Le dichiarazioni dei vertici Amazon e i licenziamenti massicci di Microsoft riportano in primo piano una domanda chiave: quali lavoratori sono più a rischio con l’avanzata dell’AI? Alcuni studi mostrano un impatto diretto sulle posizioni di ingresso, automatizzando attività basilari tradizionalmente affidate ai neolaureati. Altri dati indicano invece che a essere più esposti sono i lavoratori esperti, le cui competenze vengono replicate dagli LLM, erodendo la rendita dell’esperienza. Intanto, i dati macro mostrano segnali contraddittori: assunzioni in calo per la Gen Z, licenziamenti tra gli ingegneri senior, aumento della disoccupazione giovanile, ma anche studi che ridimensionano l’impatto dell’AI nel breve termine. Un quadro complesso che richiede di andare oltre gli allarmi generalizzati, per comprendere come stanno davvero cambiando le dinamiche di accesso, valorizzazione e sostituzione del lavoro umano.
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Gli annunci e le ondate di licenziamenti
Nel mezzo dei licenziamenti in corso presso Microsoft e altre grandi aziende tecnologiche, gli esperti discutono su quali posti di lavoro abbiano maggiori probabilità di essere risparmiati. Quando il mese scorso l’amministratore delegato di Amazon, Andy Jassy, ha scritto di aspettarsi che l’uso dell’intelligenza artificiale da parte dell’azienda “riduca la nostra forza lavoro complessiva” nei prossimi anni, ha confermato il timore diffuso tra molti lavoratori: l’AI li sostituirà. Questo timore è stato ulteriormente rafforzato due settimane dopo, quando Microsoft ha annunciato il licenziamento di circa 9.000 persone, pari a circa il 4% della sua forza lavoro.
Che l’intelligenza artificiale sia destinata a sostituire i lavoratori impiegatizi è ormai fuori discussione. Ma quale tipo di lavoratori, esattamente? L’annuncio di Jassy è arrivato proprio nel mezzo di un dibattito su questa precisa questione. A emergere è un segnale chiaro: le aziende tech non stanno semplicemente risparmiando. Stanno ristrutturando l’equilibrio tra lavoro umano e AI, nel farlo, mettono in discussione sia le soglie di accesso al lavoro qualificato, sia il ruolo dei professionisti esperti. Secondo alcuni esperti, a essere più esposti sarebbero i lavoratori junior, le cui mansioni sono spesso più semplici, standardizzate e quindi più facilmente automatizzabili. Dario Amodei, amministratore delegato della società di intelligenza artificiale Anthropic, ha dichiarato che l’AI generativa potrebbe cannibalizzare “fino alla metà di tutti i ruoli impiegatizi di primo livello” entro cinque anni. Un’allerta che ha trovato riscontro anche in alcuni indicatori del mercato: il tasso di disoccupazione tra i neolaureati è in aumento, mentre molte aziende tecnologiche riducono l’ingresso di figure alle prime esperienze, temendo che l’adozione su larga scala dell’AI riduca in modo strutturale il fabbisogno di forza lavoro.
La porta d’ingresso si restringe
A sostenere la tesi secondo cui i lavoratori alle prime armi siano i più colpiti è anche un’analisi quantitativa https://www.agendadigitale.eu/mercati-digitali/intelligenza-artificiale-minaccia-costante-per-i-giovani-lavoratori/ pubblicata da SignalFire, che ha esaminato oltre 600 milioni di profili professionali. I risultati sono netti: le assunzioni di neolaureati nel settore tech sono crollate del 50% rispetto ai livelli pre-pandemici. Nel confronto tra 2023 e 2024 il trend è ulteriormente peggiorato, le Big Tech hanno ridotto del 25% l’ingresso di giovani laureati, mentre le startup segnano un calo dell’11%. A risultare più penalizzati sono proprio i ruoli tradizionalmente considerati la porta d’accesso al settore – sviluppo software, legal & financial analysis, vendite, marketing, supporto – ovvero tutte quelle mansioni in cui oggi strumenti di AI generativa possono svolgere compiti ripetitivi come cercare dati, compilare report, installare software, fare debugging o scrivere codice standard. Anche i dati della Federal Reserve Bank di New York confermano questa tendenza: dal 2022 il tasso di disoccupazione dei neolaureati è aumentato del 30%, contro un +18% della popolazione generale. Alla stretta occupazionale si accompagna un mutamento culturale: il 37% dei manager intervistati dichiara di preferire l’uso di strumenti di AI a quello di assumere giovani inesperti, mentre oltre la metà (55%) dei datori di lavoro ritiene che la Gen Z faccia fatica a lavorare in team.
