l’analisi

Divide et impera: così il taylorismo digitale minaccia la democrazia



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Il taylorismo, evoluto da metodologia industriale a principio dominante della società moderna, ha generato una società-fabbrica globale, minacciando democrazia e individualità con un controllo pervasivo. Il capitalismo della frammentazione intensifica queste dinamiche, minacciando libertà e coesione sociale

Pubblicato il 20 mar 2024

Lelio Demichelis

Docente di Sociologia economica Dipartimento di Economia- Università degli Studi dell’Insubria



capitalismo2

Suddividere, individualizzare, isolare, separare per poi meglio connettere, integrare, sussumere le parti prima suddivise in qualcosa di maggiore della semplice somma delle parti. Questa è la forma con cui si realizza il totalitarismo politico, ma questa è anche la logica dell’organizzazione scientifica e industriale del lavoro secondo Taylor, e questo  è il taylorismo che oggi diventa digitale ma sempre taylorismo è – semmai di più e peggio rispetto al Novecento.

E anche i social e le community e i motori di ricerca e le piattaforme e l’intelligenza artificiale e il capitalismo della sorveglianza applicano forme di taylorismo. Perché il taylorismo, aveva scritto nel 1978 il filosofo della tecnica Günther Anders, è diventato, da forma specifica del lavoro industriale un “principio politico, il principio della storia[i], pervadendo l’intera organizzazione sociale e finalizzando deterministicamente (non ci sono alternative) alla sua estensione e pervasività, l’azione della politica.

Taylorismo sempre e comunque

E il taylorismo è appunto la forma del mondo diventato fabbrica[ii], dove c’è sempre qualcuno/qualcosa che organizza, comanda e sorveglia il lavoro nella fabbrica fisicamente concentrata di ieri come nella fabbrica digitalmente diffusa di oggi, appunto la società-fabbrica; dove a organizzare la vita umana (e non più solo il lavoro) e a ingegnerizzarne e comandarne i comportamenti e a sorvegliare che tutti siano produttivi al massimo delle loro capacità estraendo da ciascuno il massimo del plusvalore attraverso l’attivazione del massimo pluslavoro ottenibile (il massimo dell’auto-sfruttamento) è sempre il management: ormai uscito dalla fabbrica essendo la fabbrica uscita dalla fabbrica, quindi anche il management doveva seguirla per organizzare la vita e il lavoro h24 di tutti noi soggetti produttivi – e oggi produttivi soprattutto di dati, ma sempre svolgendo tayloristicamente il nostro lavoro ormai quasi gratuito, cioè a pluslavoro quasi totale.

E poi tayloristica era ed è l’industria culturale e del divertimento e poi il marketing, che è il taylorismo/organizzazione scientifica del nostro lavoro di consumatori, cioè di soggetti consumativi a produttività e pluslavoro (di consumo) sempre crescente. Ovvero, tutti noi siamo essenzialmente forza lavoro che deve eseguire – produrre, consumare, generare dati sempre di più – secondo l’organizzazione, il comando e la sorveglianza di chi gerarchicamente sta sopra e dispone del nostro lavoro e della nostra vita intera messa al lavoro: direttamente/fisicamente la Direzione di fabbrica di ieri o virtualmente/digitalmente/algoritmicamente (gli algoritmi come la nuova Direzione della società-fabbrica di oggi)[iii].

Perché dall’inizio della rivoluzione industriale fino a oggi, “la divisione manifatturiera del lavoro e, in una forma o nell’altra, la divisione del lavoro è rimasta il principio fondamentale dell’organizzazione industriale”, cioè “della divisione parcellizzata, manifatturiera del lavoro” ed è una forma specifica del capitalismo e che si svolge nella fabbrica, come scriveva Harry Braverman nel 1974 in un suo saggio importantissimo e che invitiamo Einaudi a ripubblicare per la sua attualità anche in tempi di Industria 4.0, di social e di taylorismo digitale di oggi. Il titolo del saggio di Braverman era Lavoro e capitale monopolistico[iv] e dovrebbe essere letto e meditato da aziendalisti, sociologi ed economisti perché la smettano di scrivere – ma senza cognizione di causa e senza confronto con il passato, bambini sempre affascinati da ciò che sembra nuovo ma non lo è – della digitalizzazione come di un cambio di paradigma e del nuovo che avanza e che non si può e non si deve fermare. Sottotitolo del libro di Braverman: La degradazione del lavoro nel XX secolo. Cui oggi aggiungiamo il XXI secolo, tra digitalizzazione del lavoro e lavoro povero.

