intelligenza artificiale

Il mio psicologo è una chatbot: vantaggi e rischi dell’IA per la terapia

Le recenti tecnologie nel campo della salute psicologica facilitano l’accesso al trattamento; tuttavia, il tentativo a volte sembra quello di sostituire l’interazione umana con surrogati virtuali maggiormente rassicuranti. Accanto ai vantaggi, l’IA applicata alla terapia presenta quindi anche dei limiti

Pubblicato il 09 Dic 2021

Fausto Petrini

Psicologo clinico, formatore, ricercatore e progettista di interventi

Programma nazionale intelligenza artificiale

L’uso della realtà virtuale e dell’intelligenza artificiale per supportare il trattamento di alcuni disturbi psicologici è un’idea portata avanti fin dagli anni ’80 con le prime rudimentali sperimentazioni. All’epoca, il contributo dell’informatica alla psicologia si limitava soprattutto a supportare il terapeuta nella ricerca di sintomi e nella conseguente emissione di una diagnosi: il software forniva una traccia delle domande e delle aree da analizzare per orientarsi nelle tassonomie dei manuali diagnostici di tipo categoriale, rispettando un albero decisionale preordinato. Si tratta quindi di fatto di un diagramma di flusso a supporto della memoria e della perizia del diagnosta, una soluzione che ha generato strumenti utilissimi e tutt’oggi molto sfruttati nella pratica clinica.

Il contributo degli psicologi e dei neuroscienziati allo sviluppo della cibernetica e dell’intelligenza artificiale ha però posto già da qualche decennio le basi per la ricerca di nuove e più complesse applicazioni. Già negli anni ‘70 si testavano i primi programmi (chatbot) in grado di rispondere ad un interlocutore che, più o meno consapevole di trovarsi davanti ad un’interfaccia software automatizzata, riceveva ascolto e suggerimenti, cercando di simulare la comunicazione tra due esseri umani. Da allora la tecnologia ha fatto molti passi in avanti, ma l’idea di poter delegare una parte della competenza del terapeuta al software sembra rimasta al centro degli sforzi in questo settore.

Intelligenza artificiale e psicologia, un binomio possibile: il punto sulle ricerche

L’uso della chatbot come primo intervento psicologico: vantaggi e perplessità.

Mentre nel caso dei software di supporto alla diagnosi il proposito è quello di rendere più accurato e completo il percorso di individuazione e poi interpretazione dei sintomi, le chatbot di supporto psicologico hanno l’obiettivo ben più ambizioso di simulare una delle competenze umane più profonde e caratterizzanti, l’empatia. A tal proposito, uno studio dell’Università di Palo Alto di recente produzione intendeva testare usabilità e accettabilità di una chatbot di nome Tess, la quale effettuava un primo “intervento psicologico” a favore di studenti con fobia sociale e depressione, in particolare di lingua spagnola, che accedono ad una piattaforma online. Secondo gli autori, il livello di gradimento ed il numero di contatti liberi con la chatbot mostrerebbero un buon feedback da parte di chi ha utilizzato il servizio, mentre la riduzione dei sintomi rispetto ad un campione di controllo dimostrerebbe l’efficacia clinica dello strumento. Gli autori, correttamente, concludono che uno strumento di questo tipo possa contribuire a ridurre il ritardo con cui le persone con una fragilità richiedono aiuto ed entrano in trattamento.

In un altro studio si è testato il gradimento verso un’interfaccia virtuale analoga (SimSensei), ma dotata addirittura di sensori e hardware in grado di rilevare la mimica ed i gesti dell’interlocutore. L’obiettivo era ancora quello di aumentare la verosimiglianza con il dialogo umano, integrando in questo caso anche la componente dei feedback derivanti dal canale non verbale. Il vantaggio messo in evidenza dai ricercatori è il senso di privacy e la ridotta vergogna da parte degli interlocutori nel comunicare sintomi e aspetti personali della loro psicopatologia.