Il valore dell’esperienza al tempo dell’AI
Non tutti gli studi puntano nella stessa direzione. Un’indagine condotta da un team di ricercatori della University of California, Irvine e Chapman University ha misurato l’impatto del temporaneo ban di ChatGPT avvenuto in Italia nella primavera del 2023. Poiché molti sviluppatori software italiani utilizzavano il tool per generare codice, la restrizione ha offerto un’occasione unica per valutare differenze di produttività rispetto ai colleghi di Francia e Portogallo, dove l’uso dell’AI non è stato interrotto. I risultati sono interessanti: i programmatori junior hanno ottenuto modesti guadagni in termini di velocità, mentre i programmatori mid-level hanno usato l’AI per amplificare il loro impatto sull’intero team, revisionando codice, suggerendo miglioramenti e contribuendo anche a progetti in linguaggi che non conoscevano. Secondo gli autori dello studio Generative AI and Knowledge Work: Evidence from Italy’s ChatGPT Ban, pubblicato su SSRN il 27 giugno 2025 da Sarah Bana, Alessandro Cugnasco, Chiara Farronato e Andrea Passarelli, l’AI ha potenziato la funzione di “abilitatore collettivo” dei lavoratori più esperti, favorendo un’organizzazione del lavoro più interdipendente. In termini occupazionali, questo potrebbe portare le imprese a ridurre il numero di entry-level, ormai sostituibili nei compiti di base, e ad aumentare l’assunzione di profili intermedi, il cui valore risulta moltiplicato dall’uso dell’AI.
La rivincita dei junior
Di segno opposto i risultati di un altro studio recente, pubblicato nel settembre 2024 con il titolo “The Effects of Generative AI on High Skilled Work: Evidence from Three Field Experiments with Software Developers”. Condotto da ricercatori delle università di Chicago e Stanford, lo studio ha coinvolto centinaia di sviluppatori software assegnati in modo casuale a gruppi con o senza accesso a GitHub Copilot, un assistente di AI per la scrittura del codice. I partecipanti dotati di AI hanno mostrato un incremento medio del 26% nei task completati, ma con una distinzione importante: il beneficio è stato molto più marcato per i programmatori meno esperti. La spiegazione risiederebbe nella capacità dell’AI di colmare gap iniziali di competenza, offrendo un supporto immediato nei compiti più routinari. I senior, già efficienti, hanno tratto meno vantaggi marginali. In questo scenario, l’AI diventerebbe dunque una leva di democratizzazione e inclusione, aiutando proprio chi ha meno esperienza.
L’impatto reale? Alcuni dicono più sobrio del previsto
A riequilibrare il dibattito interviene infine un importante studio empirico dal titolo “Large Language Models, Small Labor Market Effects”. Condotto in Danimarca su un ampio campione rappresentativo di lavoratori, lo studio ha combinato survey e dati amministrativi per valutare l’impatto dell’introduzione degli LLM, in particolare dei chatbot generativi, su indicatori come produttività, salario, orario e contenuto delle mansioni. Il risultato, per molti versi sorprendente, è la sobrietà degli effetti osservati: nonostante l’enfasi mediatica e l’entusiasmo per il potenziale degli LLM, le trasformazioni concrete nel mercato del lavoro risultano contenute e molto settoriali. La sostituzione diretta del lavoro umano appare meno frequente del previsto, e i processi di riorganizzazione sembrano ancora in una fase esplorativa. In altre parole, l’AI genera più attese che impatti misurabili. Ma proprio per questo, resta difficile prevedere chi sarà davvero colpito domani.