E la divisione del lavoro presuppone poi la sua ricomposizione (per il principio di causa ed effetto), ma soprattutto impone la distinzione tra ideazione e organizzazione del lavoro (in capo alla Direzione e oggi all’Algoritmo-Direzione, che continuano ad espropriare di conoscenza e di esperienza i lavoratori ) e sua esecuzione, per la quale si devono apprendere solo le competenze/skills a fare, secondo l’imperativo/comando demandato alle scuole di ogni ordine e grado dal sistema tecno-capitalista. E non solo il lavoro deve essere suddiviso e parcellizzato – Braverman, ancora – ma anche “l’intero processo lavorativo è ora distinto in tanti luoghi distinti e in tanti distinti gruppi di lavoratori. In un posto si svolgono i processi fisici di produzione; in un altro sono concentrati la progettazione e la programmazione, il calcolo e la registrazione”- ed erano gli anni ’70, oggi parliamo di delocalizzazione, esternalizzazione, globalizzazione, cloud, ma è sempre il principio tayloristico della organizzazione industriale/capitalistica del lavoro e dei processi di produzione come di consumo, anche se con il digitale tutto sembra nuovo e diverso, ma appunto in realtà non lo è.

Perché – sempre Braverman – “la trasformazione dell’umanità lavoratrice in forza lavoro e in fattore di produzione, strumento del capitale rappresenta un processo incessante e senza fine”.

Da allora, la trasformazione di tutti in forza lavoro – e non solo dell’umanità lavoratrice nel senso classico del termine e di Braverman, ma h24 e in qualunque ambito di vita individuale e sociale si stia vivendo, tutto grazie al digitale – e in fattore di produzione e in strumento del capitale, è crescita n volte di più. Perché “la necessità di adattare il lavoratore al lavoro nella sua forma capitalistica non ha quindi fine con l’organizzazione scientifica del lavoro, ma diventa una caratteristica permanente della società capitalistica”.

La pervasività del taylorismo digitale

Permanente e crescente, arrivando appunto oggi alla pervasività del taylorismo digitale (e della tecnologia che lo permette e potenzia) in tutte le sue forme possibili. Falso è dunque dire che il digitale ha generato un cambio di paradigma, falso è dire che siamo da tempo entrati nel post-taylorismo/post-fordismo, nella società dell’informazione e nel capitalismo intelligente (sic!) – e la stessa infosfera di Luciano Floridi è solo l’organizzazione scientifica della produzione e della messa al lavoro delle informazioni come ulteriore mezzo di produzione e di plusvalore – o nella quarta rivoluzione industriale già vagheggiando la quinta, perché in realtà siamo sempre dentro alla rivoluzione industriale e alla organizzazione del lavoro industriale, cioè tayloristica: a cambiare è solo il mezzo di connessione/integrazione delle parti prima suddivise, oggi il digitale, ieri la catena di montaggio meccanica (che non è cerro morta, ma è anch’essa digitale).

Divide et impera, anche la guerra

E dividere e frammentare per dominare meglio è la strategia perfetta e sempre replicata che il potere usa – divide et impera, appunto, sempre abbinato a panem et circenses – per farci adattare a sé come potere e per crescere come potere di sé e per sé, sia esso potere politico (non solo nei totalitarismi politici del Novecento) e sempre più potere capitalistico e tecnico (nel totalitarismo tecnico e capitalistico di oggi, ma di totalitarismo della società tecnologica avanzata parlava già la Scuola di Francoforte molti decenni fa).

