l'analisi

Startup, non c’è nessuna crisi dei capitali: ecco la realtà (complessa)

Gli investimenti startup negli USA sono sì diminuiti, ma la dimensione media di un round nell’anno in corso ha raggiunto nuovi livelli record in ogni stage. C’è una maturazione che farà bene alle startup e agli investitori più forti

Pubblicato il 16 Ago 2022

Gianmarco Carnovale

Serial tech-entrepreneur

Photo by Annie Spratt on Unsplash

La discussione più frequente nell’ecosistema startup italiano in questa prima metà di anno riguarda il presunto inverno dei capitali, causato dai cali di borsa, che per molti sarebbe da considerarsi confrontabile al crollo delle dot-com e alla crisi del 2008. Ma è davvero così, oppure no? La verità è che “dipende”.

Il modo in cui il tema viene dibattuto in Europa e – come sempre – in Italia è abbastanza approssimativo, basato su rilanci allarmistici di commenti pubblicati su giornali anglofoni sull’ultima notizia di settore, rilasciati da parte di analisti economici od operatori del mercato, ma spesso tradotti e riportati agli italiani decontestualizzandoli dal contesto più ampio ed estrapolandone frasi.

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Non c’è un inverno delle startup

La realtà più complessa è che non c’è una realtà univoca su cosa fare in questo momento, non perché non ci sia una verità assoluta ma perché la lettura dipende da un insieme di condizioni da calarsi sui singoli casi: che tipo di startup si è, in quale fase di maturità, in che settore e con quale modello di business si opera, e nel portfolio di quale investitore ci si trovi.

L’approccio è ancor più differente se il punto di vista che viene diffuso è quello dell’investitore, dove tutto cambia se si tratta di un family office, di un piccolo fondo di Venture Capital, se di uno di quelli di primo quartile, se un grande Private Equity o un hedge entrato nel venture investing, o ancor più se si parla del punto di vista di un investitore istituzionale che investe in questi soggetti come Limited Partner.

Silicon Valley

  • Se guardiamo all’ecosistema dal punto di vista delle startup perfino della Silicon Valley, queste stanno ricevendo segnali conflittuali tra la volatilità delle borse e i rumor di una prospettiva di recessione, rumor che però si scontrano con l’ammontare di capitali disponibili nelle casse degli investitori e con valutazioni che sono lungi dal contrarsi, come invece alcuni predicherebbero dall’Italia. Gli stessi Venture Capitalist statunitensi stanno dando consigli contraddittori: alcuni incoraggiando le startup a spendere velocemente per crescere, mentre altri diffondendo allarmi di una grave recessione che richiederà tagli dolorosi.

    Ma bisogna sempre tener presente i dati: gli investimenti in startup negli Stati Uniti nel secondo trimestre sono sì diminuiti del 23% rispetto a quello precedente e rispetto allo stesso trimestre dello scorso anno, stando ai dati rilasciati da Pitchbook.

  • Ma allo stesso tempo, la dimensione media di un round nell’anno in corso ha raggiunto nuovi livelli record in ogni stage di investimento. Questo è un segnale chiarissimo circa il fatto che gli investitori più solidi, che sono seduti su una quantità di liquidità immensa e in crescita, sono diventati più selettivi sul dove investire ma stanno anche concentrando maggiore quantità di denaro nelle operazioni che concludono.

Ricordiamoci un altro dato importantissimo: nel primo semestre di questo anno, in piena flessione del mercato finanziario, i gestori di Venture Capital statunitensi hanno raccolto dai propri sottoscrittori 122 Miliardi di dollari per nuovi fondi, cioè l’87% di quanto era stato raccolto in tutto il 2021 che era l’anno del record storico. Il 2022, quindi, si prospetta un nuovo anno record in barba alle Cassandre.

L’apparente paradosso è frutto della implicita conflittualità tra la tensione macroeconomica evidenziata nei cali di borsa, nell’inflazione e nell’aumento del costo del denaro, e quella cultura del cogliere grandi sfide ed opportunità che pulsa dietro alla struttura degli incentivi della Silicon Valley, che incoraggia quindi founders ed investitori ad investire molto per conseguire grandi crescite e ancor più grandi ritorni sul capitale.