Riassumendo quindi i vantaggi: l’uso di una chatbot può rappresentare un canale di accesso facilitato per i più giovani, per persone con un certo tipo di disagio (fobia sociale, ritiro sociale, depressione), oppure facenti parte di una minoranza etnica per la quale non sia disponibile immediatamente un supporto nella lingua madre; il canale digitale, pur nella sua impersonalità, può essere avvertito come riservato e anonimo, le persone possono sentirsi a proprio agio perché meno giudicate; lo strumento è certamente economico e facilmente raggiungibile da molti utenti, anche contemporaneamente, in qualsiasi orario.

Le perplessità: è vero che questi strumenti possano favorire una riduzione del ritardo temporale tra comparsa dei primi sintomi e richiesta di supporto da parte della persona, ciò a patto, però, di considerare la semplice ricerca di informazioni e di dialogo come l’inizio di un percorso di cura vero e proprio. La terapia psicologica ha in sé svariate componenti, tra queste quella che potremmo definire “psicoeducazionale”: dare spiegazioni, dare un nome alle esperienze soggettive, insegnare strategie di problem solving, ecc. A questo compito l’interfaccia software può probabilmente rispondere con facilità; tuttavia, ciò non esaurisce la parte più complessa dell’intervento terapeutico: fornire empatia, attribuzione di senso e significato all’esperienza soggettiva, collegare in modo ragionato gli elementi del passato con i vissuti attuali (ciò che semplificando potremmo chiamare interpretazione). Si tratta effettivamente di aspetti centrali nella terapia, elementi che si sostanziano di un reciproco gioco di posizionamento tra terapeuta e paziente, tra due menti umane, appunto, tale da rendere inverosimile, a parere di chi scrive, l’idea che questo ruolo possa essere svolto da un’intelligenza artificiale, almeno nel prossimo futuro. Dare una lettura dinamica delle emozioni, dei complessi psicologici che stanno alla base di un disturbo o di un sintomo, fare una lettura dei tratti fondamentali della personalità e di come questa si sia strutturata, è un obiettivo molto alto e che implica una co-costruzione soggettiva con il paziente. Gli strumenti presentati, più verosimilmente, possono rappresentare tasselli importanti di un percorso guidato dalla sensibilità umana. Vediamo un altro esempio.

L’uso della realtà virtuale per la sperimentazione di situazioni ad alto stress sociale

Con lo sviluppo crescente della realtà virtuale sta diventando sempre più concreta la possibilità di sperimentare situazioni e contesti altrimenti inaccessibili per persone con determinati sintomi. Agorafobia, ansia sociale, difficoltà relazionali, vergogna e panico, sono tutte manifestazioni altamente influenzate dal contesto, comportando reazioni di evitamento che a lungo andare complicano ulteriormente il quadro, limitando le possibilità di vita della persona. Proprio con l’idea di sfruttare la realtà virtuale a fini psicoterapeutici è nata la startup Rey, che ha l’obiettivo di fornire percorsi di training e “campi di prova” virtuali per aiutare le persone ad affrontare le proprie fobie in situazioni specifiche: in un negozio, sui mezzi pubblici, durante un’interrogazione scolastica, ecc. In un articolo di presentazione dedicato alla startup sono citate evidenze di efficacia e si inserisce la soluzione tra gli esempi di quanto recentemente presentato da Zuckerberg come prossima evoluzione di internet: il metaverso, ambizioso progetto sociale di integrazione tra reale e virtuale.

Lo scopo dell’attività svolta da Rey è esplicitamente terapeutico e i fondatori dell’azienda, nel loro sito, esplicitano i vantaggi della soluzione proposta: minori costi di trattamento, vantaggi clinici scientificamente documentati, contatto con il coach on demand “via chat”, “il trattamento avviene stando a casa, secondo la propria personale pianificazione”.

Un vantaggio è senz’altro quello di poter inserire una tappa virtuale intermedia nel percorso di riadattamento del paziente alle situazioni stressanti, tuttavia i possibili effetti contro-paradossali dovrebbero essere tenuti in considerazione: se è vero infatti che uno dei limiti più grossi per l’accesso alle cure psicologiche sia proprio la difficoltà di vincere l’inerzia iniziale, la paura dei pregiudizi, del contatto con un estraneo cui si presume di dover aprire la propria vita privata, è vero anche che per lo psicologo questo passaggio all’azione è anche il primo segno di un sufficiente livello di motivazione del paziente, senza la quale nessun trattamento è altrimenti possibile. In altre parole, lo strumento è utile nella misura in cui aiuta il paziente ad essere consapevole, a rendere l’accesso alla terapia più graduale, ma può diventare controproducente là dove fornisca un alibi, un’illusione di adeguatezza, l’idea di essere effettivamente in pieno trattamento nonostante tutto il percorso si svolga all’interno delle mura domestiche, addirittura, come illustrato dalla compagnia che produce il software, senza bisogno di incontrare un terapeuta che guidi il percorso.

