l'approfondimento

Videogame: solo giochi da ragazzi? Luoghi comuni e i miti da sfatare

Cos’è il videogioco? Qual è il profilo del videogiocatore? Perché tutti possono essere «gamer» ma i videogame non sono sempre «consigliati» a chiunque? I videogame, dai luoghi comuni alle pietre miliari

Pubblicato il 11 Mar 2022

Luca Federici

Investigatore antiriciclaggio; esperto di comunicazione, autore di Mafia e mafie: Cosa nostra e la dote vincente

egaming

Qual è la definizione di videogioco? Cosa rende tale il videogame?

Sulla prima domanda si dica da subito che, ancora oggi, c’è un’incertezza di fondo definitoria su cosa sia un videogame (cui si tenterà nondimeno di dare risposta durante questa lettura).

Sulla seconda, con un po’ più di tranquillità, si può dire che un videogame lo rende tale il gameplay. Il gameplay è l’unione dei termini inglesi di game con quello di play. Gameplay, tutto attaccato: neologismo quindi anglosassone, non tradotto in italiano per un motivo più pratico che di intraducibilità (la quale traduzione sarebbe, forse effettivamente un tantino tautologica, grossolanamente, di: giocare il gioco). Forestierismo che compendia quindi il game, intendendolo come la componente più competitiva del gioco (un po’ come lo spirito con cui competono i campioni ai giochi olimpici) e il play, questa quale parte più ludica del giocare, quella coinvolgente l’intrattenimento e il divertimento.

Il videogioco come chiave di lettura della società: le influenze su economia, cultura, arte

Il profilo del gamer

Cosa hanno in comune Matteo Messina Denaro, Halley Gross ed Elon Musk?

Il primo, Matteo Messina Denaro, è uno dei più terribili stragisti della storia d’Italia tuttora vivente e da trent’anni latitante, generalmente ritenuto come la primula al vertice di Cosa nostra ex post dipartita per morte naturale di Totò Riina e di Bernardo Provenzano.

Halley Gross, invece, è una delle più grandi sceneggiatrici della generazione Millenial: sia per le serie TV (esempio n’è Westworld – Dove tutto è concesso) sia per la videoludica, in particolare dal 2020 quando ha co-sceneggiato con Neil Druckmann il videogioco più premiato di tutti i tempi, The Last of Us Parte II.

L’“ultimo” è il da Vinci del III millennio, la persona dell’Anno 2021 per il Time e l’individuo che tra l’altro ha contribuito a portare l’elettrificazione dell’automobile dalla quasi inesistenza, all’unanimità dell’automotive; il medesimo “soggettone” che tra l’altro ha (ri)portato gli Stati Uniti d’America nello spazio con l’ambizione di colonizzare Marte.

Orbene, che cosa avrebbero in comune costoro? Niente. Per nessun cluster: classe sociale, genere, sesso, età, reddito o professione. Infatti, non hanno nulla in comune se non il fatto di essere… Dei gamer, fin dalla tenera età.

E questo, a sua volta, cosa implica? Proseguendo la provocazione: un bel niente.

Nella migliore delle ipotesi infatti, esso, sarebbe un pleonasmo; nella peggiore, un errore. O meglio e per parafrasare Elle McCarthy, vicepresidente del brand di Electronic Arts (in acronimo EA; uno dei più grandi publisher di videogame al mondo, con sede negli USA): «Cercare [oggi] il target dei gamer è come dire che si stanno prendendo di mira persone a cui piace la musica o persone che respirano aria».

Cioè a dire: non è tanto sbagliata la risposta, ma proprio la domanda.

In altri termini, sarebbe come, addirittura, cercare di distinguere le persone viventi categorizzando chi respira da chi non respira: una suddivisione che più che essere insensata, parrebbe essere un errore. Perché ormai il videogioco sarebbe assunto, per la società post-contemporanea cui viviamo, a una vera e propria essenza.

Sarebbe cioè come chiedere, in assoluto, a qualcheduno se gli piacesse o meno la musica. Che domanda mai sarebbe? E, soprattutto, avrebbe senso? In una parola: no.

Due luoghi comuni da sfatare

Calando questo “principio” in precipitato numerico, si sappia che a livello mondiale le persone che videogiocano sono 3 miliardi.

Persino nella conservativa Italia, ben il 44% dell’agglomerato dei player è composto da videogiocatrici (dati dell’Italian Interactive Digital Entertainment Association). Andando a sfatare così un primo, di una lunga serie di luoghi comuni, che in questo caso assumerebbe il videogiocare a una specifica e ben delineata prerogativa eminentemente maschile.

Ora ci si soffermi su di un’altra caratteristica contraria alla percezione d’epidermide: perché ben il 22% dei gamer (dati dell’Europe’s Video Games Industry), cioè a dire oltre una persona su cinque a livello europeo, videogioca avendo un range di età compreso tra i 45 e i 64 anni. Costituendo questo come il secondo gruppo demografico per consistenza e quindi facendo crollare un’altra credenza: quella per cui i videogiochi sarebbero solo ed esclusivamente un’attività per bambini.

I videogame non sono solo un gioco “da ragazzi”, ma per «tutti»

«Tutti» possono essere videogiocatori, ma non a tutti è consigliabile giocare a tutto. Non stupisce allora che, a contrario, a livello continentale i videogiochi siano disciplinati da una (“auto”-)classificazione denominata Pan European Game Information, più nota con l’acronimo di PEGI.

