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Big Tech, i ritardi della politica sono rischi per i nostri diritti

Perché le politiche democratiche hanno tardato così tanto a capire che ogni giorno di più i colossi del web si costituivano come Stato nello Stato e potere evidentemente sovranazionale? Le conseguenze di un clamoroso ritardo di intervento rispetto alla profondità del cambiamento

Pubblicato il 21 Apr 2021

Mario Morcellini

Professore ordinario emerito in Sociologia della Comunicazione e dei Media digitali alla Sapienza Università di Roma

piqsels.com-id-zvaim

La questione fondamentale che si impone, una volta accettata la sfida di pensare gli Over the top, i colossi del web, è la rapidità e sicurezza di sé con cui questa forma di sostanziale dominazione digitale delle menti si è affermata e quasi istituzionalizzata. Risaltano tanto più, avviando un ragionamento autocritico, le esitazioni, i ritardi e il non detto che le comunità scientifiche hanno messo in campo per tentare di inseguire un cambiamento così radicale nei dispositivi di potere culturale del mondo contemporaneo.

È la prima volta che succede nella storia degli uomini, anche se, come vedremo, qualche tentativo di chiamare in causa illustri precedenti, a partire dalla cosiddetta “colonizzazione culturale”, vengono subito alla mente; è del resto una tipica caratteristica della conoscenza ricorrere al già noto per elaborare mappe di navigazione dell’ignoto.

Colpisce, in ogni caso, l’inadeguatezza di un’autentica copertura conoscitiva di un cambiamento non certo nella sua fase aurorale, che anzi già rischia di apparire così stabilizzato da presentarsi come status quo.

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Big tech, un ritardo che sconfina nell’ossequio

Mi concentro sulla questione della risposta culturale ed accademica poiché va messo anzitutto in discussione un clamoroso ritardo di intervento rispetto alla profondità del cambiamento; ma resta fermo che non sono solo accademici e studiosi ad apparire complessivamente timide educande rispetto a un potere molto performativo. È più generale la sensazione che il digitale incuta un rispetto che sconfina con l’ossequio.

Cercando di interpretare il perché di questa ritrosia o comunque scarsa sensibilità reattiva, la prima spiegazione che viene in mente è quella della difficoltà che tutte le società presentano a prendere le misure alla globalizzazione economica e finanziaria; un disagio a cui si è aggiunta l’idea che metterla in discussione appare una moderna figurazione dello scontro Davide/Golia, senza la certezza della vittoria per il primo.

Allineando risposte diverse all’interrogativo posto dai fatti, relativo alla sostanziale acquiescenza che c’è stata nei confronti della graduale presa di potere degli imperi digitali, si cominciano a prospettare alcune ipotesi interpretative che, al di là del fatto che possano risultare persino inadeguate o impazienti, servono ad approfondire il posizionamento degli intellettuali, del mondo culturale e persino di quegli ambienti e movimenti che più si sono contraddistinti per un sistematico esercizio di critica sociale.

Il ritorno al mito platonico della caverna

Il passaggio della rete da premesse e promesse di trasparenza e democrazia con cui essa è stata profeticamente accompagnata nella lunga fase aurorale, ha probabilmente paralizzato le espressioni di un principio di precauzione, non scattato neppure di fronte all’evidenza di un cambiamento di orientamento della rete da una retorica democratica e di trasparenza a gigantesca macchina mondiale di iperstimolazione della comunicazione.

Nella sua prima maturità, il mondo delle potenze digitali ha virato radicalmente verso una massificazione degli immaginari solo parzialmente mascherata dalla ‘libertà di scelta’, abdicando dunque rispetto ai valori propagandati dai fondatori e dalle loro campagne di accreditamento, oggi tradotte in una clamorosa capitalizzazione degli utili che non arretra neppure di fronte alla profilazione delle scelte degli utenti come ulteriore fonte di profitto. Passa così in secondo piano il rischio di trasformare le reti comunicative in gigantesche sottoculture a cui viene servita la pietanza rassicurante del già visto e del già noto: altro che innovazione comunicativa! In queste condizioni e senza un’appropriata educazione sociale più decisa e istituzionalizzata rispetto ai timidi tentativi attuali, il pericolo è la chiusura di tanti target sociali diversi in una nebbia comunicativa troppo somigliante alle eco-chambers, rinnovando almeno la parte più critica del mito platonico della caverna.

