soft law

Fake news: bene il Codice di condotta “rafforzato”, ma la Ue deve fare di più

Il Codice di condotta sulla disinformazione, un’iniziativa di “soft-law” non vincolante, presuppone una massiva partecipazione di tutti gli attori interessati a contribuire al miglioramento dell’ecosistema digitale. Ben venga, ma serve anche, e con urgenza,predisporre incisive, solide e concrete azioni operative

Pubblicato il 07 Giu 2022

Angelo Alù

studioso di processi di innovazione tecnologica e digitale

Disinformazione online: i pericoli del rallentamento della lotta alle fake news

La Commissione europea ha recentemente pubblicato la bozza base del Codice di condotta rafforzato UE sulla disinformazione: il documento, che rappresenta il risultato di una prima fase progettuale di lavori preparatori risalenti al Piano d’azione europeo per la democrazia (EDAP), è stato redatto a conclusione di una serie di iniziative programmate nel corso del tempo volte, tra l’altro, a monitorare il flusso comunicativo veicolato durante la pandemia “Covid-19”, come apprezzabile approccio “multistakeholder” di interlocuzione dialogica trasversale.

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Il Codice di condotta, nel suo embrionale testo basico, è stato firmato dalle principali piattaforme social e da vari inserzionisti del settore pubblicitario già nel 2018 (restando ulteriormente aperto all’adesione di altri operatori telematici negli anni successivi) e mira ad evolversi in un nuovo e innovativo Codice di condotta rafforzato, qualificabile come strumento di coregolamentazione destinato ad integrare la legge sui servizi digitali, rispetto alle indicazioni fornite da apposite relazioni illustrative sullo stato di avanzamento delle misure adottate dalle stesse aziende tecnologiche nell’ambito di una progressiva tabella di marcia pianificata per la relativa attuazione.

Fake news: una minaccia per le democrazie europee

Tuttavia, malgrado gli sforzi compiuti e i progressi riscontrati, in generale si evince ancora come la circolazione di fake news costituisca una significativa minaccia per le democrazie europee, mettendo a rischio il regolare funzionamento del processo elettorale e la convivenza sociale pacifica tra i consociati sino a provocare una progressiva irreversibile perdita di fiducia della collettività nei confronti delle istituzioni e dei media (a confermo di ciò, il “51% degli europei pensano di essere stati esposti alla disinformazione online”).

La disinformazione sul Covid

Pur registrandosi, in sede di monitoraggio periodico, un rilevante calo dei contenuti recanti tag associati ad informazioni relativi al coronavirus (tra i focus di maggiore engagement vi sono ancora post polemici e provocatori su restrizioni e campagna vaccinale), nell’ultimo periodo esaminato (il riferimento temporale è di un limitato orizzonte bimestrale), ad esempio, Twitter ha sospeso 527 account in violazione della sua politica sulle informazioni fuorvianti “Covid-19” (osserva però lo studio, come dato positivo, comunque 962 in meno rispetto alla precedente rilevazione), mentre sono stati rimossi 6.712 contenuti sempre relativi al “Covid-19” (1.487 in più rispetto al periodo precedente). Anche su Google sono stati bloccati 33.882.679 (+267.048) annunci relativi al coronavirus, così come la rimozione eseguita da Zuckerberg riguarda 78.000 (-124.000) contenuti postati all’interno di Facebook e 9.800 (-14.000) diffusi via Instagram sempre per riscontrate inottemperanze accertate in contrasto con le policy applicate da tali social media.

La narrazione della guerra russo-ucraina

In questo senso, prendendo atto del dilagante fenomeno della cd. “infodemia” e alla luce degli attuali risvolti negativi (più o meno percepibili) provocati dalle insidiose campagne di propaganda massivamente pianificate con l’intento di controllare la narrazione della guerra russo-ucraina, in sede di stesura del Codice di condotta UE sulla disinformazione, viene fornita un’interessante ricognizione aggiornata sulle principali azioni intraprese per combattere il fenomeno delle fake news.

A presidio di un irrinunciabile “spazio democratico dell’informazione” – ancora però troppo esposto ai pericoli della “polarizzazione” algoritmica dei contenuti viralizzati all’interno di invisibili “bolle di filtro” – è sancita la prioritaria elaborazione di un sistema di rilevazione sempre più accurato, solido e completo che consenta di assicurare un controllo effettivo sulla qualità delle informazioni diffuse online.

