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Criptovalute arma “anti-pignoramenti”? Gli effetti sul rapporto tra creditori e debitori

In ragione della sua decentralizzazione, è quasi impossibile risalire alla reale identità del proprietario di un wallet di criptovalute e ancor più problematica appare la possibilità, anche per le autorità giudiziarie, di aggredire tali fondi. Esaminiamo gli effetti pratici nei confronti dei rapporti creditori e debitori

Pubblicato il 07 Lug 2021

Luigi Padovan

Avvocato e Data Protection Officer (DPO), Co-founder DPO Compliance Consulting

Startup - criptovalute - Fintech - blockchain - regolamento MiCa

Tra le novità portate dalla neonata rivoluzione delle criptovalute non sfugge il sempre crescente impatto di queste ultime nei confronti di ambiti sinora riservati al controllo e alla capacità di intervento degli ordinamenti nazionali; tra queste, emerge con una certa evidenza e una sempre più preminente incisività, per gli effetti pratici nei confronti dei rapporti creditori e debitori che ne possono conseguire, la particolarità relativa alla loro decentralizzazione.

A differenza di un tradizionale conto corrente infatti, un wallet – ovvero un portafoglio composto di criptovalute o anche di valute tradizionali – non è acceso presso un istituto di credito, né è possibile stabilire con esattezza dove esso si trovi, proprio in ragione della sua decentralizzazione.

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Il significato di decentralizzazione

Il paragone più semplice per spiegare il concetto di decentralizzazione può essere effettuato prendendo ad esempio la rete Internet. Come noto infatti, essa esiste e opera in quanto decentralizzata: non si trova né dipende da un singolo server o dalla posizione geografica di questo, essendo composta da tutti i computer e i dispositivi a essa collegati.

Dalla sua “smaterializzazione” dipendono poi la sua indistruttibilità e la sua immutabilità, oltre che l’assenza di un centro di potere che ne regoli in via esclusiva il funzionamento e ne vincoli in qualche modo il suo utilizzo a livello globale.

Allo stesso modo di Internet (ci vengano perdonate la semplicità e le imprecisioni di questa spiegazione, volta semplicemente all’immediata comprensione del fenomeno), le criptovalute non consistono in una valuta fisicamente esistente, come la moneta tradizionale e seppur posseggano un effettivo controvalore, né si trovano in un luogo fisico, in quanto la loro struttura e il loro metodo di funzionamento avvengono ed esistono proprio in ragione della loro decentralizzazione.

La decentralizzazione, poi, ne garantisce la sicurezza e l’affidabilità: ogni calcolo o transazione a esse relativo è e deve essere legittimato da una rete (dove in pratica tutti i nodi/computer a essa collegati concorrono alla loro verifica e alla loro validazione) e non da un’autorità centrale, di tal che attraverso la loro autodeterminazione è garantita l’esattezza delle informazioni a esse relative, assieme alla sicurezza informatica dell’intero sistema che ne regola il funzionamento, che risulta così inviolabile.

Infine, la decentralizzazione fa sì che non sia possibile per un’autorità nazionale o sovranazionale intervenire o interferire direttamente sul suo funzionamento, che rimane così svincolato da ogni controllo o regolamentazione in tal senso.

È pur vero che, nella gran parte dei casi, il wallet generato in una determinata criptovaluta viene gestito presso una società terza (Exchange), così potendosi definire un rapporto creditorio di tipo pseudo tradizionale tra la società in questione e il proprietario dei fondi, alla stregua, in termini generici, di un ordinario rapporto di conto corrente; eppure, anche in tali casi, sussistono delle evidenti particolarità.

Innanzitutto, a differenza di una posizione ordinaria accesa presso un istituto di credito, risulta difficilmente possibile risalire alla reale identità del proprietario del portafoglio, vista la frequente collocazione geografica estera di tali società intermediarie e le conseguenti criticità nell’ottenere tali informazioni; inoltre, ancor più problematica appare la possibilità per chicchessia, comprese le autorità giudiziarie, di aggredire ed eventualmente apprendere tali fondi, atteso che l’accesso ai portafogli in questione rimane nell’esclusiva e inderogabile disponibilità del proprietario delle sue chiavi di accesso, ovvero delle password.

Le password di accesso vengono inoltre a rilievo anche laddove si utilizzi un wallet hardware, attraverso cioè un dispositivo di tipo fisico che permette di archiviare al proprio interno le chiavi private di accesso e firmare digitalmente le proprie transazioni, in tal caso gestito autonomamente dal proprietario, senza necessità di intermediari.

L’inquadramento delle criptovalute nell’ambito dell’espropriazione forzata

Dalle pur brevi e semplici considerazioni appena espresse emerge con chiara evidenza l’impatto potenziale che tali strumenti finanziari portano con sé in ragione della loro stessa essenza.

