tecnologie e democrazia

Accesso a Internet come diritto universale: il momento è ora

Usciti dalla pandemia, l’agenda digitale del nostro Paese dovrà vedere l’accesso alla rete quale diritto fondamentale previsto in Costituzione come un elemento centrale della ricostruzione del nostro Paese. Una riforma non più rimandabile. Vediamo perché

Pubblicato il 08 Feb 2021

Francesco Clementi

Professore di diritto pubblico comparato – Università degli Studi di Perugia

internet governance

La diffusione del contagio da Covid è stata l’ultima – ma forse la più forte ed estesa – prova della necessità di tornare ad affrontare un tema che, da più di trent’anni, è presente nel nostro dibattito pubblico, senza trovare, tuttavia, una vera stabilizzazione costituzionale, ossia il riconoscimento del diritto di accesso ad Internet per tutti, conosciuto anche come il diritto alla banda larga (right to broadband).

Battaglia culturale proposta con forza nel tempo da molti giuristi e studiosi, tra cui innanzitutto Stefano Rodotà – basti pensare a ciò che disse durante l’Internet Governance Forum del 2010 – l’accesso alla rete internet come diritto fondamentale non è mai stato tuttavia davvero preso in considerazione in questi decenni neanche durante i processi di riforma costituzionale che sono stati via via intrapresi, a differenza di quanto hanno fatto, invece, altre democrazie.

Eppure, la necessità che ciò avvenisse – inutile dirsi – era evidente.

Accesso alla rete quale diritto fondamentale: perché?

Alla pandemia Covid è bastato poco – si fa per dire – per squarciare, con brutalità e violenza, sotto la spinta dell’urgenza e della straordinarietà, tutte quelle ipocrisie e quelle remore culturali, sociali e politico-economiche che avevano frenato negli anni la spinta ad affrontare e rafforzare, con la dovuta consapevolezza, lo spazio e gli strumenti di reti e di servizi di comunicazione elettronica e digitale nel nostro ordinamento in una logica di servizio universale per tutti i cittadini italiani. Insomma, è stata proprio la pandemia Covid – volenti o nolenti – la goccia che, facendo traboccare il vaso del nostro conservatorismo ordinamentale, ha mostrato – pur con tutte le difficoltà, i limiti e le asimmetrie di un Paese ancora nel pieno di un gap territoriale, tra nord e sud, che affonda le sue radici dentro i centosessant’anni di unità nazionale che quest’anno celebriamo – la praticabilità, prima che la grande utilità, di un accesso alla rete Internet quale diritto fondamentale per tutti i cittadini.

L’urgenza della digitalizzazione: l’occasione del Recovery Fund

Per cui sarà assai difficile, quando usciremo dalla pandemia, tentare di archiviare il tema con un “non possumus”. Perché la realtà si sarà ormai così imposta nelle nostre vite, nelle pratiche quotidiane scolastiche dei nostri figli, nelle dinamiche di lavoro estese su larga scala, che sarà impossibile, insomma, tornare ad uno stato conservatore in tema, non da ultimo per le ingenti risorse che il piano Next Generation EU affida, appunto, alla digitalizzazione dei Paesi dell’Unione.

Da qui – dalla strada cioè che il digitale ha aperto anche nel nostro Paese riguardo al mondo del lavoro, dell’istruzione, dell’informazione e dell’innovazione anche economica – parte dunque la sfida che, memore dei tanti confronti di questi anni, con forza nuova ma spirito antico, muove la proposta di riforma costituzionale formulata da Marianna Madia, responsabile innovazione del Partito Democratico, ossia quella di garantire a tutti i cittadini un accesso adeguato alla rete Internet, prevedendo ciò come diritto fondamentale da inserire nel testo della Costituzione italiana, come ultimo ulteriore comma dell’articolo 21.

Così, in un ideale passaggio di testimone rispetto a quanto, allora, ebbe a proporre lo stesso Stefano Rodotà – che prevedeva tuttavia di inserire un articolo nuovo – il “21-bis” – nella Costituzione al fine di far rientrare l’accesso alla rete quale diritto fondamentale per tutti i cittadini – la stessa  Madia propone di introdurre nel testo costituzionale questo nuovo diritto di cittadinanza; aprendo così, come ebbe a scrivere oltre dieci anni fa lo stesso Tommaso Edoardo Frosini, uno degli studiosi più attenti in tema, ad una codificazione che impone di determinare e regolamentare nuove forme di diritti di libertà incardinandole e riconoscendole innanzitutto «nell’alveo delle tradizionali libertà costituzionali».

Naturalmente, in questo tempo fragile e complesso, non è semplice farsi largo con una riforma costituzionale, vieppiù che ha il coraggio di aprire – ma non potrebbe essere altrimenti – il confronto politico e sociale sulla modifica della Parte Prima della Costituzione, seppur con un intervento ben limitato e circoscritto all’art. 21 della Costituzione. Così come sono chiari i timori di chi, pur riconoscendo il tema, vede il soddisfacimento di questa istanza attraverso l’intervento pretorio dei giudici o di chi, diversamente, ritiene che possa essere tutto ciò risolto dal mercato o attraverso piccole riforme ordinamentali, senza coinvolgere su questo il testo della Costituzione.

Eppure a costoro, a maggior ragione alla luce dell’esperienza Covid in Italia come nel mondo – si può e si deve opporre la realtà del cambiamento che l’esercizio della libertà digitale quotidianamente impone al nostro ordinamento, mostrando sempre più i rischi che una debole tutela giuridica – come sarebbe quella non costituzionalizzata, evidenziata da ultimo dalla Corte di Cassazione che, in una sua ordinanza di quest’anno (la n. 17894), ha ritenuto l’accesso alla rete internet non oggetto di un diritto garantito – potrebbero invece determinare, non da ultimo tenuto conto dell’espandersi dell’uso dei big data, dell’intelligenza artificiale, dell’internet delle cose.

Conclusioni

Per cui, hic Rhodus, hic salta. E usciti dalla pandemia, l’agenda digitale del nostro Paese non potrà non vedere l’accesso alla rete quale diritto fondamentale previsto in Costituzione, secondo la proposta formulata, come un elemento centrale della ricostruzione del nostro Paese, superando, ancora una volta, ogni ipocrisia (o ignoranza) propria di coloro che in questi anni, mescolando mezzi e fini, hanno inteso la via alla digitalizzazione e alla crescita dell’informatizzazione delle strutture sociali ed ordinamentali del Paese, come uno strumento per ridurre invece gli spazi della democrazia rappresentativa.

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