Oggi anche la guerra  mondiale può essere a pezzi (come la chiama papa Francesco), guerra per frammenti di cui Ucraina e genocidio in Palestina sono solo le più evidenti. Frammenti (ancora dividere per imperare meglio, perché essendo per frammenti non la vediamo come guerra mondiale) che però permettono  al capitalismo – e tutte le guerre in corso sono guerre tra frammenti di capitalismo (Cina e Russia comprese) per il controllo delle materie prime e per conquistare posizioni di egemonia – di poter continuare a fare profitti, facendo al contempo dimenticare – i classici due piccioni con una fava – la crisi climatica, che invece dovrebbe produrre un radicale ripensamento del modello produttivo e consumistico del tecno-capitalismo. Frammenti, evitando che si crei vera opposizione, vera critica, perché anche chi potrebbe opporsi e criticare è stato frammentato, isolato, reso incapace di fare condensazione dell’opposizione e del pensiero critico, incapace di costruire un discorso pubblico e politico condiviso – una contro-narrazione pubblica e politica – e la rete e i social sono anch’essi composti di frammenti autoreferenziali e isolati.

A ricordarci che il capitalismo industriale e positivista vive e si riproduce incessantemente attraverso la legge tayloristica (fisica o digitale che sia) del suddividere/frammentare il lavoro e la vita e lo stesso individuo, sempre più divisum per estrarre profitto da ogni sua parte (relazioni, comunicazioni, emozioni, desideri, psiche), parte messa in produzione di plusvalore (di valorizzazione capitalistica della vita intera dell’uomo), per poi essere appunto meglio totalizzato/integrato/sussunto nel e per il sistema e quindi reso funzionale al suo funzionamento e alla sua riproducibilità infinita, utile è il saggio uscito recentemente dello storico Quinn Slobodian dal titolo Il capitalismo della frammentazione. Sottotitolo: Gli integralisti del mercato e il sogno di un mondo senza democrazia[v].

In realtà – come abbiamo scritto – “è da sempre che il capitale antepone il mercato alla democrazia, pronto a rinunciare alla seconda pur di mantenere e rafforzare il primo. Perché la democrazia è un intralcio al business, alla crescita illimitata del plusvalore, allo sfruttamento incessante di uomini e ambiente, è una barriera per le forze produttive. E dopo averci illuso con il neoliberalismo – fase propedeutica – che il mercato (ma anche la rete) fosse (anche) la forma migliore e anzi perfetta di democrazia, ora il capitale/tecno-capitalismo e gli anarco-capitalisti/libertarians sembrano essere giunti alla convinzione di poter/dover fare a meno del tutto della democrazia, facendoci credere – lo ricorda appunto Slobodian citando un venture capitalist – che il sistema politico migliore è quello dell’azienda […] Se non ci piace il prodotto, andiamo a fare acquisti altrove. Nessuno ci chiede niente e non ci sentiamo in obbligo verso nessuno”. Perché per il capitale e per i capitalisti, anche o soprattutto quelli digitali e della Silicon Valley, “il capitalismo è molto più importante della democrazia, come ha detto Stephen Moore – sempre citato da Slobodian – consigliere di Trump e membro della Heritage Foundation, pensatoio assai influente della destra ultra-liberista e oligarchica americana e occidentale. Soprattutto se l’intelligenza artificiale e l’ibridazione capitalistica uomo-macchina rendono a loro volta superflua la democrazia (e la libertà) e permettono anzi un sistema globale di autoritarismi anch’essi frammentati, ma che integrati e funzionali tra loro producono il totalitarismo del capitalismo[vi].