Ma si parta da principio: all’inizio del III millennio venne adottata una pura autoregolamentazione dal e del settore videoludico (per “tutelarsi” domesticamente dopo gli scandali con anche sequestri e strascichi giudiziari dei primi videogiochi “fotorealistici” e violenti degli anni Novanta del 1900), per identificare il contenuto dei videogiochi. Perché, e qui scrollandosi di dosso un altro potenziale qui pro quo, i videogame sono un medium comunicazionale a tutto tondo, potendo trattare di innumerevoli tematiche (anche serie, crude e mature tali da essere sconsigliate a un pubblico di minorenni, cioè essendo ab origine pensate per la fruizione di una platea rigorosamente adulta, over 18).

Va da sé, allora, che il più facile paragone possibile, a questo punto, sia quello di archetipo del contenuto videoludico con la classificazione cinematografica. Per cui vi sono film appartenenti a più generi, tra i quali quelli comici, fantascientifici, erotici, orrorifici, pornografici e via seguitando. E ogni genere non è tendenzialmente adatto per tutti gli uditori così come a sua volta, ogni singola opera, potrebbe avere profonde differenze rispetto gli spettatori cui è rivolta. Lo stesso concetto può e anzi deve essere applicato, al fine di una iniziale comprensione, oggi come oggi, anche al videogame: perché esso è un mezzo espressivo sulla falsariga della filmografia.

E non è un caso allora che il meccanismo di autoregolamentazione videoludica sia diventato più sfaccettato, ma anche più cogente: perché da originariamente essere interno-industriale (quasi di moral suasion), dalla fine degli anni Dieci del XXI secolo, è diventata una classificazione legalmente obbligatoria al fine di poter distribuire un videogame a livello nazionale.

Il funzionamento di questa classificazione è a “semaforo” (sullo stile della “bollinatura” dei film in televisione: verde, arancione e rosso).

La classificazione PEGI

Attenzione, questa classificazione non ha mai, mai a che fare con la difficoltà del videogioco. Perché questo è un grossolano misunderstanding ancora oggi presente tra il pubblico a discapito di oltre vent’anni di divulgazione sul PEGI. Certo, esse sono nozioni basilari ma di cui è bene tenere conto e, anzi, è doveroso ribadire ancora una volta proprio perché fondamentali (quanto più se questa lettura è destinata, per com’è, ai docenti del domani): il PEGI non ha mai a che vedere con la difficoltà del videogioco espresso in termini di età bensì concerne solo ed esclusivamente la tipologia di contenuti per cui è consigliata la fruizione di quel videogame.

Dinanzi a un PEGI 18+ (il riferimento massimo della scala e l’unico del colore rosso), quindi, il gamer può, in altri termini, venire a contatto di contenuti interattivi seriamente impressionanti (a prescindere dalla difficoltà del videogame).

Ma è necessario anche a un altro livello di astrazione, perché il “bollino” colorato è compendiato dalle etichette specifico-descrittive della tipologia di contenuto che compone l’opera videoludica.

Cioè a dire che queste classificazioni a semaforo-età (verde PEGI 3+ e 7+; arancione PEGI 12+ e 16+; rosso PEGI 18+) devono essere poi di volta in volta interpretate in combinato a quelle “etichette” che vanno a descrivere concretamente la tipologia di interazione scaturita: violenza, gioco d’azzardo, sesso, droghe, discriminazioni, linguaggio scurrile, paura, attività online e acquisti nel videogame.

Queste nove “etichette” le si possono intendere come indici descrittivi da dover calibrare proprio in virtù dei colori e alle rispettive età della classificazione a semaforo, ciò al fine di correttamente e complessivamente interpretarle per un “buon” uso.

Concretizzando: che cosa sta a significare un mark descrittivo di violenza, di sesso e di droga con PEGI 18+ (colore rosso) a latere di un videogame? Che quel singolo videogioco ha contenuti videogiocabili di assoluta crudeltà e violenza; di stomachevole volgarità e di nudità o sesso, anche esplicito, per cui ne è consigliata la fruizione unicamente a un pubblico di almeno neomaggiorenni.

E qui venendo a dischiudersi una differenza rimarchevole rispetto al cinema: perché il telespettatore si “limita” a guardare, a vedere, a passivamente fruire dell’opera su pellicola. Cioè a dire che lo spettatore vede compiersi l’omicidio, mentre nel videogame è lui che può controllare l’omicida, non limitandosi a “solidarizzare” con il protagonista Walter White interpretato dall’attore Bryan Cranston. È il gamer stesso a controllare e a essere Walter White che “cucina” le metanfetamine: è lui il villian che tramite l’interazione con il controller, prepara e dispensa “paste”.

Ancora più direttamente e distinguendo tra le potenzialità dei due media, il telespettatore è lo spettatore-testimone di uno stupro, nel videogame il videogiocatore è il player-carnefice.  È il videogiocatore, attraverso l’intermediazione interattiva di un controller, a controllare, a “compiere” quel che su schermo appare, con tanto di discrepanza dell’esperienza “vissuta” tra chi vede compiersi qualcosa e chi quell’esperienza la “vive”.

Senza che questo, però, si trasmuti semplicemente e automaticamente in sovrapposizione identitaria tra l’io videogiocatore e l’alter ego (digitale) controllato (e/o viceversa).

