La proposta

Educazione civica digitale: cosa insegnare e perché è necessaria

A cosa serve l’educazione civica digitale? E come dovrà essere insegnata, nelle scuole? Dall’attenzione alla storia alle funzioni del codice, una proposta con tre vie per essere cittadini oggi

Pubblicato il 22 Apr 2021

Francesco Varanini

Consulente, docente, scrittore

proctoring - educazione civica digitale - Borsa di studio Inps

Una educazione civica digitale. O, ancora meglio: un’educazione esistenziale per l’era digitale, un’educazione a essere umani nell’era digitale. È urgente occuparsene. Vediamo come.

A che serve l’educazione civica digitale

I futuri cittadini, i futuri tecnici e scienziati si formano a scuola. A cosa serve insegnare nelle scuole di ogni ordine e grado, educazione civica digitale? O educazione civica per il tempo digitale?

Viviamo un tempo in cui, passo dopo passo, si scivola nell’equiparare macchine ed esseri umani, finendo così per considerare che l’apprendimento umano e l’apprendimento della macchina non siano che due varianti di uno stesso modello.

Tramite piattaforme ed app, si finisce per proporre agli esseri umani le modalità di apprendimento che si sono rivelate buone per le macchine. Ignorando il senso stesso del latino “ad-prehendere”: avvicinarsi alla preda, acciuffare, andare a caccia. Di fronte all’acquisita capacità delle macchine di apprendere, per coltivare la nostra umanità dovremo quindi rivalutare gli umanissimi modi di insegnare e di ricevere insegnamento.

La saggezza umana che ci accompagna dalle origini, e che ogni cultura porta nel proprio cuore, ci dice: cerca te stesso, cerca il Sé. Cerca di essere il più pienamente possibile consapevole del tuo essere, del tuo agire nel mondo. Responsabile di fronte a te stesso, alla comunità umana, all’ambiente ecologico e sociale cui appartieni.

Nell’Era Digitale, si spalanca però una via di fuga: affidati alla macchina. Un algoritmo ti dirà cosa fare, una Intelligenza Artificiale ti guiderà, ti assisterà, ti proteggerà. In questo nuovo scenario, la ricerca del Sé non è più motivata.

Se questo punto di vista appare troppo filosofico, o astratto, guardiamo la questione dal punto di vista politico. Da un lato, si trova un’élite del potere, formata dalla classe politica in senso stretto, da chi è dedito ad operazioni di finanza speculativa e dai tecnici digitali che disegnano strumenti e piattaforme, scrivono algoritmi, progettano varie forme di Intelligenza Artificiale. Dall’altro lato, si trovano i cittadini, esposti al rischio di diventare sempre più succubi, sudditi soggetti a leggi veicolate via software, ridotti a utenti.

Da questa prospettiva, diffondere nel nostro paese e nel mondo la cultura STEM è un’esigenza fondata perché significa portare tra i ricercatori, scienziati e tecnici, sempre più donne e persone di culture e origini etniche diverse. Ma più che cultura STEM dovremmo dire: culture STEM. Le discipline scientifiche e tecniche, sempre più specializzate, verticali, perdono di vista l’insieme, la complessità.

Non si può più parlare, a rigore, di computer science o di informatica: le specializzazioni sono tante e tali che gli addetti ai lavori poco o nulla sanno al di fuori della propria, chiusi all’interno del proprio campo di ricerca. Espressioni-ombrello come “Intelligenza Artificiale” sono pericolose per questo: gli “esperti” che ne parlano conoscono una ridotta parte del campo. Nella formazione STEM sono assenti sia la vista d’insieme sia quel pensiero che può orientare al dubbio e alla cautela.

La formazione STEM dunque non basta. Occorre un’educazione civica digitale.

Educazione civica digitale: gli argomenti da insegnare

Si immagina l’insegnamento erogato, nei modi e con gli approfondimenti di caso in caso adeguati, ad ogni livello della formazione scolastica pre-universitaria: ecco una possibile traccia degli argomenti chiave.

Storia della tecnica

La storia della vita sulla terra, la storia conosciuta da noi esseri umani, non inizia nell’Anno Duemila. Può sembrare paradossale ricordarlo, ma ogni avvicinamento alla cultura digitale, alle opportunità ma anche alle minacce ed ai rischi che comporta, inizia con il nuovo secolo. Magari, per qualcuno inizierà qualche anno indietro, come il 1995, anno di pubblicazione di “Being Digital” dell’informatico Nicholas Negroponte; o come il 1936 e 1950, anni degli articoli fondativi del matematico e filosofo Alan Turing. In ogni caso, sembra mancare la prospettiva, la profondità, l’attenzione ai tempi lunghi della storia: servirà dunque una “Storia della tecnica”.

