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Hay Day: perché piace tanto ai ragazzi (e dovremmo preoccuparcene)

Hay Day è un gioco incentrato sulla gestione di un’azienda agricola. Ma perché suscita tanto interesse nei ragazzi? Ecco perché potrebbe leggersi come un grido disperato: la decadenza dell’esistere che colonizza il gioco e lo trasforma in una simulazione lavorativa

Pubblicato il 07 Giu 2022

Lorenza Saettone

Filosofa specializzata in Epistemologia e Cognitivismo, PhD Student in Robotics and Intelligent Machines for Healthcare and Wellness of Persons

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Tra una pausa e l’altra delle lezioni di scuola, i ragazzi si divertono con un mobile game incentrato sulla gestione di un’azienda agricola: Hay Day. Incuriosita da questa moda ho chiesto loro il motivo di tale frenesia. Da un lato ci sono influencer come Cicciogamer89 che hanno rilanciato questo casual game, che era uscito addirittura nel 2012 e già ai tempi registrò un boom di download, dall’altro Hay Day rappresenta una possibilità carina di pensare fuori dagli schemi e ricrearsi assieme agli amici, senza troppe pretese. Mi domando, tuttavia, se esistano lati oscuri dietro un simile casual game.

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Hay Day: come funziona

Hay Day è un freemiuim per smartphone pubblicato da Supercell nel 2012. L’azienda è la stessa di Clash of clans per intenderci e con entrambi i giochi nel 2014 triplicò i suoi guadagni.

Su Hay Day per avanzare nei livelli non si devono necessariamente effettuare microtransazioni. Qui non si “paga per vincere” come oramai è tipico negli altri giochi falsamente gratuiti, i quali, al contrario, nascondono dietro ai loot box un “azzardo con il bollino verde”.

A tal proposito in Cina, per frenare questa piaga tra i minori, era stata approvata una legge che limitava non solo il tempo di gioco, ma anche le microtransazioni consentite in un mese, a seconda della fascia di età. C’era anche l’ipotesi di utilizzare un riconoscimento facciale per bloccare eventuali dichiarazioni mendaci di età. A parte il dilemma della privacy per l’utilizzo di dati sensibili degli utenti, specialmente minori, riservo molti dubbi sull’efficacia. Sfido un algoritmo a definire con accuratezza l’età del gamer. Pensate che quando mi sento triste scrivo un codice con i modelli di machine learning incorporati su Mblock (piattaforma cinese studiata appositamente per la didattica), visto che ogni volta mi sento riconoscere dieci anni in meno. Inoltre, quando faccio provare ai bambini il sistema di riconoscimento dell’età, viene sempre aggiunto mezzo decennio ai pargoli, con grande vanto di tutti, mio e loro!

Hay Day e il liberismo

Su Hay Day si è piuttosto liberi di scegliere come occuparsi, pur sempre restando nell’ambito contadino. Allevare, coltivare o preparare torte e marmellate: ognuno è autonomo, scegliendo di dedicarsi a ciò che in quell’istante appare più divertente. Non ci sono tutorial da guardare, non c’è da perdersi dietro meccaniche complesse. Semplicemente si clicca e si fa a modo proprio. Certo, si può giocare da soli, ma sicuramente è più divertente unirsi a una comunità, dove ci si aiuta reciprocamente.

Ecco che forse la logica di base non è puro liberismo e competizione, ma probabilmente ci si avvicina di più al cooperativismo socialista. In realtà, come sottolineò Lenin a proposito delle cooperative agricole, se l’intenzione dominante del mercato è ancora quella capitalistica, ogni azienda che vorrebbe essere socialista resta un’impresa collettiva fondata sul concetto della proprietà privata. Per cancellare la lotta di classe e le logiche borghesi è necessario distruggere il modo di produrre dominante. E così mi sembra anche Hay day, che, per quanto la comunità abbia un valore e non si corra da soli facendosi le scarpe a vicenda, lo scopo del gioco resta dominato dalla bandiera del liberismo. Il consumismo, l’etica calvinista del guadagno, le logiche del profitto sono ben visibili in ogni elemento del game play.

Perché ai ragazzi piace Hay Day

I miei stessi studenti mi hanno spiegato che l’obiettivo è “proprio come era successo in Inghilterra prima della rivoluzione industriale, quando sono state recintate le terre e i proprietari hanno cominciato a produrre con l’obiettivo di guadagnare, inserendo le macchine”. Oltre all’onore di aver la consapevolezza di aver insegnato qualcosa anche questo anno, mi ha incuriosito l’interesse dei ragazzi per un giochino in cui viene simulato il lavoro agricolo.