Quindi sì, non solo possono esistere (e sono legali!) dei videogiochi “estremi” (purché sempre iscritti nel regime della legittimità ordinamentale), ma essi possono anche derivare un impatto alt(r)o rispetto a qualsivoglia media li abbia preceduti.

I descrittori possono quindi essere coniugabili per più colori e distinte età del “semaforo”. Per esempio, il simbolo della violenza, della paura e della scurrilità può essere riferito a videogiochi da PEGI 7+, PEGI 12+, PEGI 16+ e PEGI 18+.

In questo caso, ovviamente, gioca un ruolo chiave il differente peso interpretativo associato a quei descrittori. Volendo fare un esempio per tutti, il descrittore della violenza conferito al PEGI 18+ è monito di una violenza totalmente diversa alla stessa icona ma apposta su di un videogame dal PEGI 7+: perché se nel primo caso è possibile parlare di vere e proprie brutalizzazioni, nel secondo, invece, si parteciperà a “scontri” del tutto inverosimili, quasi astratti e idealtipici stile Lego che, in incontri di lotta tra i due “pupini” stilizzati, si scompongono nei medesimi pezzettini (ancorché virtuali) di quegli stessi materiali cui il bambino o la bambina combina e distrugge fisicamente nella propria cameretta con le “vere” Lego (essendo in quest’ultimo caso, pertanto, una violenza del tutto stilizzata e tenue).

Ed è una fattispecie tanto più da tenere a mente perché vi è da evidenziare un ulteriore aspetto: la classificazione del PEGI è infatti sì obbligatoria nell’essere esibita a latere di ogni videogioco che viene nazionalmente distribuito (gratuitamente od onerosamente; fisicamente o digitalmente), ma essa non è, nel suo rispetto da parte del consumatore/utente/gamer finale, prescrittiva. Non vi sono quegli stessi limiti, più o meno cogenti, che impediscono la vendita, per dire, di alcol e di sigarette ai minorenni.

Quindi potendo, esemplificativamente, anche un dodicenne videogiocare a un videogame dal PEGI 18+. Ciò non necessariamente, causalmente, segnalando una stortura del sistema. Perché non automaticamente ne potrà derivare un trauma per quell’individuo, pur venendo in contatto con contenuti che, a propri, certamente non rientrerebbero nell’auspicabile ambito di maturità di quel soggetto.

Tutto questo permane possibile dapprima perché si vive in una società liberale e democratica, con vincoli rispondenti al principio di proporzionalità per cui si ritiene inoltre ineliminabile il controllo genitoriale ed educazionale che, in linea generale, permette di evitare di assolutizzare il “cosa” con il “chi”: vietando imperativamente solo là ove se ne senta l’ineludibile bisogno. Sia perché la specifica persona in questione, per quanto anagraficamente piccola, potrebbe avere una maturità più elevata rispetto quella medio-presunta, sia perché, ovviamente, non ogni contenuto di quel videogame risulta essere necessariamente “vietato” ai minori. Potendo in altri termini, senza traumi, settorialmente, venirne in contatto in maniera ragionata, perché magari accompagnato nell’esplorazione della sua fruizione da un contesto sufficientemente adatto in quanto compendiato da un educatore. Infine anche perché, scientificamente, ogni nesso di causalità automatico tra esposizione videoludico-“violenta” e di sua deflagrazione reale, è stato smentito da copiosa e pluridecennale evidenza scientifica.

Riassumendo sul capitolo PEGI: esso non ha mai a che fare con la difficoltà del videogame; l’età ivi espressamente apposta è quella a partire dalla quale è consigliata quell’esperienza videoludica da un punto di vista contenutistico e, soprattutto, che si debba sempre essere interrelazione e interpretazione graduata tra i descrittori (es.: sesso, violenza, etc.) e il “semaforo” compendiato dai numeri al fine di poter immaginare la tipologia di esperienza del videogiocatore. In ultimo davvero, nel non assolutizzare il valore del PEGI in quanto quandanche vi fosse un gamer interattivamente intrattenutosi con un’opera dell’età sconsigliata, non vi sarebbe nessuna correlazione automatico-degenerante dell’utente (quanto più se occasionale). Anzi, essendo pure auspicabile, per esempio, che dei bambini delle “elementari” che studiano l’Antico Egitto possano venire in contatto, mediato per esempio da un docente appositamente “skillato” sul tema, con l’esperienza dell’Assassin’s Creed Discovery Tour ambientata proprio nell’Antico Egitto, pur essendo questa classificata con PEGI 12+ (e provenendo dal gioco originale, Assassin’s Creed: Origins, persino PEGI 18+). Ma sul punto, di seguito, si tornerà (con un caso concreto).

Quanto vale l’industria dei videogiochi?

Si è parlato di videogiochi, si è discettato di come essi siano classificati ma, esattamente, quanto valgono i videogame?

Più del mercato sportivo e cinematografico messi assieme; circa una volta e mezza il valore combinato del mercato musicale e cinematografico. In altri termini, a oggi, il di suo valore è di €170 miliardi. Si pensi soltanto che nel 2008 esso valeva, record, €20 miliardi. Alla fine di questo decennio lo si stima attorno ai €340 miliardi: ovverosia il doppio rispetto a quanto sia già adesso.

Ma, allora, se non «la» definizione è possibile almeno fornire «una» definizione di videogioco?