Nichilismo: portare a niente uomini, libertà e democrazia

E per far morire anche la democrazia, oltre alla biosfera, ecco che (Slobodian, ancora) al capitalismo servono le zone economiche e poi le criptovalute e poi i paradisi fiscali e detassare imprese e capitalisti e poi ancora la moltiplicazione dei nazionalismi e le città-stato, i porti-franchi, gli hub per l’innovazione e poi… quanto di meglio riesce a inventare il capitale per la moltiplicazione del proprio profitto, aggirando le regole o facendone approvare di nuove tutte per sé. Soprattutto utili, scrive Slobodian sono le zone economiche – e “nel suo aspetto più elementare” la zona “è una enclave ricavata all’interno di una nazione ed esentata dalle normali forme di regolamentazione”, ambientali, sociali, salariali, di sicurezza del lavoro, fiscali. Quasi sempre volute/create dagli Stati. Il tutto per creare un mondo “sempre più interconnesso e al tempo stesso sempre più parcellizzato” – ed è lo stesso principio che governa oggi la rete/digitale/social/intelligenza artificiale. Perché le zone, scrive Slobodian, “non sono solo un mezzo per raggiungere un fine economico [il profitto privato], ma l’ispirazione per la riorganizzazione della politica globale nel suo insieme”. Zone economiche, frammentazione delle nazioni e degli stati, sostituzione del capitalismo alla democrazia, come obiettivo del capitale. E analogamente la tecnica, perché come aveva ben capito Friedrich G. Jünger (fratello del più noto Ernst) già negli anni ’40 del secolo scorso: “l’aspirazione al potere della tecnica […] si prefigge lo scopo di subordinare appunto lo stato alla tecnica e di sostituire l’organizzazione statale con una organizzazione tecnica, quindi “sostituendo la norma di diritto con una norma tecnica[vii]. Che è appunto ciò che stanno creando digitale e intelligenza artificiale. E la norma tecnica – quella che chiamiamo razionalità strumentale/calcolante-industriale – si basa appunto su suddivisione, parcellizzazione e poi totalizzazione e sussunzione. Perché l’integrazione delle parti nel tutto di sé come sistema è nell’essenza della tecnica, come del capitalismo.

Capitalismo della frammentazione

E allora, introdurre il concetto di capitalismo della frammentazione, come fa Slobodian sembra del tutto improprio. Perché più si frammenta lavoro, vita e individuo – e oggi anche la guerra – meglio il sistema riesce a sussumerci (secondo movimento della sua razionalità, dopo la divisione/frammentazione), cioè integrarci nella sua totalità. “E se ieri vi erano le grandi guerre mondiali e le grandi industrie (centralizzazione del comando e concentrazione di soldati e di operai – perché ieri il capitalismo aveva bisogno anche di uno Stato grande, forte e centralizzato per ingegnerizzare i comportamenti umani necessari e funzionali), così oggi abbiamo frammenti di guerra mondiale e frammenti di forza-lavoro e frammenti di micro-imprese, di start-up e di lavoratori delle piattaforme digitali, dove vi è sempre la centralizzazione dell’organizzazione, del comando e della sorveglianza (ma ormai direttamente assunta dal capitale e dalle sue oligarchie/tecnocrazie e incorporata nelle macchine) – sempre replicandosi […] la coesistenza appunto di massima interconnessione e sussunzione di tutti nel sistema e di massima frammentazione[viii].

Perché i processi di individualizzazione e l’idea di una massima libertà individuale che il sistema produce e ingegnerizza per noi via management e marketing e social e innovazione tecnologica sono appunto prodotti industriali (effetto delle sue tecniche di human engineering) che sono finzioni di soggettività e di individualità/libertà, però funzionali al nostro poter essere meglio sussunti/integrati nel sistema totalitario della razionalità strumentale/calcolante-industriale – definendo come sussunzione quel processo per cui gli individui e i gruppi sono incorporati/integrati, fisicamente ma soprattutto psichicamente, in qualcosa che ne pre-determina modi di pensare, comportamenti, azioni, way of life, eccetera), affinché l’individuo venga “appropriato al processo” (Marx), sia esso di produzione, di consumo e oggi di generazione di dati nella società-fabbrica integrata e a ciclo continuo. Il sistema tecnico – come quello capitalista – non ha bisogno di individui autonomi capaci kantianamente di uscire dalla loro minorità. Da sempre – dalla fabbrica di spilli al digitale e alla delega che oggi diamo a macchine e intelligenza artificiale – il sistema non vuole e quindi non produce libertà e pensiero critico e quindi e invece insegna competenze a fare e non conoscenza per pensare prima di fare. La riflessività – altra pre-condizione per essere soggetti capaci di soggettività e appunto di pensiero critico – è un tempo morto, non produce profitto, intralcia la sincronizzazione in tempo reale di tutti e di tutto e la mobilitazione totale delle parti (uomini e macchine) e quindi il funzionamento del sistema e la produzione di profitto privato. Sistema tecnico – oggi algoritmico – che integra la sua governamentalità tecnica con la governamentalità neoliberale. Entrambe producendo false soggettività, falsa libertà individuale, cioè assoggettamento ben mascherato.

