo dopo passo la singola startup nel corso di tutto l’iter, dalla determinazione del team, alla validazione del business model, sino al posizionamento nel mercato e al raggiungimento di investimenti.

È infatti necessario passare ad un modello individuale, personalizzato, calibrato sulle caratteristiche del singolo progetto e finalizzato a una crescita reale e a una relazione studiata con investitori in target. Connesso al primo elemento, vi è il concetto di flessibilità: un percorso di pre-accelerazione, per essere efficace, deve permettere l’accesso e la defezione in qualsiasi momento. Proprio per la struttura standardizzata, invece, i tradizionali programmi di pre-accelerazione si caratterizzano per una scarsa flessibilità, legata alla fissità delle date di inizio, e dei progressivi step, del programma stesso.

Conclusioni

Per concludere, si può affermare che il mercato negli ultimi anni sia mutato e abbia subito una vera e propria rivoluzione dal punto di vista culturale. In particolare, gli anni della pandemia sono stati cruciali per comprendere quanto l’innovazione debba considerarsi centrale in Italia. Si è quindi smesso di essere autoreferenziali e ci si è aperti anche agli investimenti dall’esterno, accogliendo strumenti, persone, capitali e interlocutori internazionali. L’Italia si è spalancata quindi ad un mercato esterofilo e non più solo domestico che impone una ridefinizione di quei modelli consolidati, a favore di metodologie che meglio rispondono alle esigenze del mercato stesso.



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