Startup e PMI Innovative: è divenuto lampante durante l’ultima fase della scorsa legislatura come le norme nazionali attuali, alcune anche sensate ed utili, costituiscano un perimetro disordinato e nell’insieme poco incentivante per lo stimolo di nuova impresa e innovazione.
Gli ultimi dati delle startup sono negativi
Nell’ultima relazione annuale, il Mise stesso evidenziava che su oltre 8.000 startup innovative nominalmente registrate, il fatturato medio di queste era di poco superiore a 155.000 euro ciascuna, che gli impiegati fossero solo 45.000, ma soprattutto che meno di 700 avessero ricevuto investimenti in capitale di rischio da soggetti terzi. I numeri dell’altro registro, quello delle più recentemente definite PMI innovative, sono ancora più avvilenti, con un database popolato da poche decine di società. Ricordiamo che nel mondo, una startup è tale se è un progetto di impresa normalmente basata su innovazione e che persegue un modello di business replicabile e scalabile globalmente. Cioè criteri di output. In Italia, invece, una startup è tale se soddisfa una serie di criteri burocratici richiesti per essere inserita in un registro. Cioè criteri di input.
Ebbene, Una lettura ragionata del numero di investimenti sul totale delle startup ci dice che c’è innanzitutto un problema di perimetro: è troppo facile entrare nella definizione anche se non si è una “startup” secondo i criteri internazionali e non si possiedono quindi i requisiti per intercettare investitori in capitale di rischio. E’ talmente facile che basta dotarsi di un oggetto sociale scritto bene, di un’autocertificazione dell’amministratore sull’ammontare della spesa in ricerca e sviluppo, e del deposito di una qualsiasi proprietà intellettuale (anche poche righe di codice dentro un cd depositato in SIAE e che nessuno verificherà mai) per entrare nel più ambito registro delle Startup Innovative, che si riempie di imprese che dovrebbero, invece, popolare il desertico registro delle PMI Innovative.
Si narra di studi di consulenza che si vendono il “pacchetto startup innovativa” con grande scioltezza, ed effettivamente se si tenta una qualsiasi analisi qualitativa sul registro c’è da mettersi le mani nei capelli: l’attività predominante è quella della consulenza informatica, attività che per definizione non rientra negli interessi degli investitori professionali, non essendo scalabile.
Il caos del mercato startup italiano: 7 punti
Ma i problemi non si fermano qui: non appena si alza lo sguardo dai registri e lo si posa sul mercato, balza all’occhio che:
- non c’è coerenza tra le definizioni e alcuni sgravi
- che alcuni incentivi offerti sono sbagliati o parziali
- che c’è disallineamento tra strumenti di sostegno nazionali e locali
- che c’è scarsissima attenzione ai benchmark internazionali
- che ci sono agenzie pubbliche che vanno ognuna per la propria direzione, ministeri che vogliono aprire acceleratori, fondi pubblici che si mettono a fare concorrenza ai già pochi privati, CONSOB che tenta timidamente di snellire e Banca d’Italia che invece ostacola
- la scarsissima liquidità che costringe gli acceleratori a vivere di consulenza e di coworking, drenando dalle startup le risorse economiche che dovrebbero invece immettervi
- la competizione al contrario sul mercato dei capitali, in cui i venture capitalist – anziché sbrigarsi a chiudere deal con le migliori imprese – possono permettersi di tergiversare molti mesi ed alzare continuamente l’asticella delle richieste prima di decidere un investimento che altrove si chiuderebbe in poche settimane.
In poche parole: caos e scarsa cognizione di causa, che a loro volta generano scarsa qualità soprattutto degli investitori, e di conseguenza delle startup, perché le migliori se ne vanno. Soffriamo l’evidente mancanza di un centro di competenza che faccia strategia e regia dell’insieme, armonizzando le misure e le diverse mani pubbliche tra loro e con le practice internazionali, e subiamo invece una situazione che genera una grandissima confusione, con risorse sparse a pioggia e sui più furbi a discapito di chi meriterebbe di più. L’ovvia conclusione è osservare l’Italia nel suo complesso che rimane fanalino di coda di tutti gli indicatori internazionali su nuova impresa e capitale di rischio, ad una distanza umiliante da economie molto minori.