Proprio per tale ragione, la stesura definitiva di un Codice di condotta rafforzato (“forte”, “stabile” e “flessibile”) risulta finalizzato a formalizzare le linee guida operative tracciate dalla Commissione europea come concreti orientamenti applicativi presenti e futuri – (comunque allo stato non vincolanti) – elaborati anche in divenire nell’ambito di una costituenda task force permanente, in grado di contrastare la disinformazione tenuto conto di tutte le dinamiche tecnologiche, sociali ed economiche destinate a influenzare lo sviluppo evolutivo dell’ambiente digitale.

Il Codice di condotta sulla disinformazione

Il Codice di condotta sulla disinformazione, presentato come un’iniziativa di “soft-law” unica nel suo genere a livello mondiale (destinato peraltro ad integrare, secondo un modello co-regolatorio ibrido pubblico-privato “leggero-pesante”, la disciplina cogente dettata dal Digital Services Act), è aperto al sostegno attivo dei gestori delle piattaforme online, per dare un reale impulso alla sostanziale implementazione degli obiettivi enunciati nel documento: anche a costo di sacrificare una parte del proficuo business legato al sistema algoritmico dell’advertising online, gli operatori telematici rappresentativi dell’industria digitale, da firmatari del documento, sono fortemente sollecitati ed incoraggiati ad assumere un ruolo centrale nel contrasto della disinformazione, nell’ottica di supportare, con un approccio proattivo di cooperazione collaborativa, la lotta alla disinformazione non solo rispetto alla possibile rimozione – ex post – di notizie false o fuorvianti, ma soprattutto in chiave preventiva per ridurre – ex ante – il preoccupante impatto che l’inquinamento delle fonti comunicative genera sul dibattito pubblico al punto da destabilizzare la società nel suo complesso.

Demonetizzare la disinformazione

In tale prospettiva, il rafforzamento del Codice di condotta UE sulla disinformazione presuppone una massiva e integrata partecipazione di tutti gli attori – pubblici (settore politico-istituzionale) e privati (settore imprenditoriale, ricerca e società civile) – interessati a contribuire al miglioramento dell’ecosistema digitale. Come indispensabile condizione di rigenerazione correttiva del sistema è, al tal fine, evidenziata la necessità di “demonetizzare la disinformazione”, per garantire, nel rispetto di adeguati standard di trasparenza e responsabilizzazione, l’adozione di efficaci misure di “fact-checking” in grado di identificare, anche grazie alla generale disponibilità di strumenti di segnalazione fruibili dagli utenti, gli annunci sospetti veicolati online, bloccando in anticipo le campagne di manipolazione ivi promosse (mediante l’uso sistemico di bot, account falsi, ecc.).

Nel merito dei principi programmatici solennemente enunciati all’interno del testo, il Codice di condotta UE sulla disinformazione si applica, senza alterare la tenuta del quadro normativo esistente così come desumibile dalla consolidata interpretazione elaborata dalla giurisprudenza nella ricostruzione del suo ambito di operatività.

Il documento, lungi dal modificare il regime di responsabilità degli Internet Provider di cui agli artt. 12-15 della Direttiva 2000/31/CE, in combinato disposto con il Regolamento 2016/679/UE (“GDPR”), la Direttiva 2005/29/CE (relativa alle pratiche commerciali sleali) e la Direttiva 2006/114/CE (concernente la pubblicità ingannevole e comparativa), in perfetta integrazione sistematica con le principali fonti di diritto attualmente riconosciute nel panorama transnazionale (a mero titolo di esempio, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e la CEDU), riproduce la definizione di “disinformazione” delineata dalla Commissione europea nella Comunicazione “Contrastare la disinformazione online: un approccio europeo”.

Una definizione di “disinformazione”

In particolare, la disinformazione consiste in “un’informazione rivelatasi falsa o fuorviante, cumulativamente a) “concepita, presentata e diffusa a scopo di lucro o per ingannare intenzionalmente il pubblico, e b) che può arrecare un pregiudizio pubblico, inteso come minacce ai processi politici democratici e di elaborazione delle politiche e a beni pubblici quali la tutela della salute dei cittadini, dell’ambiente e della sicurezza dell’UE”.

In tale prospettiva, garantendo un ambiente digitale trasparente conforme alla configurazione di una Rete Internet aperta, i firmatari del codice, nel rispetto del principio di proporzionalità, si impegnano ad attuare una serie di raccomandazioni indicate nel Codice (sebbene senza alcun vincolo giuridicamente coercibile in caso di inosservanza del testo e fatta sempre salva la possibilità di un’eventuale successiva revoca che può essere fatta valere in qualsiasi momento).