Innanzitutto, sia qualora si intenda inquadrare sistematicamente l’eventuale azione esecutiva nei confronti del debitore detentore di criptovaluta quale esecuzione di tipo mobiliare, sia si intenda inquadrarla nell’alveo dell’espropriazione presso terzi, è evidente che in assenza di collaborazione da parte del debitore, allo stato non è possibile conoscere dell’esistenza di un portafoglio di proprietà del debitore stesso.

Dal punto di vista dell’esecuzione mobiliare, infatti, l’unica possibilità per l’ufficiale giudiziario di individuare ed eventualmente apprendere tale patrimonio sembrerebbe essere quella di reperire nei luoghi dell’esecuzione e ricondurre il dispositivo hardware-wallet al debitore personalmente, con conseguente possibilità di un suo pignoramento, il quale però, in mancanza delle chiavi di accesso, non sarebbe in alcun modo utilizzabile e utile ai fini della procedura, né per verificare l’effettiva esistenza di fondi al suo interno, né per conoscerne l’eventuale ammontare.

D’altra parte, anche se l’ufficiale giudiziario riuscisse a rinvenire negli stessi luoghi un appunto del debitore contenente le credenziali per accedere al wallet in questione, ne sarebbe preclusa l’apprensione, poiché lettere e appunti personali riguardano i beni impignorabili secondo la previsione dell’art. 514 n°6 C.p.c.

Né pare poter soccorrere allo scopo l’ipotesi prevista dall’art. 492 comma 4 C.p.c., contenente la previsione, per l’ufficiale giudiziario, di invitare il debitore ad “indicare ulteriori beni utilmente pignorabili, i luoghi in cui si trovano ovvero le generalità dei terzi debitori, avvertendolo della sanzione prevista per l’omessa o falsa dichiarazione”.

Da un lato infatti, seppur si possa considerare che dagli estratti conto bancari e/o postali potrebbe esservi traccia di acquisti eseguiti presso società exchange e che, da tali spendite, possa presumersi un’eventuale falsa dichiarazione del debitore, così dandosi adito a un procedimento penale a carico di quest’ultimo, l’incisività di tali conseguenze rimarrebbe certamente opinabile da parte del debitore stesso, a fronte della possibile perdita dei beni di cui si tratta; dall’altro, anche qualora tale dichiarazione venga effettivamente omessa o resa falsamente, sarebbe estremamente difficile verificare tali illeciti, proprio in ragione dell’impossibilità di accedere al wallet in questione e verificare l’effettiva sussistenza dei fondi in portafoglio i quali, a ben vedere, potrebbero essere andati persino perduti a causa dell’attuale volatilità del mercato e degli strumenti finanziari di investimento disponibili che, come noto, possono essere sia conservativi, come nel caso delle c.d. criptovalute stabili, che estremamente rischiosi.

Quanto alle altre forme di gestione del patrimonio in criptovalute, costituite dai wallet software e web-based, la questione risulta ancor più complessa e a oggi del tutto irrisolvibile, poiché entrambi, seppur con le dovute diversità che li contraddistinguono, sono accessibili esclusivamente attraverso sistemi di autenticazione nella disponibilità del solo proprietario.

Non difformi risultano le riflessioni appena espresse anche nel caso in cui si intenda inquadrare il problema dal punto di vista dell’espropriazione presso terzi.

Innanzitutto, tale procedura può aver luogo solamente nei confronti dei wallet web-based, laddove essi sono affidati a una società terza, quale ad esempio Coinbase o eToro.

Conclusioni

Al di là della necessità di una specifica competenza e di una effettiva capacità, da parte dei procedenti (e degli organi competenti), di individuare tali strumenti finanziari in capo al debitore, non sfugge che la molteplicità delle piattaforme oggi esistenti, peraltro in costante aumento, così come la loro extraterritorialità, rendono la perfezione della procedura molto difficoltosa e l’esito positivo della stessa assai improbabile.

Si dovrebbe infatti, per prima cosa, conoscere quale exchange il debitore utilizzi per custodire i propri fondi, per poi individuare la relativa giurisdizione e procedere, di conseguenza, con una richiesta di esecutorietà del titolo esecutivo nel paese di residenza della società in questione, chiedendo al giudice nazionale competente che venga avviata la corrispondente procedura esecutiva. Inoltre, sarebbe naturalmente necessario ricondurre effettivamente l’esistenza dell’account web-based al soggetto fisico debitore, laddove tale operazione è sovente impossibile per via delle policies di riservatezza delle stesse compagnie di exchange le quali, di norma, non richiedono affatto l’identità del soggetto conferente i fondi, se non in caso di versamenti cospicui.

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