Quando l’esperienza diventa un vincolo
Secondo Danielle Li, economista del MIT, l’intelligenza artificiale potrebbe colpire in profondità anche i lavoratori più esperti. La sua ipotesi è semplice quanto destabilizzante: l’AI ha la capacità di “slegare” competenze ad alto valore dai professionisti che le detenevano. In altri termini, non serve più essere un ingegnere per scrivere codice o un avvocato per redigere una memoria legale. La competenza diventa un oggetto manipolabile da chiunque abbia accesso al giusto strumento, indipendentemente dal background. “Non è un buon mondo per i lavoratori esperti”, ha dichiarato Li al New York Times , “perché il valore del loro lavoro risiedeva nella rarità della loro abilità. Ma l’AI consente a quella competenza di vivere al di fuori delle persone”.
Lungi dal dipingere un futuro roseo per i meno esperti, Li chiarisce che anche i giovani rischiano di essere penalizzati. Ma l’aumento del tasso di disoccupazione tra i neolaureati va letto come un segnale sistemico: le imprese, di fronte all’automazione, non stanno solo tagliando gli ingressi junior, ma riducendo il numero complessivo di assunzioni.
Alcuni esempi concreti, dallo studio legale alla middle management crisis
Le parole di Li trovano conferma nelle testimonianze dirette. Robert Plotkin, partner in uno studio legale specializzato in proprietà intellettuale, ha spiegato come l’adozione di AI generativa abbia portato alla riduzione significativa del numero di avvocati contrattuali esperti nel suo team. In passato, questi professionisti scrivevano bozze delle domande di brevetto che Plotkin revisionava. Oggi, grazie all’uso efficiente di un assistente AI, può spesso produrre le bozze direttamente, riducendo la necessità di collaborazione esterna. Lo stesso sta avvenendo nelle grandi aziende: non solo nei ruoli esecutivi o operativi, ma proprio tra i middle manager. Secondo David Furlonger, vicepresidente di Gartner, “tutto ciò che riguarda attività amministrative, gestione di fogli di calcolo, email, documentazione, può essere svolto dall’AI, liberando tempo ai manager per attività più strategiche. Ma questo implica che ne servano meno”.
Formazione a rischio e la scala spezzata
In questo contesto, il rischio sistemico più grande è che venga meno il “primo gradino” della scala professionale. Se le aziende smettono di assumere junior, chi formerà i futuri senior? Il sistema economico si fonda su un’idea di progressione: apprendistato, esperienza, avanzamento. Ma l’AI minaccia di interrompere questa catena. Come ha scritto Aneesh Raman, vicepresidente di LinkedIn , “la disruption dell’intelligenza artificiale può fare al lavoro dei giovani ciò che la deindustrializzazione ha fatto alla classe operaia degli anni Ottanta”. Nel lungo periodo, questo potrebbe imporre una radicale riprogettazione dei modelli formativi e organizzativi, non solo come formare, ma perché, per chi e in vista di cosa. Se le mansioni entry-level diventano marginali, anche l’università rischia di perdere la sua funzione di ponte tra istruzione e occupazione. La crisi non è solo occupazionale, ma epistemica.
L’AI premia chi sa usarla
Lontano da narrazioni semplificate, l’intelligenza artificiale non agisce come livellatore di opportunità, ma come moltiplicatore delle disuguaglianze già esistenti. Il vero spartiacque non è tra chi lavora e chi no, ma tra chi sa usare l’AI con spirito critico e progettuale e chi si limita a delegare. Le competenze che contano non sono solo tecniche, ma cognitive e strategiche: saper giudicare la qualità dell’output generato, verificarne la coerenza, integrarlo in processi complessi, dare senso all’informazione prodotta. In questo contesto, chi dispone già di una forte capacità analitica e di una cultura del lavoro orientata all’innovazione può usare l’AI come leva per accrescere il proprio impatto. Gli altri, privi di visione e strumenti interpretativi, rischiano di essere marginalizzati. L’AI non sostituisce il pensiero: lo costringe a rivelarsi.