È la parte forse più importante, ma pure la più intricata. Perché a oggi non esiste una definizione unanime di videogioco e a sentenziarlo vi è proprio una statuizione giurisdizionale. Una decisione che si osa a definire tra l’altro tra le più importanti dell’intrattenimento degli anni Venti del corrente secolo, pronunciata a conclusione del I grado del processo Epic Games vs. Apple e che sancisce come, sostanzialmente, ancora manchi una definizione consolidata e soddisfacente di videogame. E se a dirlo è persino quella stessa terra che i videogiochi ha creato, gli Stati Uniti d’America…

Si badi che questo accade a cinquant’anni dalla creazione del mercato videoludico, avvenuto con il lancio di Pong dell’Atari di Nolan Bushnell nel 1972.

Con una peculiarità, ulteriore, insolita e di un certo rilievo: perché si ha una definizione di mercato videoludico (lo stesso che si è già definito come il più ricco di tutto l’entertainment), ma il di suo nucleo, ossia la definizione di videogioco, ancora, semplicemente non c’è.

Fattispecie che anziché limitare gli studiosi permette invece una fantasia classificatorio-creativa da sbizzarrircisi. Almeno con una doppia soluzione.

La prima, più “facile” e maggiormente artistica è quella che proviene da uno dei più importanti game designer giapponesi di tutti i tempi, Kazunori Yamauchi, quando disse che «I videogiochi sono uno strumento che ci permette di entrare in contatto con altri universi»; l’altra, presuntuosamente (perché elaborata dal sottoscritto), formatasi nell’accademia (e ospitata nel manuale Gioco, attività motoria, disabilità. Per una pedagogia del movimento edito da Anicia, a opera delle Autrici Manuela Valentini e Cristina Tonini Cardinali), facendo assumere il videogioco come «un’opera che fa interagire la biosfera con l’infosfera: è l’inter-azione dell’essere umano con la realtà digitale che per via di immagini animate in mix input-output tra hardware-software fa vivere un’esperienza. L’interazione è quindi la quintessenza e il discrimen del medium videoludico».

Definizione, la suddetta, si ribadisca, non essere universale ma in grado di far emergere importanti elementi. In particolare, uno: l’interazione. Interazione ingenerante esperienza.

Volendo compiere un’esegesi della nostra definizione di videogioco, quindi: il videogame è un’opera che – attenzione: perché è questa la parola di svolta – fa interagire la biosfera (cioè gli esseri biologici e senzienti) con l’infosfera (la realtà che oggi si vive nell’onlife di floridiana memoria), ossia quale inter-azione fra e dell’essere umano con la realtà digitale o “realtà virtuale”, in cui il mix di input-output hardware-software ingenerante immagini animate e controllate dal gamer, fa vivere, un’esperienza fondata da feedback e contro-feedback.

Odiernamente, quest’interazione è per lo più mediata da un controller (esterno) che recepisce gli input del gamer e li “trasmette” alla macchina e alla sua “anima” (hardware-software quale console, smartphone (attraverso il tap a schermo) e il suo sistema operativo nonché applicazione di gioco) per restituire in tempo reale l’azione, la reazione e la contro-(re)azione dallo e sullo schermo.

Potendo evincersi quindi che l’inter-(re)azione è la colonna (im)portante del media. Il quid suo proprio rispetto tutte le altre arti e di tutte le plurime per quanto diversificate forme mediali e finanche comunicazionali, diverse, appunto, da quella interpersonale.

L’inter-(re)azione del videogioco è ciò che permette al videogame di far vivere al videogiocatore quanto accade sullo schermo, perché non è proiettato bensì da lui compiuto col controller.

Controller che da un’azione fisica (input) trascende (da un pad o pure dal semplice tap su schermo dello smartphone) nell’altro da sè (alter ego in azione). Ma che sempre più, oggi, parrebbe fondersi con il corpo stesso del gamer. O, persino e addirittura, con qualcosa che “precede” il fisico, la mente: come con le dirette connessione uomo-macchina garantita dal controllo neuronale via chip neurale.

Controller da intendersi sempre nell’accezione più ampia (il tandem mouse-tastiera per il PC; il joystick delle sale giochi; il gamepad delle console o lo schermo touch dei tablet o degli smartphone), essendo, allo stato, pressoché imprescindibile nell’esperienza d’uso. Si potrebbe dire che, ancora (a malincuore?), esso sia rimasto fin dalla fondazione dell’industria videoludica eguale a sé stesso nel suo essere così straordinariamente efficace (ma inefficiente) nel suo interfacciarsi ai mondi interattivo-virtuali.

Controller che, al massimo, odiernamente sarebbe una protesi più o meno propriamente detta (smartphone) dell’uomo 4.0 ma che, forse proprio grazie al genio di Elon Musk e della sua Neuralink, potrebbe trasformarsi in parte integrante e innestata all’umano del domani. Come dimostrato soltanto un anno fa con un’operazione chirurgica non invasiva impiantando il chip su di un primate e così rendendolo in grado di poter videogiocare a Pong con la forza, letterale, del pensiero (sì, per uno scherzo del destino, il videogame è esattamente lo stesso Pong già evocato in precedenza quale primo videogioco commerciale di massa che ha dato il via al mercato videoludico).

