Quando si analizzano i contesti e le condizioni che dovrebbero favorire la nascita e la crescita di progetti imprenditoriali ad alto tasso di innovazione – quelli che vengono comunemente chiamati “cluster” o “ecosistemi di innovazione” – si tende a focalizzarsi su alcuni aspetti importanti (la presenza di adeguati fondi di investimento, un set di regole e norme che tutelino la proprietà intellettuale, etc.), trascurando elementi essenziali quali la cultura e i comportamenti dei soggetti che affiancano gli imprenditori e che operano in questi ecosistemi.
Si tende, insomma, a mettere in secondo piano il fatto che l’innovazione è uno sport sociale, fatto di interazioni e relazioni volte ad abbattere vincoli e limiti al flusso di idee, di capitali e di talenti.
Diffondere e alimentare approcci e modelli di lavoro, tipici del mondo delle startup, e adeguati a un ambiente esterno sempre più mutevole e caratterizzato da elevata incertezza, deve diventare una priorità e una opportunità per manager e aziende.
Il sogno di ogni policy maker è replicare i tassi di crescita e la centralità delle startup che caratterizzano il luogo simbolo dell’innovazione: la Silicon Valley. Ed ecco plotoni di manager, executive, ex manager ed ex executive, in pellegrinaggio nei luoghi dove icone della rivoluzione digitale hanno visto la luce.
Località come Mountain View, Palo Alto, Santa Clara, San Francisco sembrano emanare una magia che, erroneamente, viene spesso solo attribuita alla presenza di fondi di investimento e corporate illuminate (e quasi sempre ex startup quali Google, Apple, Salesforce, etc.).
Oggi è disponibile una corposa letteratura che ha cercato di individuare gli attori e le condizioni necessarie per spiegare il successo di alcuni cluster di innovazione, “hot spot dove nuove tecnologie crescono a una velocità sorprendente e dove pool di capitali, expertise e talenti alimentano lo sviluppo di nuove industrie e nuovi modi di fare business”[1].
Il mondo non è piatto quando si discute di innovazione e startup, soprattutto di quelle che si trovano nelle fasi iniziali (early stage), dove il contesto esterno – l’ecosistema – all’interno del quale operano può fare la differenza tra la vita e la morte.
Gli attori che fanno il successo di un ecosistema
Un ecosistema prevede la presenza di alcuni attori – stakeholder – in grado di condizionare il successo dell’area o il suo fallimento.
Quali sono quelli più importanti? Quali dinamiche innescare tra di loro?
Negli ultimi decenni i modelli descrittivi si sono arricchiti di nuovi soggetti per dare ragione, a posteriori, dei fenomeni che stavano emergendo.
Si è partiti da un semplice modello che vedeva la presenza di “industria” e “governo” (sicuramente la storia della Silicon Valley trova solide fondamenta nell’azione di questi due stakeholder), per passare al cosiddetto modello “Triple Helix” con l’ingresso delle università (Entrepreneurial University).
Brad Feld nel suo “Startup Communities”, suggerisce un modello al centro del quale porre, finalmente, il ruolo dell’imprenditore (che definisce “attore”) e individua altri stakeholder (che definisce “feeders”) importanti per alimentare un ecosistema sano e favorevole alla nascita e crescita delle startup. Un elemento importante evidenziato da Feld – e su cui ritorneremo – è non solo il ruolo dell’imprenditore ma, anche, le modalità di azione e comportamento di quest’ultimo, osservabili nelle aree di successo. Un recente studio – working paper del MIT Lab for Innovation Science and Policy[2] – ha definito i cinque stakeholder critici per il successo di un ecosistema di innovazione, andando oltre il modello della “Triple Helix”: Università, Imprenditori, Capitale di Rischio, Governo e Corporate.
La “network perspective”
Accanto a questi modelli focalizzati su quello che potremmo chiamare l’hardware necessario a un cluster di innovazione, è emersa un’altra linea di sviluppo – la “network perspective” – descritta da AnnaLee Saxenian[3], che evidenzia come nella Silicon Valley ci fosse la presenza di una densa rete di connessioni sociali e approcci diffusi nell’incoraggiare imprenditorialità e sperimentazione. Reti informali di comunicazione e di pratiche collaborative che alimentavano canali di relazioni orizzontali all’interno delle divisioni aziendali (il lavoro faceva emergere le differenze strutturali tra aziende della Silicon Valley verso quelle della East Cost) e, verso l’esterno, con fornitori e clienti. Una sorta di software che governava le componenti dell’hardware prima descritte.
Gli indizi emersi nel lavoro della Saxenian sui comportamenti sociali negli hub di innovazione come la Silicon Valley, sono confermati da un altro importante lavoro – The Rainforest[4] – che spinge ancora di più l’analisi partendo da una considerazione: “i sistemi umani diventano più produttivi se gli ingredienti di base dell’innovazione – talento, capitali e idee – sono messi nelle condizioni di fluire nel sistema velocemente”. La mobilità e la velocità con cui persone con talento, con capitali e con idee sono in grado di interagire è la scintilla che innesca un circolo virtuoso.
Avere – concentrati in un’area geografica – un numero significativo di persone, che lavorano in aziende coinvolte in progetti di innovazione (open innovation) e mettono in atto “reti informali di comunicazione e di pratiche collaborative” con startup e aziende concorrenti; insieme a un network di professionisti disposti a lavorare e collaborare con giovani startup con modelli di ingaggio diversi dai tradizionali (fee contenute o modelli che prevedano magari piccole quote in equity); con mentor provenienti dal mondo delle corporate, ma anche con un’esperienza di interazione con le startup, in grado di agire da “catalizzatori” del loro processo di crescita, può generare un effetto moltiplicatore in grado di abbattere “i costi di transazione invisibili” causati dalla mancanza di fiducia, di linguaggio comune o di reti sociali inefficienti (legate al proprio background di studio o lavorativo).