Tre scenari per il futuro del lavoro nell’era dell’AI
L’impatto dell’intelligenza artificiale sul lavoro non segue un’unica traiettoria. I dati, le dichiarazioni aziendali, gli studi empirici e le testimonianze professionali mostrano un paesaggio frastagliato, segnato da effetti asimmetrici e in parte contraddittori. Per orientarsi, vale la pena esplorare tre scenari evolutivi, ciascuno fondato su tendenze reali già in atto.
1. Lo scenario della compressione: meno posti, più competizione
Nel primo scenario, l’AI agisce come forza compressiva, riducendo la necessità di forza lavoro sia in ingresso sia tra i profili esperti. I compiti ripetitivi e strutturati, quelli tipici dei ruoli junior, vengono automatizzati; quelli strategici e basati su expertise, tipici dei senior, vengono replicati dai modelli generativi. Le aziende ristrutturano, tagliano e selezionano con maggior rigore chi può generare valore nell’interazione con l’AI. Il risultato è un mercato del lavoro polarizzato: pochi profili ad alta produttività, coadiuvati dall’AI, una platea crescente di lavoratori marginalizzati, esclusi dai percorsi tradizionali di ingresso o avanzamento. In questo scenario, l’università e la formazione professionale devono reinventarsi per creare non tanto competenze “occupabili”, quanto capacità di adattamento e auto-integrazione in ecosistemi automatizzati.
2. Lo scenario dell’abilitazione: l’AI come acceleratore di esperienza
In uno scenario alternativo, l’AI non sostituisce ma affianca. Diventa un “compagno di banco” per i neolaureati, accelerando i tempi di apprendimento, colmando i gap iniziali e consentendo a giovani e professionisti con meno esperienza di svolgere compiti più complessi e qualificati. Il rischio di esclusione si trasforma in una chance di democratizzazione dell’accesso. I senior non vengono messi da parte, ma evolvono in ruoli di orchestrazione, supervisione e mentoring “aumentato”. In questo modello, la chiave non è proteggere le vecchie mansioni, ma progettare nuovi modelli di collaborazione uomo-AI e ridefinire le metriche di produttività, valore e crescita.
3. Lo scenario dell’asimmetria nascosta: cambiamento lento, ma profondo
Infine, un terzo scenario, forse il più realistico nel breve termine, è quello dell’evoluzione silenziosa. I cambiamenti indotti dall’AI non producono un’ondata di licenziamenti o assunzioni spettacolari, ma si diffondono gradualmente, in forma di micro-adattamenti organizzativi: nuove priorità nei processi di selezione, riqualificazione mirata, riscrittura di ruoli ibridi. Il rischio, in questo caso, è che il cambiamento venga sottovalutato. L’assenza di effetti clamorosi può alimentare una falsa sicurezza, lasciando aziende e istituzioni impreparate a gestire l’accumulo di pressioni strutturali che, nel medio periodo, possono esplodere in crisi di sistema: mancanza di competenze, vuoti generazionali, blocco della mobilità sociale.
In sintesi, chi rischia davvero? Non esistono risposte univoche, ma esistono priorità d’azione. Le organizzazioni devono investire nella comprensione dei propri processi, nella ridefinizione dei percorsi di carriera e in una cultura dell’innovazione che non rimuova la complessità sociale dell’adozione tecnologica. Governare la transizione richiederà più che algoritmi: serviranno visione, responsabilità e una nuova architettura del lavoro umano, in equilibrio tra competenze, senso e valore.