Strumento, quello del videogioco, che dal faceto al serio, farebbe ora intravedere le sconfinate potenzialità del binomio biologico-sintetico. Per la volontà di potenza dell’essere in quanto tale e forse non più soltanto umano. Ma dell’essere appartenente al futuro.

Next big thing?

Se il chip neurale è però ancora fantascienza nella percezione collettiva, altrettanto (nei fatti) ben più professata, parrebbe essere la “prossima grande cosa” coinvolgente il mondo e chiamata Metaverso.

Metaverso è quella parola che sino due anni fa proferivano giusto gli impallinati di fantascienza o qualche “astruso” amministratore delegato (à la Tim Sweeney), non a caso di società videoludiche “private” (come appunto Epic Games, quindi senza il “timore” delle “ire isteriche” degli azionisti), privi di paure sulla loro nomea percepita di nerd “disadattati”. Ma che, da pochi mesi a questa parte e con la “disperazione” di chi deve svoltare (pur permanendo un colossale game-changer), diventa “tormentone”: perché annunciante l’emancipazione da un sè stesso in crisi e quindi in fulmineo cambio di nome, dell’intero gruppo, di Facebook in Meta («meta» proprio come metà e “tributo” del Metaverso). Orbene, da allora, tutti, ma proprio tutti, si sono fatti promotori o perlomeno pronunciatori (profeti?) del nuovo universo, il Metaverso.

Il Metaverso è, a oggi, fantascienza così come fino ieri era appunto confinato nei romanzi “fantasy” 4.0 (un mondo sistematicamente “indistinto” tra reale-virtuale e viceversa, persistentemente connesso e interoperabile) ma che, oggi, non esiste.

Va da sé che se il videogioco a distanza di mezzo secolo dalla sua comparsa mainstream non ha ancora una definizione univoca, tantomeno è ora per questo presunto Metaverso. Per cui si potrebbe al massimo parlare, di una dimensione altra dall’attuale, più coesa e interscambiabile col virtuale, senza soluzione di continuità e totalmente integrante tra il “nostro” mondo (quello offline e della biosfera) con quello dell’infosfera, del virtuale, del digitale e del sintetico. A cui perlomeno interinalmente necessiterebbe un ponte. Il videogame, per l’appunto. Ciò proprio per la sua predisposizione “naturale” all’interazione input-ouput tra “il di qua” e “il di là”.

Il videogame è arte?

Si è constatato che il videogioco sia un medium; sia un mezzo comunicazionale e sia addirittura il più redditizio mercato dell’intrattenimento, ma il videogioco è (anche) arte?

Di certo il videogame è un prodotto; ma anche un servizio. Ancora non vi è concordanza neppure tra gli addetti ai lavori nel considerarlo, o meno, arte; nondimeno chi scrive è pacifico nel poterlo annoverare (anche) come cosiddetta decima arte (e incidentalmente si sappia che alcune opere videoludiche sono da tempo e persistentemente esibite all’interno di plurimi musei mondiali, tra cui il prestigioso Museum of Modern Art (MoMA) di New York).

I “cortocircuiti” dovuti all’interazione del videogame

Una specifica distinzione marcatamente videoludica, proprio dovuta alla sua interazione, è la non linearità tra causa-effetto dei “risultati” restituiti all’esito di un “ciclo” videoludico.

Con i titoli di coda di un film, tendenzialmente, si può ritenere conclusa la propria esperienza. E se un lungometraggio ha avuto più incassi, grossomodo coincide anche con il film più visto nelle sale. Ma questo sillogismo non può affatto tradursi sic et simpliciter per il medium videoludico.

Infatti, allo stato, il videogioco più venduto di tutti i tempi è Minecraft, ma lo stesso non è il titolo più redditizio della storia, scettro che infatti appartiene a Grand Theft Auto: V ma che a sua volta non è il videogame più giocato dell’ultimo lustro, perché il vertice di engagement spetta a Fortinte, pur non avendo mai venduto una singola copia.

Come si scioglie o, perlomeno, come si spiega quest’apparente nodo gordiano?

A causa e a dimostrazione dell’esperienza inter-attiva (del videogame). Quando si vede un film, lo spettatore paga l’accesso (al catalogo Netflix o al cinema) e lì si principia per poi compiersi la personale esperienza. La transazione rappresenta l’unica occasione di spesa e garantisce l’ingresso ai “cancelli”, virtuali o fisici, da inizio a fine dell’opera. Mentre con un media interattivo come il videogame, l’esperienza del player può essere come può non essere condizionata dal pagamento di quel “biglietto”. Poi, anche perché l’interazione può ripetersi all’interno della stessa avventura videogiocata, persino ben oltre i titoli di coda (cui di solito nell’immaginario si fa concludere un’esperienza intrattenente).

L’accesso a pagamento potrebbe essere infatti solo il primo passo di un rapporto di spesa (per definizione almeno bilaterale: il videogiocatore e il videogame in virtù dei feedback e contro-feedback), in continuo e multiforme divenire. Ed è così che Fortnite, come molta altra parte dei fenomeni videoludici free-to-play degli ultimi anni, pur non avendo mai venduto una singola copia di quel videogame (perché il suo accesso è gratuito), ha garantito miliardi di incassi; oppure vedere come il videogioco più venduto di sempre (Minecraft) abbia macinato un centinaio di milioni in più di copie rispetto al secondo classificato, Grand Theft Auto V: ma che quest’ultimo, essendo spesso in sell out a prezzo quasi pieno, abbia fatturato molto, ma molto di più.