Tecnica intesa come attività umana, legata alle epoche e alle culture, e dove il senso della “techne” greca sia illustrato tenendo ben presente la traduzione latina “ars”, che fa intendere la tecnica come arte, ma ci ricorda anche che la tecnica è sempre connessa agli arti, al corpo umano, a mente e corpo che concorrono a creare strumenti.

Servirà anche ben spiegare la differenza tra “tecnica” e “tecnologia”, parola coniata alla metà del 1800 per significare un uso della tecnica al servizio di progetti industriali, orientati ad uno scopo di profitto. Non tutta la tecnica si riduce a tecnologia, la tecnologia non è la versione più evoluta della tecnica.

Buone storie di strumenti digitali pensati per essere più umani

Oggi la necessità di trovare un interfacciamento, una convivenza, o magari una simbiosi tra esseri umani e macchine sempre più autonome è data per scontata.

Ma dobbiamo affrontare di petto la questione: stiamo parlando di formazione degli esseri umani. Lo scopo di questa formazione non dovrà essere l’abituare a convivere con la macchina ma la preparazione ad essere sempre più pienamente umani. Non certo perché si consideri l’essere umano superiore ad altri esseri viventi, ma solo perché noi stessi, io che scrivo e voi che leggete, siamo esseri umani che formano sé stessi.

Sarà quindi virtuoso andare a cercare, nella storia dell’informatica e della computer science, narrazioni di come si possa intendere una macchina pensata per accompagnare l’essere umano nell’essere più pienamente sé stesso.

Tre personaggi, tre storie di vita, sembrano esemplari.

L’ingegnere e tecnologo statunitense Vannevar Bush nel 1945 ha anticipato e rovesciato la domanda che si sarebbe posto Alan Turing nel 1950. Turing, nell’articolo “Computer Machinery and Intelligence”, si chiederà: le macchine possono pensare? E spererà di sì, pensare meglio degli esseri umani ed al posto degli esseri umani. Bush cinque anni prima aveva rovesciato questa domanda in una affermazione, già esplicitata nel titolo del suo contributo: “As We May Think. “Come possiamo pensare”noi esseri umani, se supportati da strumenti che ci aiutano nel ragionare, nel ricordare, nel connettere tra di loro fonti.

Doug Engelbart, nel settembre del ’45, lesse l’articolo di Vannevar Bush sulla rivista “Life. Studente in ingegneria, era radiotelegrafista nelle isole Filippine ma il Giappone si era ormai arreso. Engelbart promise a sé stesso, e in fondo a tutta l’umanità, che avrebbe costruito la macchina immaginata da Bush. Verso la fine del 1968, presentò ad una platea stupita di informatici e computer scientist quello che è a tutti gli effetti il prototipo del personal computer.

In quegli stessi anni Sessanta, un poco più che ventenne Ted Nelson immaginava e sviluppava i primi prototipi di quel sistema che oggi conosciamo come World Wide Web. Mosso dalla propria cultura umanistica e letteraria, immaginò una letteratura non chiusa in pagine e libri, ma aperta come una rete che connettesse ogni testo ad ogni altro, ogni parola ad ogni altra. La sua motivazione era anche una condizione che il lessico medico e psichiatrico definisce “ADD- Attention Deficit Disorder”, “Disturbo da deficit di attenzione”. Nelson si rifiutò di considerare il proprio modo di essere come difettoso, malato, e così immaginò una macchina che lo accompagnasse nell’essere sé stesso, trasformando l’apparente difetto in virtù.

Da singolari equilibri di mente e di corpo, da eccentrici modi di pensare e di costruire conoscenza considerati dalla ‘scienza normale’ pericolose sindromi, nacque dunque quel computing che ha espanso l’area della personale coscienza. Tutti noi oggi siamo arricchiti dalla possibilità di pensare muovendoci in una sterminata rete di connessioni, liberati dalla gabbia di un unico ordine, di una sequenza, di una gerarchia.

Le tre funzioni del codice

Ad ogni cittadino è offerto un insegnamento elementare: saper scrivere e saper leggere, il modo per partecipare alla scrittura delle leggi che reggono la partecipazione alla cosa pubblica. È il modo per conoscere le leggi che siamo chiamati a rispettare. È il modo per partecipare alla vita sociale e politica.

Ma oggi tutto ciò che conta è scritto in un codice digitale, in una ‘lingua’ che solo tecnici specialisti conoscono, e che è invece inaccessibile ai cittadini. Si tratta, oltretutto, di una lingua progettata per essere letta da macchine, e non da esseri umani.