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Il disimpegno dell’esercizio critico verso il web

In questo particolare momento storico, poi, è più chiara che mai una certa aporia di visione degli intellettuali rispetto a precedenti pronunciamenti ben più severi nei confronti della comunicazione mainstream; ora, invece, risultano bizzarramente timidi e adesivi alle novità e alle technicalities che il digitale porta con sé. È difficile dimenticare che gli studi sugli old media erano all’insegna di una certa ipercriticità di fondo, che prendeva in considerazione un occhio omnicomprensivo delle conseguenze che avrebbero inevitabilmente portato con sé. Oggi, sulla scia di uno specialismo di fondo che si trasforma, come profetizzava Ortega y Gasset, in un’ignoranza congenita, anche gli studiosi vivono il cambiamento come un dato rispetto a cui non maturano la giusta “distanza conoscitiva”, spesso ricorrendo allo specialismo o alla frammentazione del fenomeno.

Non si discute il fatto che una critica prematura nella fase iniziale, in cui la magica parola “Internet” mascherava eserciti pronti ad economie politiche protese a rigonfiare i mercati della comunicazione, sarebbe risultata inaccettabile, soprattutto perché non disponeva allora di teorizzazioni stabilizzate. Ma la scarsa analisi critica sul cambio di orientamento della rete evoca davvero un disimpegno e quasi una dimissione dello spirito intellettuale e dell’esercizio critico. Altri opporranno sicuramente citazioni bibliografiche e recensioni di interventi dissonanti, ma non deve sfuggire che si è trattato di eccezioni, spesso redatte in un linguaggio che ne riduceva ogni tentativo di traduzione politica o un impatto su forze sociali di possibile avanguardia critica, con qualche eccezione per le comunità esperte e le culture universitarie.

Pochi comunque hanno chiesto di cominciare a pensare[1] rispetto a quanto sono profondamente cambiate le diete comunicative, soprattutto dei giovani[2]. L’adozione di un comportamento di blando o euforico accreditamento verso una convivenza con quello che, a tutti gli effetti, appare come dispotismo digitale, sarebbe comprensibile se nei decenni precedenti non fossero esplose vere e proprie rivolte a fronte di stili di condizionamento che oggi appaiono povera cosa rispetto a eventi e dati su cui tendiamo invece a tacere. Avendo intensamente partecipato a questi mondi, mi limito a ricordare qualche parola-chiave oggi riposta nella soffitta mentale degli stessi protagonisti: la denuncia di americanizzazione degli immaginari rispetto alle identità nazionali, ma anche l’attacco ad una formula più studiata e convincente di colonizzazione culturale in capo a quelli che chiamavamo ‘imperi televisivi privati’.

A fronte di queste vertenze alimentate dagli intellettuali, masse di persone e di giovani sono scese in piazza nei paesi occidentali, inventando caroselli o altre varianti di mobilitazione e alimentando veri e propri movimenti culturali con una specifica cultura di riferimento e una forte concitazione civile.

La soggezione etica verso gli imperi digitali

I tempi sono cambiati, è vero, ma non tutte le persone, e la dimensione con cui oggi parliamo con leggerezza di imperi digitali impone qualche esame di coscienza sulla coerenza di comportamento, sperando che tutto ciò non sia causato da una pronta soggezione etica rispetto a poteri ritenuti fuori dalla portata della critica sociale. Il fenomeno che stiamo descrivendo può apparire retrò rispetto alla forza dirompente della nuova situazione comunicativa, ma è proprio qui il problema: perché di fronte ad essa non c’è stata una paragonabile discussione pubblica? L’interrogativo si aggrava tenendo conto che i movimenti civili contro le precedenti versioni in odore di dominazione hanno avuto un impatto abbastanza coerente sulla legislazione regolatoria.