Ma a ben vedere, la contraddizione sottolinea anche quanto l’attuale contrazione sia imparagonabile alle precedenti. Il mitologico e sempre citato scoppio delle dot-com era effettivamente quello di una bolla di ottimismo: non tanto sul potenziale prospettico quanto sui tempi di ritorno degli investimenti, dato che le web companies avevano bisogno che la popolazione mondiale accedesse agevolmente ad Internet per essere un mercato, cosa che all’inizio degli anni duemila era lungi dall’essere vera.

A sé stante è stata anche la crisi finanziaria del 2008, legata ad una fase in cui la finanza speculativa era arrivata a erogazioni di mutui a milioni di cattivi pagatori basate sull’assunto che il mercato immobiliare statunitense sarebbe cresciuto in eterno, e a mascherare questi crediti tossici dentro prodotti derivati venduti in tutto il mondo. Bisogna prendere atto che entrambe le situazioni non possono aiutare in alcun modo ad orientarsi nello scenario attuale, generato da una combinazione di cigni neri quali i due anni di pandemia che hanno contratto molti consumi e produzioni, e dall’ultimo imprevisto elemento scatenante che è stata l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia.

Questi fattori si sono uniti agli scenari inflattivi amplificandoli – anche se diversi tra USA e Europa, dato che l’inflazione americana è da crescita della domanda mentre quella europea è da scarsità di offerta – che a loro volta hanno generato un effetto di frenata nel quantitative easing ed un innalzamento del costo del denaro da parte delle banche centrali, effetto che però potrebbe essere molto più temporaneo di quanto si teme: lo scenario peggiore è già scontato dalla fortissima correzione delle borse, mentre tutti i dati strutturali quali tasso occupazione e produzione mostrano che di effetti sull’economia reale non se ne vedono, né negli USA né in Unione Europea, al di là dell’impennata nel costo dell’energia e di alcuni specifici prodotti alimentari. L’economia globale sembra dunque in ripartenza, anche se un po’ timorosa.

Le dichiarazioni di molti operatori qualificati del Venture Capital riportate sulla stampa confermano l’unicità di questo scenario, in effetti. Su tutti, Arun Mathew di Accel – uno dei più importanti gestori di Venture Capital globali – ha dichiarato alla stampa che  “non ci sia molto da prendere a spunto dalle precedenti crisi perchè questo momento particolare è davvero unico”, contraddicendo dunque tutti quelli che da mesi prevedono una scarsità di capitali netta e prolungata.

E se hanno fatto rumore i molti licenziamenti e tagli di personale di alcune startup – evidenziati però dai media senza alcun confronto con quelli di altri periodi – che hanno rivisto prudenzialmente i piani di penetrazione sul mercato, dall’altra parte molte startup hanno invece beneficiato di questi tagli potendo assumere molto personale qualificato che non risulta certamente essere rimasto disoccupato a lungo.

Non si sprecano gli esempi in un senso e nell’altro, e il riportarli singolarmente ponendoli a regola generale serve a niente di più che generare confusione in uno scenario in cui si deve essere in grado di distinguere i dati storici, aggregandoli e segmentandoli per settori maturi ed emergenti, e comprendendo che l’economia dell’innovazione si trasforma di continuo al mutare degli scenari, dato che intrinsecamente opera per inseguire e concretizzare le nuove prospettive che si delineano.