Meccanismi di protezione dalla disinformazione

Più precisamente, i firmatari predispongono, tra l’altro, meccanismi di protezione dalla disinformazione, mediante il miglioramento del sistema di inserzioni di advertising, con particolare riferimento ai messaggi pubblicitari di natura politica, anche al fine di permettere agli utenti, sulla base di apposite campagne di sensibilizzazione all’uopo pianificate, di comprendere i rischi sottesi alla diffusione di fake news, unitamente agli insidiosi pericoli provocati dalla manipolazione algoritmica, nell’ottica di favorire la circolazione di informazioni pertinenti, autentiche, accurate e autorevoli, con la conseguente interruzione dei messaggi pubblicitari portatori di contenuti falsi e fuorvianti anche a discapito di rinunciare ai relativi incentivi monetari ivi assicurati dal modello di business online.

Codice di condotta: finalità condivisibili, ma poco incisive sul lato pratico

Invero, alla luce di tali ambiziose e condivisibili finalità, non si comprende del tutto, sul piano sistematico, la scelta di redigere, secondo un limitato approccio soft tendenzialmente tardivo, una dichiarazione programmatica recante l’enunciazione teorica di meri principi generali (per certi versi anche oltremodo scontati e prevedibili), come il citato Codice di condotta UE sulla disinformazione, privo di vincolatività giuridica, la cui concreta effettività è praticamente rimessa ai buoni propositi degli operatori telematici.

A maggior ragione se si considera la disinformazione una delle maggiori insidie per la tenuta delle democrazie occidentali al punto da rappresentare la principale sfida per l’Unione europea, ben oltre una semplice “delega in bianco” attribuita ai firmatari del testo per la concreta implementazione del Codice, dovrebbe intensificarsi – sul versante politico-giuridico – la lotta prioritaria contro la circolazione di fake news per evitare il rischio di massive campagne di manipolazioni dell’opinione pubblica esposta al pericolo di sofisticate strategie comunicative (basate sull’uso sistematico di bot, account falsi, ecc.) in grado di compromettere il pluralismo informativo, come da tempo rilevato sulla base di svariati studi di settore (emblematico il report “The Global Disinformation Order: 2019 Global Inventory of Organized Social Media Manipulation”).

Conclusioni

Non è la prima volta che le istituzioni europee ricorrono ad una tecnica “soft” per formalizzare orientamenti di visione nell’ambito di determinati settori considerati strategicamente centrali nella propria agenda politico-istituzionale: si pensi, ad esempio, alla “Declaration on European Digital Rights and Principles” (cui a sua volta pare ispirarsi anche la “Declaration for the Future of the Internet”), adottata per tratteggiare una cornice generale non vincolante di principi come appunto una sorta di manifesto programmatico che mira a realizzare un ambiente digitale sicuro, equo e accessibile, ove gli utenti siano in grado di esercitare i propri diritti in condizioni di sicurezza e trasparenza.

In un complessivo scenario regolatorio dalle possibili contraddizioni applicative, mentre segue il rituale lento iter procedurale l’approvazione – ancora lontana – del Regolamento UE sull’Intelligenza Artificiale al punto da innescare preoccupanti criticità normative a causa di un patologico ritardo in grado di vanificare gli obiettivi perseguiti (secondo quanto recentemente censurato dalla Commissione speciale “Aida”) rispetto ad un settore tecnologico, come l’IA, in cui invece potrebbe rilevarsi proficuo formalizzare un approccio soft-law (sulla falsariga di ben rodate esperienze riscontrabili in altri ordinamenti), il caso del Codice di condotta rafforzato UE sulla disinformazione è dunque emblematico: piuttosto che continuare ad edificare un’architettura “leggera”, verosimilmente precaria nelle sue “fondamenta regolatorie”, ulteriormente procastinate da una tempistica di intervento poco lungimirante e troppo dilazionata, ben oltre la definizione teorica di una mera cornice generale, quando si interviene in relazione a questioni prioritarie e non più rinviabili, sarebbe auspicabile predisporre incisive, solide e concrete azioni operative anche in grado di rafforzare l’ambizioso obiettivo di sovranità digitale che l’Unione europea si prefigge di raggiungere come alternativa credibile alle superpotenze tecnologiche individuabili a livello globale.

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