Anche in questo caso, quindi, la possibilità di rendere più graduale l’avvicinamento al trattamento è un vantaggio per molti, tuttavia si tratta di un tassello nella più ampia pianificazione che non può essere standardizzata.

La costruzione di una realtà parallela in cui siamo tutti “guariti”

Le innovazioni fin qui presentate sembrano puntare alla realizzazione di un nuovo standard nel rapporto tra uomo e intelligenza artificiale, che parte dall’ambito ristretto della psicoterapia per abbracciare una più ampia visione della realtà in cui viviamo. Sembra di poter rintracciare nei casi presentati il tentativo di rendere l’artefatto digitale un’interfaccia sempre più estesa e multifunzionale tra la persona ed il suo contesto, un principio che guida anche l’avveniristico progetto del metaverso: la costruzione di un mondo virtuale quanto più fedele alla realtà, sempre più sganciato dall’originale esigenza, più evidente nelle esperienze di VR dei videogiochi, di creare mondi immaginari e fantasiosi. Si promette invece di trasportare l’utente in una vera e propria copia del mondo reale, in cui i rischi e le difficoltà del contatto umano sono sistematicamente esclusi, in cui tutti potranno vivere bene la loro realtà, semplicemente perché avranno il potere di evitarne le sfide più difficoltose. Zuckerberg ci presenta avatar virtuali, fedeli nell’aspetto agli originali, che frequentano feste, concerti, riunioni, negozi, ecc. mentre il corpo fisico rimane tra le mura di casa, forse più comodo, ma isolato in una dimensione esclusivamente “mentale” dell’incontro con l’altro. Una visione solitaria dell’essere umano, le cui emozioni, provate e trasmesse anche e soprattutto attraverso la corporeità, rischiano di rimanere coartate. Se abbiamo ormai identificato l’hikkikomori come un effetto nefasto di un approccio alla realtà eccessivamente mediato dagli strumenti digitali, c’è da chiedersi quali strumenti di prevenzione possa fornire la proposta del metaverso per garantire la salute psicologica di molte persone.

Conclusioni

Le innovazioni più recenti nel campo della salute psicologica si avvalgono di tecnologie sempre più moderne e complesse per cercare di facilitare l’accesso al trattamento; tuttavia, il tentativo di alcune iniziative sembra quello di sostituire almeno in parte l’interazione umana con dei surrogati virtuali maggiormente rassicuranti. Nella speranza di ottenere un avvicinamento alla terapia si corre però il rischio di assecondare aspetti del disturbo, colludendo con la tendenza all’isolamento del paziente. Sottostante a questo processo sembra potersi rintracciare l’implicita e diffusa speranza che il ricorso ad un artefatto tecnologico possa garantire la standardizzazione, la ripetibilità dell’esperienza, la riduzione dell’imprevisto, garantendo infine l’eliminazione dell’errore umano, presente evidentemente anche nella psicoterapia. Questo obiettivo, per quanto desiderabile, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, anche con il ricorso all’intelligenza artificiale.

Al livello attuale, gli studi difficilmente potranno mettere a paragone i risultati derivanti dall’impiego di questi strumenti con quanto raggiungibile con i metodi tradizionali. I trial clinici sono già molto complicati da effettuare, in un campo in cui, dato qualsiasi strumento, tecnica o protocollo di intervento standardizzato, il peso della personalizzazione, del fattore umano e del modo in cui la terapia viene interpretata dai due attori in campo rende spesso i risultati difficili da comparare oggettivamente. Semplificando, potremmo dire che l’efficacia di ogni strumento non risiede in esso, ma in chi lo usa, e soprattutto in come lo fa.

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