Questa triplice, dimostra anche un’interessante, differente, categorizzazione di successi: dimostrando come vi siano più ricette per i conseguimenti commerciali per il medium del videogame ma che, come spesso accade, la chiave di (s)volta sia nel coniugare “questo «e» quello” (anziché “questo «o» quello) e, nella fattispecie: vendendo “come si è sempre fatto” (tradizione) la singola copia del videogame (a prezzo pieno, con scontistiche parsimoniosamente distribuite, pure in un media dalla forte caducità tecnologico-commerciale) e nuovi meccanismi (innovazione), come le microtransazioni online (sia contenutistico-sostanziali, come con nuove missioni e mappe, sia del tutto accessorie, come con quelle di mera cosmesi degli avatar) di Grand Theft Auto V e Grand Theft Auto Online.

Interazione e transazioni che, comunque, lasciano il fianco scoperto anche a profonde e gravose critiche: perché le micro-transazioni in particolare dei freet-to-play ad alto tasso di coinvolgimento, possono ingenerare meccanismi psicologici di relativismo della spesa che, però, a consuntivo, addivengono a dei veri e propri salassi finanziari per le carte di credito dei gamer. Specie se affidati, questi dispositivi da gaming cui è associata una carta di credito, in mano a minori (come sovente accade per i pargoli che utilizzano lo smartphone dei genitori). Senza considerare il meccanismo distorsivo e potenzialmente anche devastante innescato dalle cosiddette loot box, pressoché paragonabili al gioco d’azzardo.

Cos’è quella perla chiamata Minecraft: Education Edition

Ma, in termini di età consigliata e a grandi linee per contenuti, che differenza c’è tra il videogioco propriamente detto di Minecraft e della sua versione di Minecraft: Education Edition?

Il primo è il videogioco “puro”, vero e proprio e con PEGI 7+, quello che si categorizza per essere il videogame più venduto della storia ed essendo uscito nel 2011 (anche se Microsoft usa come riferimento anagrafico la di sua prima apparizione in assoluto, nel 2009): giocato effettivamente da circa 150 milioni di utenti al mese (rispetto le 250 milioni di copie effettivamente vendute), esso permette totale libertà di de-costruzione in un mondo a cubetti decuplicando la potenza immaginifica, nella real life, delle Lego; Minecraft: Education Edition è invece una pesante customizzazione, a se stante, di quel videogame ma nell’ottica del focalizzato insegnamento, a 360°. Minecraft: Education Edition è quindi una versione totalmente educazionale cui poter insegnare tra le più disparate materie: coding, storia, geografia, inglese, geometria, matematica, chimica, scienze e via ancora a elencare. Giocato-per-imparare mensilmente da circa 40 milioni di scolari, in migliaia di istituti di tutto il mondo.

Quel famigerato Grand Theft Auto V

Grand Theft Auto V è la gallina dalle uova d’oro degli sviluppatori di Rockstar Games, originariamente pubblicato da Take-Two Interactive il 17 settembre 2013 e da allora quasi immancabilmente saldamente issato nella TOP 10 dei videogiochi più venduti di ogni anno nel mondo. È il singolo capitolo di una proprietà intellettuale più redditizio mai apparso nell’intrattenimento tutto. È caratterizzato da un PEGI 18+, essendo adatto a un pubblico adulto, ci si spinge a dire, anche dotato di un retroterra intellettuale e culturale di un certo livello (almeno per coglierne tutte le sfaccettature), tant’è vero che è spesso definitivo dalla critica specializzata come un videogioco (anche) di riflessione nonché, nella sua storyline boccaccesca e violenta, di denuncia del cosiddetto spasmodico individualismo capitalista della società post-contemporanea statunitense. Volendo in ciò anche citare una circostanza personale, a distanza di quasi dieci anni dall’ultimazione, infatti, il sottoscritto ricorda nitidamente la sensazione di disgusto e di rimorso provata in particolare in una missione in cui uno dei tre protagonisti del gameplay, Trevor Philips, doveva compiere (per mano del player stesso) indicibili torture, tra cui il waterboarding, nei confronti di un malcapitato. Ciò essendo un chiaro richiamo alle cosiddette tecniche di interrogatorio potenziato condotte a Guantanamo da una parte degli apparati USA verso allora ritenuti presunti terroristi islamici ex post 11 settembre 2001.

Grand Theft Auto V, quasi unicum nella realtà del videogame (in tal senso soltanto The Elder Scrolls V: Skyrim è riuscito in qualcosa del genere, ma con meno eco commerciale), è sbarcato da autentico protagonista su tre distinte ere di console domestiche (la settima, l’ottava e la nona generazione, esemplificativamente e usando come archetipo quelle di Sony, su: PlayStation 3, PlayStation 4 e PlayStation 5): occupando sempre da protagonista il proscenio.

Cos’è quel “fenomeno” denominato Fortnite

Infine, abbiamo Fortnite, PEGI 12+, il “fenomeno” del “momento” (o, meglio, di un “momento” che dura da oltre un quinquennio): salito alla ribalta del mainstream planetario anche perché meritoriamente lodato da innumerevoli osservatori come quel “mezzo” che ha permesso il mantenimento della socialità (ancorché virtuale) tra i giovanissimi durante il primo lockdown mondiale (2020) in consecuzione della deflagrazione pandemica di SARS-CoV-2.

