È ormai passato un anno da quando il Covid19 è entrato nelle nostre vite, stravolgendo abitudini sedimentate e modi di vita radicati. Sono stati innumerevoli i cambiamenti che la pandemia ha portato con sé, ma per amor di semplificazione possiamo ridurre a due traiettorie principali: la riorganizzazione dei contatti sociali e la radicalizzazione dei processi digitali.
Il forzato distanziamento fisico associato alle opportunità digitale ha creato uno spazio ibrido socio-tecnologico in cui le necessità sociali si sono avvalse di piattaforme digitali per dar luogo a forme relazionali sicuramente nuove e interessanti.
L’anno uno della pandemia è caratterizzato da ricostruzione economica, riflessione ecologica e campagna vaccinale. Ma è possibile delineare uno scenario per capire cosa resterà delle mutazioni improvvise che la pandemia ci ha posto davanti?
Per semplificare il discorso, dividerò il mio ragionamento in tre parti a seconda della dimensione sociale di riferimento: l’impatto microsociale, l’impatto mesosociale, l’impatto macrosociale.
L’impatto microsociale
Per impatto microsociale faccio riferimento a tutto quanto riguarda la vita delle persone intese come singoli individui. In questo caso l’impatto della pandemia è stato quello di rendere le tecnologie digitali strumenti abilitanti, ovvero dispositivi mettono le persone nelle condizioni di poter fare qualcosa, di svolgere un’attività. Il processo non è nuovo, avvisaglie erano già presenti nelle diverse forme delle culture digitali, ma la pandemia ha sicuramente estremizzato queste situazioni. Solo un anno fa era assolutamente inimmaginabile usare le tecnologie digitali per “incontrare le persone”, mentre adesso la riduzione della distanza fisica tramite il rinforzo della presenza sociale è diventata una strategia non solo tipica dei giovani, ma anche degli adulti. Pensiamo ad esempio al boom dei videogiochi che consentono di parlare o chattare in tempo reale come Roblox o Fortnite.
Prima erano appannaggio dei ragazzi e delle ragazze gamer, ovvero appassionati di tecnologie videoludiche, adesso invece sono diventati sostituti dei campetti gioco, dei parchi e dei cortili di quartiere. Per avere consapevolezza di questa situazione, basta andare sui principali marketplace digitali e vedere le innumerevoli offerte su strumenti come microfoni e cuffie per il gaming per capire come il videogioco inteso come sostituto – più o meno temporaneo – del gioco in presenza sia diventato la norma e non più l’eccezione.
Simmetrica e differente la situazione per gli adulti: usare le piattaforme digitali come sostituto della presenza fisica. Lunghe chiacchierate in videochat da Skype a Whatsapp, passando fino a Google Meet per i più tecnologici. Anche in questo caso i processi commerciali dei marketplace sono sintomatici: il prodotto più venduto e con maggiore presenza di offerte sono le cuffie: in ear, over ear, a cancellazione di rumore, ognuna di esse svolge un preciso ruolo nella digitalizzazione della vita quotidiana. Le cuffie in-ear sono pensate per la mobilità e per lo sport, le cuffie over-ear per il lavoro sedentario e stabile, le cuffie a cancellazione di rumore sono scelte per immergersi nei propri consumi culturali prevalentemente audiovisivi. Si potrebbe dire: dimmi che cuffia hai comprato negli ultimi tre mesi e ti dirò che socialità digitale esprimi. Non è una novità. Il walkman degli anni ’80 è stato sintomatico di una nuova forma di consumo culturale come ci ricordano alcuni classici studi di sociologia della comunicazione (Du Gay et al. 1997): il XXI secolo non ha fatto altro che costruire un’autostrada dove prima c’era un sentiero.