Ovvio che la comprensione circa il mutare delle prospettive, nel mercato dei capitali, non sia cosa per tutti, quantomeno non alla stessa rapidità: per gli imprenditori tech, gestire incertezze e vedere un futuro possibile è parte della forma mentis necessaria a fare il proprio mestiere; per i gestori di venture capital che arrivano da un percorso imprenditoriale, come tutti quelli di maggiore successo anche, con la differenza che si gestisce ulteriormente il rischio rispetto a quello della singola impresa con la diversificazione del portfolio. Ma per gli operatori della finanza non specializzati, che vivono di consuntivi e serie storiche e al massimo di prospettive trimestrali, la situazione è completamente differente. Difatti, perfino negli USA molti Limited Partners  stanno chiedendo ai gestori dei fondi Venture da loro sottoscritti di ridurre il ritmo degli investimenti, ma più per una reazione prudenziale e istintiva al mutato scenario che per dati oggettivi che lo giustifichino.

I gestori di fondi storici e più autorevoli possono permettersi di perseguire le proprie strategie anziché dover subire le indicazioni dei propri sottoscrittori, ma quelli più giovani o meno performanti subiscono queste pressioni. E se è un problema occasionale negli USA, quello dell’invadenza dei Limited Partners nel fare micro management non è da poco in Europa e ancor più in Italia, per esempio, dove gli investitori istituzionali pretendono di saperne del lavoro del venture capitalist più dei gestori, limitandone l’autonomia e di fatto danneggiando sé stessi causando delle profezie autoavveranti: un fondo di Venture Capital che non colga prontamente le migliori opportunità che può trovare, di fatto si pone al di fuori delle leggi di potenza ed abbassa le performance di rendimento senza ridurre il rischio.

Di fatto, soggetti blasonati e di indiscussa esperienza come Sequoia, Andresseen-Horowitz, YCombinator e molti altri stanno approfittando della frenata dei gestori minori, accelerando e ridefinendo perfino le loro fasi di ingresso nel capitale delle startup: i primi due introducendo degli strumenti di investimento pre-seed insieme a dei programmi di accelerazione, che non avevano mai avuto in passato, e l’ultimo – storicamente posizionato in tale fase – alzando il ticket di investimento. Per fare solo un esempio più approfondito su Sequoia, nella prima metà dell’anno ha fatto 22 investimenti in più dello stesso periodo dello scorso anno, diciassette dei quali legati al suo nuovo programma di accelerazione “Arc” con ticket da 1 milione ciascuno. Sequoia peraltro ha appena concluso a Luglio una nuova raccolta di dotazione 2.25 miliardi di dollari.

Il caso Softbank

E se all’altro opposto l’ultima trimestrale di SoftBank riporta 23 miliardi di Euro di perdite a causa delle svalutazioni delle partecipazioni in tech company quotate del suo Vision Fund, c’è da dire che gli investimenti di questo player sono sempre stati particolarmente criticati da tutti gli altri big, perché sempre volti a sopravvalutare iniziative basate su razionali deboli. Gli esempi spesso riportati di Uber e WeWork come segnali di una “bolla” per le loro valutazioni mostruose poi crollate, in realtà più che segnali di una generalizzata esagerazione del settore mostravano la spericolatezza di questo specifico soggetto e al massimo di un altro paio, che però più che operatori specialisti del Venture Capital sono degli enormi fondi crossover con dotazioni finanziarie elevatissime ma che investono senza una politica precisa, tendendo a sovraccaricare di liquidità i progetti in cui scelgono di entrare.

Una realtà complesso

In conclusione, sembra che l’unica generalizzazione che si può fare su questa fase anomala del mercato dei capitali per il settore tech sia che spesso la reazione alla turbolenza finanziaria è più legata alle convinzioni personali dei propri founder o degli investitori, che a criteri oggettivi.

Forse è il caso, quindi, di smettere di raccontare il settore portando a regola generale delle vicende particolari per dire la qualsiasi circa “le startup”, “il Venture Capital”, lo “scoppio della bolla”, “il tech”, e iniziare a guardare meglio a “quali VC”, “quali startup” e soprattutto quali settori tecnologici e mercati geografici si comportano in quale modo. La tecnologia non smette di evolversi, e quindi continua a creare opportunità di innovazione che vengono tentate da imprenditori visionari che creano nuove imprese di ambizione globale. L’alleanza di questi imprenditori con il capitale di rischio è un’opportunità crescente per tutti, oggi e per il futuro.

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