In questo caso, il successo sommo della software house Epic Games è dato dal fatto di aver reso totalmente gratuito un videogioco, creando così una massa di utenti attiva di centinaia di milioni di player, per poi facoltativamente fornire loro dietro pagamento, oggetti di mera cosmesi: puntando tutto (e con grande successo in questo caso) sul senso di comunità ingenerantesi all’interno dell’universo di gioco e sulla vanità dell’essere umano, un “sentimento”, quello del vanesio che dal mondo fisico trascende in quello virtuale.

Questo meccanismo di micro-transazioni ha fatto con il tempo anche inarcare il sopracciglio a differenti personalità, non soltanto genitoriali. Quanto è etico, infatti, “incentivare” siffatti meccanismi di spesa per i giovanissimi? Dipende.

Dipende non per dare un colpo al cerchio e uno alla botte bensì perché la risposta assoluta non esiste («il» bene o «il» male). Perché esso è effettivamente un gioco integralmente gratuito e che, appunto, permette non già di essere videogiocato pagando ma attraverso eventuali acquisti di oggetti senza vantaggi nel primeggiare all’esito della partita in multiplayer ma fornendo, per esempio, vestiario persino griffato da blasonati brand del fashion o che vendono oggetti su licenza di altre proprietà intellettuali (entrando qui in gioco il multiverso: e non il Metaverso).

Ma com’è possibile trasformare un prodotto soltanto eventualmente oneroso in una vera e propria macchina di soldi? Grazie al già evocato senso clanico e di appartenenza di questi conglomerati sociali che da locali (il paesello di provincia; il bar di periferia o le élite di una certa borghesia del centro città) diventano globali proprio grazie al combinato disposto del virtuale, dell’Internet, del digitale e del videogame.

Per fenomeni sociali che non solo trasmutano dall’offline all’online ma che talora prevedono anche dei meccanismi di ritorno (persino virulento), come quando l’entourage di Donald J. Trump passò dal dileggio dei “nullafacenti gamer” al coltivare la fucina della di sua comunità online, specie nei forum (infatti, la community degli appassionati videogiocatori è una delle più attive di tutta la Rete – e assieme a quella del porno, fu tra le primissime a popolare il web), al fine di veicolare la propaganda reazionaria, complottista, attivista e “meme-centrica”, per i propri fini elettorali. Contribuendo, questa geek culture, in loci sullo stile di 4chan e Reddit, all’humus socio-ambientale derivante l’elezione del quarantacinquesimo presidente della Repubblica federale statunitense, Donald J. Trump per l’appunto.

Comunque, e al focus del discorso sulle microtransazioni: esse sono uno strumento (di business). In sé non hanno caratura morale sfavorevole o favorevole. Fintantoché permanga nell’ambito della legalità (prima) e poi dell’accettabilità etica poi. Nessuno, dall’alto ed endogeno, esplicitamente costringe il videogiocatore a “shoppare” su Fortnite (come potrebbe essere, invece, per il fenomeno di FIFA Ultimate Team). Ma è altrettanto innegabile non percepire un senso di disagio qualora calassimo il contesto dal teorico al concreto per videogame dal PEGI 3+, 7+, 12+ e 16+.

L’obiezione che l’industria muove a questa tesi è che ormai (anche) nel videogame si gioca la socialità e l’esperienzialismo della società post-contemporanea. E qualora in questa dimensione intermediata si disponesse addirittura di una carta di credito, evidentemente genitoriale, la responsabilità ricadrebbe sugli esercenti la potestà. Perché ormai vi sarebbero innumerevoli meccanismi di controllo genitorial-digitale che possono limitare sistematici sconvenienti di spese pazze. Eppure, quest’antitesi subodora da facile scaricabarile liberista ed esclusivamente “colpevolista” verso i genitori. Soprattutto, in un tempo in cui essere padre o madre con pienezza, risulta certamente più dinamicamente arduo di un tempo esclusivamente analogico.

La nascita del videogame

Il videogioco venne per la prima volta creato in laboratori inaccessibili e militarizzati degli Stati Uniti d’America, in piena guerra fredda, negli anni Quaranta-Cinquanta del XX secolo (“buffo” è pensare che la strumentazione elettronica, pesantemente sorvegliata e dal costo di milioni di dollari, fosse impiegata da prestigiosi scienziati che ne dovevano fare strumenti di morte o di difesa, anche per attività del tutto divertenti). Già da questa piccola parentesi di Storia e di storia del videogioco si coglie quanto l’essere umano sia intrinsecamente un “agglomerato” complesso, ricco di sfaccettature e contraddizioni: permanentemente coesistente tra dovere e piacere, persino in una parentesi permeata nel pericolo ferale di un conflitto nucleare.

Homo sapiens e(’) Homo ludens.

Perché se è vero, come è vero, che la preistoria del videogioco è in quel contesto plastificata, le prime applicazioni tarderanno ancora qualche decennio, per poi esplodere nel mainstream a partire dai Settanta del 1900 (grazie la già menzionata Atari, con Pong). Da allora non essendo però stata un’ascesa continua: cioè dapprima crescendo sotto steroidi per un decennio circa, per poi capitombolare sin quasi a sparire col crack degli inizi degli anni Ottanta (perlomeno in Occidente). Dovendo quindi passare anni a maggese per poi ritornare dall’abisso, da allora senza mai più fermarsi (ma anzi crescendo a doppia, tripla cifra): era il 1985 e il Nintendo Entertainment System (NES) fece il suo ingresso sugli scaffali americani. Cambiando per sempre il (video)game.

