la proposta di legge

Equo compenso per influencer? Siamo ancora lontani. Se la proposta di legge è “gattopardesca”

Non esistendo allo stato né un ordine né un collegio che racchiuda le istanze di influencer e contet creator, siamo ancora ben lontani dalla possibilità di proteggere il diritto di questi professionisti a ricevere un compenso equo e proporzionato, alla qualità e alla quantità del lavoro prestato. Ecco i motivi

Pubblicato il 04 Ago 2021

Flavio Genzano

Comitato Scientifico dell’Associazione Italiana Influencer

Jacopo Ierussi

avvocato, Studio legale Salonia Associati

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La proposta di legge C. 3179 del 25 giugno 2021 avente a oggetto le disposizioni in materia di “equo compenso” delle prestazioni professionali non migliora la posizione degli influencer e rischia anche di avviare una concorrenza al ribasso, a discapito di questa categoria di professionisti. Vediamo perché.

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Equo compenso e lavoro autonomo, il nodo della quantificazione

È bene ricordare, in partenza, che l’ordinamento giuridico italiano vuole quale caposaldo in materia di retribuzione l’art. 36 della Costituzione che individua il diritto dei lavoratori ad ottenere una “retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità” del lavoro prestato. Tale principio trova facile applicazione nel lavoro dipendente attraverso la previsione dei minimi salariali stabiliti dai contratti collettivi del lavoro, mentre nel lavoro autonomo è molto più complicato individuare un criterio di quantificazione dei compensi professionali proporzionata al lavoro svolto.

Sulla scorta dell’esperienza della Legge n. 247/2012, precisamente dell’art. 13, comma 6, con il quale è stata fissata una riserva a favore del Ministero della Giustizia consistente nell’individuare quali devono essere i parametri dei compensi per la professione forense, è stato emanato il Decreto Legge n. 1/2012, convertito in Legge n. 27/2012, che attribuiva riserva all’Esecutivo di emanare i relativi decreti ministeriali per individuare tariffe eque per l’attività svolta da tali professionisti.

Sulla base della recente esperienza normativa appena citata, la proposta di legge de qua si pone l’obiettivo di tutelare il diritto dei professionisti di ottenere un giusto ed equo compenso nei rapporti contrattuali e professionali da costoro conclusi, intervenendo sull’art. 2233 del Codice civile, al fine di limitare la prevaricazione di clienti e committenti nei confronti di tali lavoratori autonomi. Ma è davvero così?

Un’analisi della nuova proposta di legge

Prima di rispondere al quesito è doveroso effettuare un’analisi della nuova proposta di legge in materia di equo compenso in discussione alla Camera dei deputati, in Commissione Giustizia, che pare escludere di fatto i professionisti non ordinistici. Il testo evidenzia, infatti, come il compenso debba essere conforme ai parametri definiti con Decreti Ministeriali come quello n. 55/2014 per gli avvocati.

In prima battuta, l’art. 1 intende ribadire la necessità di individuare un equo compenso per i professionisti autonomi, tenendo conto oltre che della tipologia e della quantità e qualità del loro lavoro, anche dei parametri retributivi fissati dai decreti ministeriali cui si faceva riferimento in precedenza. L’art. 2, invece, circoscrive l’ambito di applicazione della proposta solamente ad alcune categorie di rapporti contrattuali (ad avviso di chi scrive, tagliando fuori la maggior parte delle nuove professioni) giacché ci si rivolge ai rapporti nei quali il professionista sembra essere considerato alla stregua di un consumatore (e, quindi, “soggetto debole”), in quanto conclude contratti professionali o con un istituto di credito, un’impresa di assicurazione, o con società con 60 dipendenti impiegati nel triennio precedente, ovvero ancora con ricavi superiori ai 10 milioni di euro.

Proseguendo nell’analisi, l’art. 3 apporta delle sostanziali aggiunte all’art. 2233 del Codice civile, muovendosi su un doppio binario. Da una parte, individua delle clausole nulle qualora fissino un compenso iniquo ovvero inferiore agli importi stabiliti con decreto ministeriale relativamente alla liquidazione di quelli previsti per professionisti iscritti agli ordini o ai collegi professionali. D’altra parte, individua delle clausole vessatorie che attribuiscono al committente vantaggi sproporzionati rispetto al professionista. Nel primo caso, la nullità – che potrà essere fatta valere solamente dal professionista – sarà dichiarata dal giudice che rideterminerà con un intervento costitutivo la somma da corrispondere tramite una valutazione equitativa, modulandola sui parametri ministeriali o sulle tariffe in vigore, mentre nel secondo caso si avrà una nullità relativa (vitiatur sed not vitiat) delle sole clausole vessatorie che si considereranno come non apposte (i.e. tamquat non esset).