L’impatto mesosociale
L’impatto mesosociale sono le conseguenze socio-tecnologiche che hanno riguardato i piccoli gruppi sociali: famiglie, amici, colleghi, scuole, università e quant’altro. In questo caso, la pandemia ha reso le tecnologie digitali infrastrutture sociali vere e proprie, ovvero tecnologie che erogano servizi che rendono possibile la collaborazione sociale (Bennato 2013). Gli esempi sono molteplici.
La didattica a distanza
Prendiamo alcuni casi. La digitalizzazione della scuola e le forme della didattica a distanza. È davvero difficile pensare che un servizio pubblico come l’istruzione si sarebbe potuto svolgere senza l’universo dei tool digitali che vanno da Google Meet a Microsoft Teams. Queste tecnologie nel loro essere supporto principale non hanno reso possibile l’esperienza scolastica, sono state esse stesse l’esperienza scolastica. Basta pensarci un attimo: l’ingresso a scuola annunciato dalla campanella si è trasformato nel suono di sistema del computer acceso e del click di accesso alla piattaforma di e-learning dedicata. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: la piaga del digital divide che ha mostrato un paese senza vere infrastrutture digitali moderne e con un forte problema di dotazione tecnologica senza dimenticare il rischio culturale e politico di consegnare l’istruzione scolastica e universitaria in mano a piattaforme private come Google e Microsoft.
Lo smart working
Altro esempio: il lavoro a distanza, dal telelavoro allo smart working. Il XX secolo – facendo propria la lezione del XIX secolo – ci aveva abituato alla separazione fra lo spazio di lavoro e lo spazio domestico, la pandemia del XXI secolo ci ha mostrato che non c’è più una reale distinzione fisica fra luogo di lavoro e luogo di vita domestica. Questo ultimo anno ci ha messo davanti ad una situazione professionale, prevalentemente nel settore dei servizi ma non solo, in cui le riunioni sono aumentate di numero ma diminuite nei tempi grazie/per colpa dello streaming video e in cui la condizione tipica del contesto di riunione è una persona con dietro una finestra o una libreria. Il senso di tutto ciò è che le tecnologie che consentono la collaborazione e il confronto con gli altri sono diventati i nostri luoghi di lavoro che aprono un vero e proprio spazio lavorativo all’interno dello spazio domestico, una specie di buco nero pubblico all’interno di uno spazio privato, riproducendo nella quotidianità quello che nei social ormai avviene da anni, ovvero la con-fusione pubblico/privato (boyd 2014).
L’impatto macrosociale
Macrosociale è l’orizzonte dell’impatto che riguarda le grandi istituzioni sociali (nel senso sociologico del termine) come il mercato, la politica, la cultura. In questo caso la pandemia ha reso le tecnologie digitali l’orizzonte sociale all’interno del quale muoversi (Marres 2017). Chiarisco meglio questo punto. Prendiamo il caso del mercato, inteso come l’istituzione sociale dedita alla distribuzione, acquisto e consumo di beni. Sicuramente questa forma istituzionale si fonda su un sistema che non richiede le tecnologie digitali di riferimento: la produzione è un problema di settore produttivo, la logistica è un problema di trasporto fisico, il consumo è un problema di distribuzione.
Ma l’accesso al mercato è una questione legata alle tecnologie digitali. Detto altrimenti: se non posso andare al supermercato o al negozio per acquistare beni di prima necessità o di consumo, ho bisogno di qualcuno che completi “l’ultimo miglio” ovvero lo spazio che dai punti della grande distribuzione arrivi fino a casa mia. In una situazione di spostamenti limitati, il consumo è garantito da una riorganizzazione di alcuni aspetti della logistica. Anche qui gli esempi abbondano: la crescita delle possibilità di acquisto rese possibile dai marketplace digitali (Amazon e Ebay ma non solo) e la nascita di una nuova categoria di distribuzione rappresentata dalle piattaforme di consegna a domicilio e dalle nuove infrastrutture rappresentate dai riders.