Competenze e condivisione: la startup experience
Non è possibile limitarsi a individuare quello che abbiamo chiamato l’hardware senza perseguire la necessaria massa critica e densità di soggetti provvisti di creatività, business acumen, competenze tecniche, capitali che operano secondo modelli comportamentali e culturali orientati alla collaborazione e alla volontà di mettersi insieme per sviluppare e far crescere idee trasformandole in aziende.
Le competenze sono importanti e la crescita di un ecosistema di innovazione è guidato proprio da quella variabile che Startup Genome[5] indica come Startup Experience, cioè l’esperienza generata attraverso le storie di exit (vendita di quote o dell’intera azienda), ma anche attraverso l’impegno e l’azione degli imprenditori nella condivisione di esperienze e conoscenze nel creare e strutturare una startup; nella diffusione – ad esempio – della conoscenza delle metodologie della Lean Startup, di Customer Development e, in generale, di quel corpo di pratiche che vanno sotto il nome di Entrepreneurial Management.
Oggi la carenza di cultura imprenditoriale è vista come un gap da colmare all’interno delle aziende ed è diventato
fondamentale affiancare al management tradizionale, adatto a contesti con bassa incertezza, un nuovo corpo di pratiche ed esperienze: l’Entrepreneurial Management, per l’appunto.
In un mondo caratterizzato da volatilità e modelli di management incentrati su ottimizzazione e de-risking – qualcuno parla di “illusione sovietico-harvardiana” – sarà essenziale innestare sensibilità e conoscenze tipiche di contesti dove l’incertezza di mercato e tecnologica è la norma; dove, più che business plan, si cerca di sviluppare modelli di business e non rimanere paralizzati in complesse e statiche analisi, ma progettare esperimenti veloci e frugali; dove alla presunzione di poter “prevedere cosa vorranno i nostri clienti” si sostituisce l’umiltà di generare modelli di interpretazione del mondo che andranno testati e validati.
Assisteremo ad una evoluzione del CXO da “Chief Decision Maker” al Chief Experimenter”.
Le corporate – le stesse descritte come stakeholder importanti nei modelli degli ecosistemi prima descritti – dovranno quindi contaminarsi con una cultura e con modelli o, meglio, le persone al loro interno. Maggiore il numero di corporate e manager “contaminati”, maggiore sarà la “densità” – sintetizzata nella Startup Experience – e quindi la maturità di un ecosistema di innovazione.
Come preparare manager, executive – magari temporaneamente fuori dal mercato del lavoro – ad acquisire approcci imprenditoriali? Figure con un mix di esperienza aziendale e, allo stesso tempo, sensibilità e conoscenza delle regole di ingaggio con startup, in grado di innestarsi in team imprenditoriali per supportare la crescita dei loro progetti? Una classe di entrepreneurial manager motivati a entrare in progetti ad alto potenziale, magari non con salari elevati e per pochi anni, accettando la sfida che comporta trasformare una startup in un’azienda.
Le startup sono ricche di complessità da affrontare, dal disegno di ruoli e processi aziendali alla definizione dell’approccio al mercato, in situazioni di continuo cambiamento che richiedono grande flessibilità e pongono nuove sfide ogni giorno. È necessario, quindi, prima conoscere strumenti e metodologia per comprendere le dinamiche, le criticità e il valore di una startup.
L’Entrepreneurship Lab del PoliHub
Da anni PoliHub – l’Innovation Park e Startup Accelerator del Politecnico di Milano – cerca di contribuire alla diffusione delle pratiche e delle metodologie emergenti dal mondo delle startup, forte di una quotidiana esposizione a progetti innovativi (ricevendo in media oltre mille candidature all’anno) e alla relazione con corporate interessate a progetti di collaborazione con startup e scouting di tecnologie di frontiera. E ponendosi come “giunto” ideale tra questi due mondi, facendo leva su una community di mentor e startup expert in linea con i profili di quegli entrepreneurial manager che abbiamo visto essere un elemento essenziale in ecosistemi di innovazione maturi.
Ma non ci si improvvisa mentor o startup expert. Ecco perché PoliHub ha da anni elaborato un percorso strutturato – dedicato esclusivamente a persone con una significativa esperienza lavorativa e di management, e desiderosi di conoscere ed interagire con startup spesso nelle fasi iniziali – di dieci settimane: l’Entrepreneurship Lab, attraverso il quale i futuri startup expert inizieranno ad applicare la pratica e la cultura emergente dal mondo delle startup.
Perché la cultura si impara non con un approccio top-down, bensì attraverso pratica e role modeling.
L’Entrepreneurship Lab vuole alimentare la crescita di una generazione di potenziali entrepreneurial manager, in grado di velocizzare il flusso di idee, capitali e talenti coniugando competenze ed esperienza con umiltà, ascolto, passione e coinvolgimento. In altre parole, praticando quei comportamenti virtuosi al centro, forse, del segreto del successo di alcuni hub di innovazione in giro per il mondo, e testimoniando che l’innovazione è uno sport dove conta la squadra.
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- Global Cluster of Innovation: Lessons from Silicon Valley; University of California Vol. 57, no2 Winter 2015 ↑
- MIT’s Stakeholder Framework for Building & Accelerationg Innovation Ecosistems, April 2019, Dr. P. Budden, Prof. F. Murray ↑
- Inside-Out: Regional Networks and Industrial Adaptation in Silicon Valley and Route 128 ↑
- The Rainforest, V. Hwang ↑
- Global Startup Ecosystem Report 2017, Startup Genome ↑