Il nodo è rilevante anche per porre una questione di asimmetria che non riguarda più l’atteggiamento e la postura degli intellettuali e dei movimenti ancora attenti ad un attivismo critico nei confronti della cultura dominante; è più precisamente in questione la dottrina regolatoria messa in campo a tutela del pluralismo e della libertà di espressione a cospetto di “vecchi media” a suo tempo giudicati influencer, come la tv. Per essa in particolare sono state elaborate normative piuttosto puntuali e dunque di non facile applicazione e verifica, sia in tempi normali che in prossimità delle scadenze elettorali, sbrigativamente note come par condicio[3]. Tutto questo è stato ideato e messo in campo nei confronti di un medium che in ogni caso risulta caratterizzato da una significativa intermediazione editoriale, con conseguente accountability; mentre il mondo digitale si presenta con flussi informativi vistosamente incontrollati e spesso inverificabili in termini di attribuzione di responsabilità. Inequivocabile concludere in prima lettura che più i media sono potenti tanto più sono risparmiati dall’analisi critica.

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Cosa resta dei nostri diritti fondamentali

Viene da chiedersi, di fronte a un panorama così scomposto, quanto spazio resti alla libertà personale. Se l’ecosistema a cui ci rivolgiamo per approcciarci all’informazione è regolato da leggi deboli e meccanismi di cui non conosciamo il funzionamento o la complessità, perché proprietà di soggetti privati che non vogliono proteggere questi spazi da rischi di inquinamento e propaganda, cosa resta dei diritti fondamentali di ognuno? Lo specifico diritto costituzionale ad essere informati risulta quantomeno minacciato e conseguentemente tutte le tutele e i principi ideali fondati su un modello di individuo-cittadino razionale e autodeterminato. Come sottolinea efficacemente Beniamino Caravita, “un meccanismo che doveva essere di libertà è così diventato una gabbia. Non una gabbia dorata, ma una gabbia ormai pericolosa per la democrazia. E i titolari dei social, gli Zuckerberg, i Dorsey, invece di riconoscere i loro errori, invece di accettare di sottoporre le loro scelte a board imparziali, invece di aprire gli algoritmi dei loro sistemi di raccomandazione (così si chiamano i meccanismi che dirigono le scelte dei social in modo da garantire un presunto rispetto delle profilazioni individuali), salgono sul treno del vincitore e scaricano il perdente. E sulla loro scorta i grandi motori di ricerca, a scapito della concorrenza e del pluralismo, bloccano i social non mainstream, quelli in cui il perdente di turno va a cercare la propria rivincita”[4].

Anche solo arrestandoci al caso italiano, e richiamando un citatissimo Articolo della nostra Costituzione, il ritornello dietro cui si è trincerata la prudenza del diritto e delle istituzioni resta quello dell’assenza o carenza di strumenti giuridici adeguati a leggere fenomeni così nuovi. Inutile osservare qui che le stesse Autorità di regolazione, non meno di importanti organismi sovranazionali, hanno comunque tentato di superare l’incertezza normativa ricorrendo a letture analogiche rispetto alle forme di comunicazione e scambio simbolico preesistenti ai linguaggi digitali. In altre parole, il riferimento va a un altro luogo comune del dibattito, non solo recente, che chiama in causa il concetto giuridico di “effetti orizzontali” del diritto, sulla base della dottrina giuridica dell’estensione dei principi costituzionali pensati per limitare l’esercizio del potere pubblico, ma traslati nella nuova situazione all’esercizio del potere privato.