Cambiare tutto per non cambiare niente

A questo punto, fatta la doverosa premessa, si può provare a dare una risposta al quesito di partenza. La proposta di legge sull’equo compenso, a sommesso parere di chi scrive, sembra un espediente “gattopardiano” che innova lo stato dell’arte senza davvero apportare alcuna modifica, riducendo ad un effimero tentativo, peraltro neanche così deciso, la volontà di dare spazio alle voci, invero sempre più forti, di tutte le nuove professioni emergenti, i cui esponenti non sono iscritti ad alcun ordine o ad alcun collegio, rientrando nell’ambito della L. n. 4/2013. È di palmare evidenza che tra tutte queste categorie figuri anche quella degli influencer.

Il nodo gordiano da sciogliere, per rispondere al quesito iniziale, allora, è il valore che assumono le tariffe di cui ai decreti ministeriali e se possano intervenire a fissare dei compensi equi per professionisti che non appartengono ad alcun ordine professionale e se sia possibile per il giudice ricorrere a un potere equitativo, per ricondurre appunto ad equità un compenso che equo non è, anche in assenza di ordini professionali o di decreti emanati.

Si evidenzia che l’art. 1, in maniera piuttosto inequivocabile, fissa un parametro tassativo ai fini della declaratoria di equità di un compenso, ovverosia la sua rispondenza a quanto fissato dal decreto ministeriale, pertanto, si può essere autorizzati a pensare che la norma escluda dal suo alveo solamente i soggetti appartenenti a categorie per le quali l’Esecutivo non ha fissato e non fisserà delle tariffe ad hoc. Quanto qui si sostiene in effetti sembra essere suffragato dall’art. 4, comma 2 della proposta de qua che testualmente statuisce che “il giudice, accertata la non equità del compenso del professionista, ne determina il compenso applicando i parametri previsti dai decreti ministeriali”.

In claris non fit interpretatio.

Ebbene, sembra chiaro che in assenza di un decreto ministeriale che stabilisce le tariffe non sia possibile per il giudice esercitare un riproporzionamento fondato solamente su parametro ex lege. A dirla tutta, quindi, pare che l’unica possibilità di adire il Giudice del Lavoro per chiedere di rideterminare il compenso, in caso di presunta iniquità, sia proprio l’esistenza di un decreto ministeriale di riferimento.

Sembrerebbe che l’estensione della tutela contro i compensi iniqui spetti astrattamente anche alle professioni non ordinistiche, tuttavia così non è (o almeno questo è l’auspicio di chi scrive e fa da interprete).

L’art. 3, al comma 1, parte seconda, stabilisce che “sono nulle le pattuizioni di un compenso inferiore agli importi stabiliti dai parametri o dalle tariffe per la liquidazione dei professionisti iscritti agli ordini o ai collegi professionali, fissati con decreto ministeriale”. Come se non bastasse quanto sinora illustrato, la proposta di legge individua una ulteriore facoltà all’art. 5, ovvero quella di richiedere e ottenere da parte dell’ordine o del collegio professionale un parere di congruità sui compensi pattuiti e liquidati ai professionisti, che ha valore di titolo esecutivo. È inutile specificare che questa norma specifica, allo stato dell’arte, allarga ulteriormente la frattura già esistente, a livello di tutele in tema di equo compenso, tra le professioni ordinistiche e quello non ordinistiche, con buona pace di tutte le nuove professioni, i cui esponenti continuano a essere così squalificati dal Legislatore e ciò è quanto hanno contestato in questi giorni numerose associazioni di categoria professionale durante la loro audizione in sede di Commissione Giustizia.

Conclusioni

In chiusura, focalizzando l’attenzione sull’emergente figura degli influencer, non esistendo allo stato né un ordine né un collegio che racchiuda le istanze di tali professionisti, ma soltanto l’associazione di categoria denominata “Assoinfluencer”, è evidente che siamo ancora ben lontani dalla possibilità di proteggere il diritto di costoro a ricevere un compenso equo e proporzionato, alla qualità e alla quantità del lavoro prestato, nelle ipotesi in cui costoro si trovassero a svolgere la propria attività nei confronti dei soggetti di cui all’art. 2 della proposta qui oggetto di trattazione.

Stando così le cose, la proposta di legge qui oggetto di disamina, oltre a non migliorare le posizioni di questi professionisti, rischia di diventare un “richiamo delle sirene” per tutti i soggetti di cui all’art. 2, i quali potrebbero avviare una concorrenza al ribasso, confidando nel fatto che agli influencer non è riservata possibilità di ricorrere al Giudice del Lavoro per richiedere l’adeguamento del compenso, né ricorrendo a parametri fissati (che si ricorda non esistono allo stato), né tantomeno ad un potere equitativo.

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