Prendiamo il mondo della cultura: cinema, teatri, editoria. Non essendo abituati a un ripensamento radicale della loro offerta, complice anche un sistema industriale ingessato, sono quelli che più hanno sofferto le chiusure dei vari DPCM senza essere in grado di offrire servizi alternativi o tentare di costruire un nuovo patto sociale tra servizio e pubblico. Quanti di questi operatori della distribuzione culturale hanno adottato soluzioni tecnologiche per venire incontro alla nascita di un nuovo utente, il consumatore culturale domestico? Alcune librerie, per esempio, si sono mosse per la consegna a domicilio, ma i numeri sono talmente piccoli da far pensare ad un esperimento di librai illuminati invece che un approccio di sistema. In questo caso è mancato l’orizzonte sociale che le tecnologie sarebbero state in grado di costruire.
Riorganizzazione dei contatti sociali, radicalizzazione dei processi digitali
La riorganizzazione dei contatti sociali è consistita in un processo di ripensamento delle forme di vita collettiva sia da un punto di vista individuale che dal punto di vista sociale. Dalla prospettiva individuale sono diminuiti i rapporti sociali, diventando poi strategia decisionale nella scelta di chi vedere e come. Detto altrimenti, prima della pandemia non c’era nessun problema – al netto del piacere e dell’interesse a farlo – a incontrare persone in momenti molto differenti della settimana, anche soltanto per un caffè o per un aperitivo. Dopo la pandemia tra paure individuali e limiti sociali è diventato un processo articolato quello di decidere chi vedere e come vedere. Sintetizzando il tutto con una citazione cinematografica, potremmo dire che se non riusciamo a vederci con qualcuno, la verità è che non ci interessa abbastanza.
La radicalizzazione dei processi digitali è rappresentata dalle forme sempre più forti di utilizzo sociale dei servizi digitali che non solo ci ha portato a sperimentare nuove piattaforme – si pensi al successo di Zoom – ma anche nuovi modi per rendere i social media compatibili con la nostra vita affettiva e professionale. Per intenderci: non solo i nonni hanno dovuto imparate le videochat di WhatsApp, ma anche i docenti di scuola (e università) che hanno dovuto assimilare forme e modi della didattica a distanza.
Conclusioni
In sintesi, ormai si parla di una nuova normalità, intendendo in questo modo che la pandemia non è stata un caso isolato, ma una prova generale di una situazione generale dovuta allo sconvolgimento climatico. In questa normalità la tecnologia digitale è diventata protagonista perché ha reso possibile l’interazione sociale in assenza di presenza fisica. Ovviamente non è possibile una società senza socializzazione, uno spazio comunque senza coinvolgimento diretto, ma se guardiamo le cose in prospettiva, già la globalizzazione aveva mostrato che dalla società del qui ed ora si era passata ad una società delle reti, intese come network di distribuzione, di comunicazione, di collegamento.
La pandemia ha mostrato le opportunità del digitale, ora tocca a un sistema sociale consapevole fare in modo che il digitale non sia un aspetto circostanziale in attesa di un ritorno ad una – presunta – normalità ma un aspetto strutturale da integrare correttamente e in modo lungimirante con la vita contemporanea.
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Bibliografia
Bennato, D. (2013), Istituzioni tecnologiche e partecipative. I social media come istituzioni sociali, in M. Cacioppo, S. Severino (a cura di), La prossimità a distanza. Contributi psicosociali per lo studio degli usi, abusi e dipendenze nel Web 2.0, Franco Angeli, Milano, pp. 70-86.
boyd, d. (2014), It’s complicated. La vita sociale degli adolescenti sul web, Castelvecchi, Roma, 2017.
du Gay, P., Hall, S., Janes, L., Madsen, A.K., Mackay, H., Negus, K. (Eds) (1997), Doing Cultural Studies: The Story of the Sony Walkman, Sage, Thousand Oaks.
Marres, N. (2017). Digital sociology: The reinvention of social research, Polity Press, Cambridge.