L’art. 21 e la capacità di profezia dei padri costituenti

Siamo comunque di fronte a compromessi che si connotano per una sostanziale autolimitazione dell’intervento, soprattutto a fronte dell’esplicita potenza di passaggi costituzionali come quello riferito a “tutte le manifestazioni del pensiero” (Art. 21). Un dettato così chiaro viene dunque tradito se la sua lettura si arena a imprese, specifiche modalità comunicative, questioni nazionali o altro, mentre deve espandersi verso un principio così generale da influenzare tematizzazioni più coraggiose e meno guardinghe da parte dei media studies o degli approcci scientifici di provenienza giuridica o politica.

È importante a questo punto riconoscere quanto i Padri costituenti abbiano saputo riscattare la decisività dello scambio comunicativo dalle tecnologie in cui esso si può incarnare. E se si pensa che stiamo parlando del 1948, quando essi conoscevano al massimo la radio e la tv ancora non si era insediata, si capisce la capacità di profezia e di antevisione dello sguardo sul futuro: qualunque fosse stato lo sviluppo industriale e tecnico dei media andava comunque assunto un principio più generale delle singole fattispecie.

Se dunque la Costituzione ha saputo prefigurare una visione generale dei problemi dello sviluppo culturale di un paese e della protezione della sua identità e autonomia, perché le politiche democratiche hanno tardato così tanto a capire che ogni giorno di più gli Over the top si costituivano come Stato nello Stato e potere evidentemente sovranazionale?

Orwell, 1984 e la crisi degli Stati

Un interrogativo di questo genere richiama alla mente quanto Orwell scriveva, simulando di restare nel campo della letteratura e della fiction, a proposito di quella mirabile formula della neolingua con cui chiude il suo Romanzo visionario e anticipatorio. I temi di quella asciutta scrittura erano quelli dell’accesso e dell’uguaglianza reale, dell’autonomia e libertà individuali, comunque connessi alla loro espressione pubblica. Nessun testo moderno di politologia ha detto altrettante verità e posto temi di discussione scottanti quanto 1984.

Riflettendo su quel testo, in evidenza c’è in ogni caso il riconoscimento di una crisi degli stati nazionali che viene amplificata e acuita dall’avvento di una comunicazione capillare e sempre più invasiva. A questo punto lo svuotamento di molti poteri reali o simbolici dalla sfera statale alle imprese multinazionali della conoscenza e dei dati pone una questione radicale: è ancora uno stato sovrano quello deprivato di funzioni così decisive sulla fissazione dell’arbitrario culturale e dei temi pubblicamente rilevanti?

L’episodio di Capitol Hill attesta che lo Stato non è più al centro della scena. Le companies lo hanno minato nelle fondamenta divenendo arbitri concorrenti se non prevalenti nelle dispute politiche e sociali; ed ecco che così esso viene derubricato a istituzione ridotta a modica quantità, costretta a misurarsi con una pluralità di soggetti anch’essi votati a orientare le decisioni pubbliche fondamentali. È davvero uno Stato d’eccezione quello che rinuncia ad essere riferimento apicale della scena pubblica, sfigurando di fatto la competizione democratica per la rappresentanza e il potere di indirizzo.

Bibliografia

  1. Molto intrigante, ad esempio, il progetto di ricerca guidato già da qualche anno da Beniamino Caravita, Social network, consensus building process and political institution, che sta dando luogo ad una serie di eventi e una proposta di ricerca nazionale PRIN, a cui partecipano studiosi di diritto, fisica, scienza politica e comunicazione (quorum ego).
  2. Non solo per i giovani l’esposizione alla rete, che è peraltro un intreccio frequenza più eco pubblica, pone un problema scientifico che è quello di scorgere una funzione di integrazione/sostituzione delle culture riassumibile nella frase: il digitale è la forma più elementare e seducente di costruzione del mondo sociale.
  3. Vincenzo Vita, L’ inganno multimediale, Meltemi, Roma 2020.
  4. Cfr. Caravita, B., Davanti ad un mondo che cambia chi è più pericoloso tra Trump e Zuckerberg? in “Federalismi”, n.1(2021).

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