Probabilmente le nuove generazioni sentono il bisogno di concretizzare ciò che fanno e simulare il lavoro in fattoria avvicina la generazione Z alle “cose pratiche”. Scendono dai piani alti dell’iperuranio (idee valori e idee matematiche, per intenderci), a quelli più prossimi al mondo delle cose (idee degli enti naturali), pur restando ancora nello spazio digitale. Non so come si possa interpretare questo sintomo, ma da filosofa (leggasi “avvocato del diavolo”) sento il bisogno di decostruire criticamente ogni aspetto di Hay Day, anche quelli che prima facie potrebbero sembrare innocui, se non addirittura buoni.

Il bisogno di natura supplito dietro il touch screen

La concretezza di Hay Day è comunque assenza di lavoro vero; è una riproposizione sotto una altra forma del PCTO; il bisogno di Natura è ancora una volta supplito dietro il touch screen di uno smartphone; la schiena curva è il risultato del tech-neck. Inoltre, c’è da dire che quando i ragazzi lamentano la non spendibilità sul mercato del lavoro di ciò che un liceo insegna loro, ne percepisco tutta la decadenza dello spirito occidentale denunciata da Nietzsche già a fine Ottocento. È la fine delle arti liberali, quelle che avrebbero dovuto rendere libero l’essere umano, quelle fini a sé stesse e mai mezzi per altro.

Se un tempo era un valore per una disciplina non saperne definire una utilità da impiegare in bottega, se la scuola era il privilegio di chi poteva permettersi di formare la propria libertà, non dovendosi gettare subito tra gli obblighi del lavoro, adesso, all’opposto, non vi è più alcun vanto nell’apprendere materie che non siano inseribili nel curriculum vitae.

Ormai, assorbiti dal “total work”, così come lo definì Pieper, non sappiamo più ragionare che in termini di lavoro e di disoccupazione. Il tempo libero non è un concetto svincolato dalle faccende che dobbiamo portare a termine. È un momento per organizzare le deadline o una ragione per sentirci in colpa, non essendo stati nei ritmi e avendo avuto bisogno di tagliare una campanella di intervallo.

Ecco che quando la scuola chiede più concretezza ai fini del mercato del lavoro ravviso tutta la tristezza dell’uomo a una dimensione di Marcuse. La domanda è sempre la stessa: “Ok, prof, bello Socrate, ma cosa me ne faccio? E cosa mi serve lo studio di una funzione o la trigonometria? Mi basta sapere la matematica della secondaria di primo grado, non trova?”.

Se anche il videogame rinuncia alla sua “inutilità”

Anche il videogame, allo stesso modo degli altri campi della cultura, sta rinunciando al suo lato di sospensione ordinata dalle faccende quotidiane. Forse in futuro accetteremo solo ciò che può essere giustificato alla luce di una qualche utilità pratica e in Hay Day se ne può vedere un prodromo. Giocheremo solo se potremo rendere ragione che si tratti di un modo di imparare, di un modo di simulare lavoro e guadagno, di un modo per beneficiarne per la salute fisica o mentale. Non giocheremo più senza saperne dare un buon motivo. Anche il videogame sta venendo inquadrato nei concetti del “total work”. Tutto dovrà essere controllabile, rigidamente inserito nell’etica utilitarista. E, così, ciò che sconfinerà da una qualunque comprensione per mezzi-fini, verrà probabilmente rigettato, perché non è misurabile il suo essere o no di “beneficio per il maggior numero”. E il beneficio è sempre calcolato nella maniera in cui si scommette in Borsa.

Conclusioni

Insomma, siamo qui solo più per lavorare, anzi, peggio, per produrre. Le competenze non hanno valore se non possono essere descritte alla luce di un futuro impiego e magari redditizio. Un tale modo di esistere non può renderci felici. La creatività ha lasciato il posto alla burocrazia. Ogni stanza del nostro spazio-tempo è un ufficio.

Hay Day è da leggersi come un grido disperato dei ragazzi. La decadenza dell’esistere che colonizza il gioco e lo trasforma in una simulazione lavorativa. L’unico pro della fattoria era la natura, in questo caso ci resta solo la finalità del guadagno.

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