Le origini della “credenza” per cui i videogiochi siano solo per bambini

Ma come ha fatto un prodotto nato nella pesantezza dei laboratori scientifico-militari a essere socialmente percepito esclusivamente per bambini?

L’inizio dei videogiochi da un punto di vista di consapevolezza sociale risale con l’avvento commerciale degli stessi, cioè a dire, appunto, con gli anni Settanta del XX secolo. Allora il videogioco, nello storytelling di percezione derivato dal marketing, veniva rigorosamente associato a dispositivi tecnologicamente avanzatissimi e quindi come veri e propri oggetti (hardware) di elettronica sofisticata, con un target trasversale e lontano dall’idea di “giochino (ancorché elettronico)” esclusivamente per bambini. È infatti soltanto a partire dall’incursione risorgiva della giapponese Nintendo, dopo gli anni della “grande depressione” del comparto che, in Occidente, per affrancarsi da una percezione di quasi truffa delle opere videoludico-elettroniche da parte dei consumatori (dovuta al fatto che gli speculatori e gli squali dall’incasso facile pubblicavano cloni videoludici anziché esperienze inedite, (ri)vendendo quindi gli stessi videogiochi, tutti eguali a sé stessi, con il solo packaging artisticamente rinnovato per “rifilarli” a prezzo pieno agli ignari neovideogiocatori-consumatori) che, si decise e si attuò, un cambio di rotta copernicano.

Perché anziché (ri)conquistare quell’identico target con una narrazione diversa (ritenuta una strategia evidentemente fallimentare in partenza), Nintendo restrinse l’immaginario, l’obiettivo e lo storytelling che si faceva del videogame, espressamente ora proiettandolo come un vero e proprio giocattolo digitale. E lo fece non soltanto sviluppando e producendo ottimi videogiochi e collaterali macchine su cui farli girare, ma anche “semplicemente” cambiando l’esposizione (e quindi l’immaginario) che del videogioco se ne faceva, letteralmente posizionandolo all’interno dei centri commerciali nel reparto giocattoli (anziché quello della tecnologia di consumo, cui prima erano esibiti). Il successo di questa ri-calibrazione diede da una parte la scossa di defibrillatore al mercato videoludico ma, collateralmente, dall’altro (proprio per la sua inusitata riuscita!) plasmò il binomio videogame-bambini ancora oggi massicciamente invalso a livello (non soltanto) popolare. Solo con lo spirare dello scorso millennio, con l’entrata a gamba tesa di PlayStation, il target comunicazionale degli operatori ascese da quello dei piccoli ai ragazzi per poi includere gli adulti.

È quindi proprio da questa eterogenesi dei fini se la forma mentis della cultura di massa è stata fortemente influenzata, fino quasi a essere “plagiata” da un retaggio ancora imperante!

Parlando del potere del marketing e coniugandosi al “Big Bang” 4.0: che il Metaverso e il suo “ponte” costituito dal videogame siano, appunto, una mera profezia “markettara” autoavverante?

Potrebbe darsi. C’è però una differenza rispetto ad allora: là il videogame era in crisi, oggi il videogioco è al suo apogeo. Quindi se di uso strumentale si trattasse, la funzione che nel marketing se ne fa del videogame, lo vede passare da oggetto a soggetto.

La Nintendo dell’epoca fece un’operazione comunicativamente di maquillage, di narrazione, per rilanciare un settore industriale. Il Metaverso “basato” sul videogame, quandanche fosse un’operazione comunicativa (autoavverante), avrebbe un impatto infinitamente maggiore perché il teorico di suo contributo progettuale finale, inciderebbe non solo su una industria ma sulle vite, vissute, dall’essere umano. Volendo fare un paragone, similmente, fu l’avvento di Internet.

Ma anche con questo paragone emergono importanti discrepanze: la Rete nasce, parimenti ai videogame, dai laboratori militari nordamericani e soltanto poi rendendosi “pop” e civile. Essendo però, l’Internet, anche gratuito e di pubblico dominio per mezzo del World Wide Web: con un modus operandi costitutivo, col senno del poi, più miracolistico che anarchico-casuale. Il Metaverso, parrebbe invece, fin da ora e a grandi linee: volitivamente, esplicitamente e teleologicamente fortemente creato, a tavolino, dall’alto al basso del comparto civile e, soprattutto, da immense multinazionali tecnologiche col primo e più importante (bari)centro vertente nel e sul business.

Una creazione, geneticamente e ideologicamente agli antipodi rispetto quella dell’epoca di Internet.

Le accomunerebbe, invece, la grandissima incertezza effettiva per la riuscita: dovuta al necessario progresso dei limiti tecnologico-infrastrutturali necessari per erigere il Metaverso (e all’epoca la Rete). Ma subito scavalcato quest’ostacolo, risalterebbe un’altra discrepanza: Internet idealmente avrebbe dovuto democratizzare il mondo nella logica ideale dell’“uno vale uno”; il Metaverso, invece, che purpose avrebbe?

A oggi un proto-metaverso (senza però, ancora, alcun riconoscimento di sorta, come risulta chiaramente dalla sentenza Epic Games vs. Apple) sarebbe quello di Fortnite.

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