Così, al cittadino, è negata anche la possibilità di controllare ciò che è scritto nel codice. E risulta impossibile distinguere se a parlare sia un essere umano o una macchina.

Appare quindi di scarsa o nulla utilità l’insegnamento di base di uno dei tanti linguaggi di programmazione: il primo passo per rendere percepibile la pericolosa situazione sta invece nello studio del concetto di codice, a partire dalla sua triplice funzione.

Il codice è innanzitutto un supporto, che si tratti di una tavoletta di cera, di un foglio di carta, o una piastrina di silicio. È poi un sistema di segni, un linguaggio di scrittura. Infine, è un testo scritto tramite un linguaggio sul supporto.

Così, alla luce di una riflessione del triplice mostrarsi del codice, potrà essere proposta la riflessione sul codice digitale: una lingua pensata rivolgersi a macchine è infine imposta come nuova, più evoluta lingua, agli stessi esseri umani.

La discontinuità digitale

Di fronte all’insistente propaganda dell’innovazione, del progresso, della crescita esponenziale, dell’ “hype”, serve, come bilanciamento e chiave di lettura, un’attenzione alla storia. Alla storia di lungo periodo, per smitizzare apparenti novità e alla storia centrata sugli eventi, per cogliere le vere discontinuità.

In particolare, appare necessario soffermarsi su una discontinuità: il progetto di sostituire in toto l’essere umano con una macchina è una novità del Ventesimo Secolo.

Macchine progettate per pensare al posto degli esseri umani. Macchine progettate per prendere il posto degli esseri umani in ogni lavoro.

Un programma di educazione civica digitale rivolto agli esseri umani non potrà ignorare questa novità. Siamo infatti di fronte ad un bivio. O preparare gli esseri umani a convivere, a interfacciarsi, a entrare in simbiosi con macchine, algoritmi, Intelligenze Artificiali. O preparare gli esseri umani ad essere più pienamente sé stessi, consapevoli della propria storia, e allo stesso tempo delle proprie potenzialità. Timidezze o ambiguità nella scelta tra le due opzioni rendono vana l’educazione. In questo programma si opta per la seconda via.

Educazione civica digitale: le tre vie per essere cittadini oggi

Di fronte alle novità e agli interrogativi che le nuove tecnologie impongono a noi esseri umani, possiamo individuare atteggiamenti necessari. L’educazione civica digitale dovrà preparare ad assumere queste posizioni.

1.Non rinviare nel tempo

Ci dobbiamo preparare ad evitare la più comoda, ma anche la più grave ed irresponsabile, delle vie di fuga. Non si può ignorare la presenza di ricerche riguardanti temi critici, come, per fare solo due esempi, la sostituzione di ogni lavoro umano o le armi autonome dotate di Intelligenza Artificiale.

È facile affermare che i potenziali rischi e problemi esistano ma non siano imminenti. È facile pensare di potersene occupare a tempo debito o, peggio, rimandare il compito alle future generazioni. Meschina appare l’opinione di chi si consola rinviando nel tempo la questione, considerando che gli effetti più perversi si manifesteranno solo in tempi futuri. Ingenuo e disinformato chi minimizza.

2. Evitare la sottrazione incrociata

Scienziati e tecnici si sottraggono dal farsi carico dei possibili usi di ciò sperimentano e sviluppano rinviando il compito alla politica. Il cittadino si sottrae dicendo a sé stesso di non poter capire.

Così, c’è sempre qualcun altro che deve occuparsene, con il risultato che non se ne occupa nessuno.

La responsabilità sociale e l’azione politica nascono sempre dal non rifiutare di assumersi responsabilità personali. Dovremo quindi evitare una seconda via di fuga: attribuire la responsabilità ad un soggetto diverso da noi stessi, quale che sia il nostro ruolo.

3. Non nascondere il male dietro il bene

Di fronte ad ogni novità tecnologica si potrà sempre facilmente dire che serve a salvare vite umane. Pensiamo, come esempi, alle automobili a guida autonoma e alla connessione tra cervello umano e computer tramite nanofili di silicio.

Dovremo apprendere, tramite l’educazione civica digitale, ad evitare anche questa via di fuga. Chi sostiene che il ritrovato tecnologico è utile a salvare vite umane, sta nascondendo a sé stesso e agli altri che quello stesso ritrovato comporta anche, e spesso in maggior misura, il rischio di danni gravissimi non solo agli esseri umani, ma in senso lato a ciò che chiamiamo vita e natura.

L’educazione civica digitale dovrà quindi fare appello non tanto alla ragione o all’intelligenza, ma a quella umana attitudine che chiamiamo saggezza.

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