Il problema è allora tornare a cercare di capire come avvengono i processi innescati dal capitale, ma soprattutto dalla tecnica/tecnologia. Che non è mai neutra, essendo piuttosto l’ontologia/teleologia/teologia che governa il mondo – insieme al capitalismo – dall’inizio della rivoluzione industriale. Anti-sociale, anti-democratica e nichilista/ecocida per sua essenza e tendenza.

Il potere divisivo e integrativo del tecno-capitalismo

Dunque, gli algoritmi – la razionalità strumentale/calcolante-industrialedi cui gli algoritmi sono una parte – entrano nella nostra vita sia come meccanismi o dispositivi tecnici e insieme normativi e normalizzanti (Anders: “le forme [e le norme] tecniche diventano forme [e norme] sociali”), che producono comportamenti individuali e sociali preordinati e funzionali, sia agendo in profondità nella nostra psiche e sia producendo le identità e le soggettività necessarie (ma false e illusorie). Ma è una storia antica, che risale al positivismo ottocentesco (che nasce guarda caso con la rivoluzione industriale producendo i suoi intellettuali organici al sistema), quando Saint-Simon e Comte sostenevano che società e industria fossero sinonimi e che la società dovesse essere governata da scienziati e industriali, secondo quello che Francesco chiama il paradigma tecnocratico.

Quando Marx ed Engels scrivevano che “il progresso dell’industria sostituisce all’isolamento degli operai, risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria mediante l’associazione” – e le fabbriche di allora e per tutto il ‘900 concentravano le masse di lavoratori in spazi fisici che erano anche luoghi di socializzazione politica e di lotta di classe, dove cioè era più semplice costruire una coscienza di classe – non potevano ancora sapere che la tecnica avrebbe potuto un giorno produrre, oggi, una società-fabbrica cancellando o quasi ogni possibilità di associazione, ma dove il lavoro di ciascuno (produttivo, consumativo e generativo di dati) è comunque organizzato, comandato e sorvegliato dalla razionalità strumentale/calcolante-industriale e dal capitale. Il conflitto tra capitale e lavoro – come quello tra capitale e libertà e biosfera – sembra essersi ormai concluso con la totale/totalitaria vittoria del tecno-capitalismo.

Bibliografia


[i] G. Anders, “L’uomo è antiquato II”, Bollati Boringhieri, Torino, 2003

[ii] L. Demichelis, “La società-fabbrica. Digitalizzazione delle masse e human engineering”, Luiss University Press, Roma, 2023

[iii] Cfr., S. Weil, “Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale”, Adelphi, Milano, 2004; M. Horkheimer, “Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale”, Einaudi, Torino, 2000; L. Demichelis, “La religione tecno-capitalista. Dalla teologia politica alla teologia tecnica”, Mimesis, Milano, 2015; E. Sadin, “Critica della ragione artificiale”, Luiss University Press, Roma, 2019; Id, “La siliconizzazione del mondo”, Einaudi, Torino, 2018; H. Marcuse, “L’uomo a una dimensione”, Einaudi, Torino, 2015

[iv] H. Braverman, “Lavoro e capitale monopolistico. La degradazione del lavoro nel XX secolo”, Einaudi, Torino, 1978

[v] Q. Slobodian, “Il capitalismo della frammentazione. Gli integralisti del mercato e il sogno di un mondo senza democrazia”, Einaudi, Torino, 2023

[vi] L. Demichelis – https://naufraghi.ch/paradisi-fiscali-criptovalute-e-democrazia-a-pezzi/

[vii] F. G. Jünger, “La perfezione della tecnica”, Settimo Sigillo, Roma, 2000

[viii] L. Demichelis – https://naufraghi.ch/paradisi-fiscali-criptovalute-e-democrazia-a-pezzi/

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