Che deve fare il nuovo Governo: quattro cose
Che fare, quindi: beh, innanzitutto il nuovo Governo dovrebbe istituire un sottosegretariato alle startup ed al venture business, che – per trasversalità dell’argomento – sarebbe bene nascesse in Presidenza del Consiglio e non in uno specifico Ministero. Una ormai obbligatoria revisione del quadro legislativo su questo tema sarebbe così ampia da toccare aree di pertinenza di Sviluppo Economico, Economia e Finanze, Interni, Esteri, Università e Ricerca, Welfare, e soprattutto competenze di Banca d’Italia.
Assunto che le startup nell’accezione internazionale sono dei tentativi di lancio di imprese globali che – se hanno successo – quasi non passano nemmeno per la fase PMI, la revisione dovrebbe mirare tanto a restringere i criteri per definirsi startup – ed aumentare drasticamente gli incentivi per queste e per chi vi ci investe – quanto a riorganizzare le sfortunate PMI innovative, tentando in questa nuova categoria a perimetro controllato, tramite un’adozione spinta del digitale, di sperimentare nuovi tipi di equilibrio tra cuneo fiscale sul lavoro, fiscalità d’impresa e burocrazia, facendone uno schema pilota da estendere alle imprese in generale.
Poi questo sottosegretariato dovrebbe probabilmente studiare una riorganizzazione tra i poteri delle troppe istituzioni che si sovrappongono, aggregando delle funzioni – oggi sparpagliate – in una nuova agenzia nazionale in grado di costruire una strategia di classe globale per il sostegno alle imprese innovative e che incorpori anche la governance su quei veicoli finanziari oggi in pancia a CDP (FII e Sace Simest) che andrebbero riposizionati.
Infine, questa agenzia dovrebbe creare un “pacchetto” di politiche territoriali che andrebbero implementate da quei territori in cui si creino le condizioni per ambire a sviluppare degli hub, attraverso solidi schemi di collaborazione pubblico-privata, e su cui concentrare incentivi nazionali.
Occuparsi di ecosistema startup richiede una competenza specifica ed una visione d’insieme che passano necessariamente per esperienza nel settore: troppi in questi anni hanno fatto e stanno facendo l’errore di ritenere che si possa governare questo ambito arrivando direttamente da settori attigui, come il Private Equity, che invece condividono poco o niente con i paradigmi e la velocità della filiera del venture business, in cui o si gioca con le regole e la velocità con cui gioca il resto del mondo oppure è meglio non entrare in gioco. Il Portogallo per entrare in partita ha creato l’agenzia Startup Portugal, direttamente afferente al Sottosegretario alle Startup, e ne ha affidato la guida al mio amico Simon Schaefer, già fondatore di Factory ed animatore della Silicon Allee, il distretto startup di Berlino. La politica italiana ha il pessimo vizio di affidare ruoli importantissimi a personaggi che siano soprattutto fidati, e se possibile competenti. Almeno in questo caso sarebbe il caso di ribaltare i fattori: qualcuno ha parlato della necessità di una Banca pubblica per gli Investimenti, io credo che serva molto più un centro di pensiero strategico ed una governance univoca e supercompetente su incentivi ed investimenti, quantomeno su quelli per le startup ed il venture, senza perseguire l’ennesima duplicazione o l’ennesima nomina improbabile.
Le organizzazioni pubbliche che oggi occupano un ruolo di gestione o di influenza sulla filiera del Venture Business in Italia:
- Invitalia
- Invitalia Ventures
- Mediocredito Centrale
- ICE-Italian Trade Agency
- Cassa Depositi e Prestiti
- Fondo Italiano d’Investimento
- Sace Simest
- Banca d’Italia
- CONSOB
Investimenti annuali in Venture Capital pro capite (2016):
- Israele: €313
- USA: €231
- Sweden: €160
- UK: €49
- France: €41
- Spain: €13
- Portugal: €4.3
- Italy: €2.7
- Box 3