Città vuote; scuole chiuse; persone bloccate in casa ma molti, troppi irresponsabili comunque in giro; borse e mercati finanziari che erano da chiudere subito e che invece sono ancora aperti e liberi di aggiungere danni a danni. Ci sono poi volute 18 ore di trattativa sindacale per convincere le imprese a prendere le più elementari misure a tutela della salute dei ‘loro’ dipendenti, ma settimane per arrivare infine alla chiusura delle imprese non strategiche.
E vi è stato anche il grottesco spudorato di una multinazionale che ha invitato i suoi dipendenti a un flash mob di solidarietà dando le ‘istruzioni’ per l’evento, ovvero: come fare marketing sfruttando anche la pandemia, analogamente ad alcune forze politiche che fanno marketing elettorale sfruttando Covid-19. Ma soprattutto – last but non least – l’Unione europea ha deciso di ‘sospendere’ (ma non di ‘cancellare’, come invece sarebbe necessario – si veda l’appello degli economisti su micromega.net), il Patto di Stabilità e i suoi vincoli irrazionali e capestro, attivando la ‘clausola di salvaguardia’ per consentire ai Governi di “pompare denaro finché serve”.
Ma oltre a questo, ‘a causa’ della pandemia, ‘forse’ recupereremo dal basso i virtuosi concetti di solidarietà e di socialità e il ‘prenderci cura’ degli altri che neoliberalismi, nuove tecnologie e populismi/bullismi politici ci avevano invece fatto dimenticare. ‘Forse’ capiremo che tutte le politiche neoliberali di questi ultimi trent’anni erano sbagliate, ideologiche e antisociali – e ‘forse’ correggeremo l’errore.
‘Forse’ re-impareremo a vivere più lentamente, assaporando la vita senza dover subire (alienandoci da noi stessi, dalla vita, dalla bellezza), i ‘tempi ciclo’ dettati e imposti dal metronomo sempre più accelerato del tecno-capitalismo – e se il tecno-capitalismo non si ferma mai, non smette mai di farci lavorare, non conosce limiti né riposo né ammette un tempo ‘davvero libero’, ebbene: ‘diciamogli di smettere’. E ‘forse’ la rete diventerà davvero sociale e democratica e non più social/capitalistica.
Forse – soprattutto – e ‘usando’ ciò che ha scritto magistralmente Silvia Avallone sul ‘Corriere della sera’ rivolgendosi soprattutto ai giovani, questa è l’occasione perfetta per “imparare a disobbedire a quella vita in cui era obbligatorio sembrare felici e farlo vedere, in cui vigeva lo strapotere del visibile, l’assoluto della competizione. In cui dovevamo fare sempre meglio e ottenere sempre di più. Cosa ce ne facciamo adesso di tutta quella montagna di apparenza, a cosa ci è servito quell’egocentrismo esagerato? Prendiamone atto: l’invisibile è molto più potente. Ciò che proviamo non si vede. Ciò che siamo non si vede. I desideri, i segreti, i pensieri, l’anima, non si vedono”.
‘Disobbedire’: cioè ribellarsi ai modelli di vita dettati e imposti dal sistema (noi diciamo: ‘ingegnerizzati’, perché a questo servono l’organizzazione industriale vecchia e nuova del lavoro, il marketing, le retoriche sulla rete, l’industria culturale e dello spettacolo) e fatti appunto di edonismo, competizione, ego(t)ismo, consumismo, social e community, narcisismo, irresponsabilità, assenza di lungimiranza e assenza soprattutto di conoscenza/sapere e quindi di ‘pensiero profondo’ e fatto anche o soprattutto di etica/moralità e di responsabilità.
Sì perché, inseguendo e insegnando solo le ‘hard’ e ‘soft skills’ richieste dall’Industria 4.0 e dalla cosiddetta IA (cioè dal tecno-capitalismo) abbiamo perduto le ‘deep skills’ o meglio: la conoscenza (anche il saper stare con gli altri, solidalmente, è conoscenza, questa volta sociale), la moralità, la responsabilità che sono meccanismi tutti diversi dalla mera ‘competenza a fare e solo a fare-produrre’ – e insieme avevamo perduto anche la capacità di ‘essere’ e quindi di poter ‘restare umani’.
L’irrazionalità degli individui e delle folle
Gli impatti del Covid-19 non sono (stati) solo sanitari e sono diversi e in parte contraddittori. Proviamo a segnalarne alcuni altri, oltre a quelli ricordati all’inizio: questa pandemia ha messo in luce di nuovo la debolezza degli stati-nazione (e manca un’Europa Unita anche contro il Covid-19) ed ha evidenziato la nostra incapacità di pensare e di agire globalmente e quindi di governare globalmente i processi globali (da almeno tre decenni ci dicono che ‘tanto basta il mercato che si autoregola…’); allo stesso tempo ha però messo in evidenza che esiste invece una ‘polis’ e una ‘società umana’ di fatto globale e unica, anche se a dimostrarlo non c’è la politica, non c’è il nostro senso di responsabilità e la nostra consapevolezza, ma un virus e allora forse sarà un virus a sconfiggere i sovranismi/populismi/nazionalismi/razzismi imperanti fino a ieri – ma paradossalmente potrebbe accadere anche il contrario e lo conferma anche Roberto Esposito, filosofo (su ‘Huffpost’): “sebbene io pensi che il virus si possa sconfiggere solo con una più forte collaborazione tra tutti gli stati del mondo, sono convinto che – quando tutto questo sarà finito – i sovranisti riprenderanno con ancora maggior vigore il loro discorso sulla chiusura delle frontiere. Diranno: ‘Vedete? Ve lo avevamo detto che il mondo aperto rischia di ammazzarci’. E troveranno molte persone disponibili a prenderli in considerazione”.
Le epidemie/pandemie – lo sappiamo – sono parte della storia umana, anche se hanno aumentato la loro frequenza negli ultimi decenni. Più interessante è invece capire come siamo arrivati – in termini di psicologia sociale – a ‘questa’ pandemia: simile a quelle del passato per i modi – ma non per la velocità (e già questa è una notevolissima differenza) – della sua diffusione, ma anche molto diversa. Perché la nostra reazione a ‘questa’ pandemia ha moltissimo a che fare – di nuovo – con la tecnica e con il capitalismo diventati da tempo la nostra unica e omologata ‘forma di vita e modo di vivere’. Ovvero, è figlia di un processo di modificazione antropologica e comportamentale accentuatosi in questi ultimi trent’anni (ancora un richiamo a Silvia Avallone), ma in realtà è da almeno un secolo che siamo appunto ‘ingegnerizzati’ e ‘condizionati’ per vivere solo come ‘parti funzionali’ di un meccanismo tecnico e capitalistico che fa della produzione e del consumo e della competizione (sempre di più) il suo fine unico e universale/globale: che de-socializza ciascuno dagli altri e allo stesso tempo lo integra e sussume in un sistema che lo mercifica e reifica (anche questo sono i social), oggi mettendo a profitto per sé ogni uomo e la sua vita intera, le sue emozioni e relazioni e che oggi vuole automatizzare il suo lavoro ma anche la sua vita e il suo pensiero. Per cui ci ritroviamo oggi del tutto spiazzati e insieme impauriti davanti a un ‘naturale’ che ci contagia, che non è cosa/res o merce da far diventare feticcio o emozione/evento, ma un virus; che non è un virus informatico, per il quale basta un buon antivirus; che è invece qualcosa sì di invisibile che però passa ‘fisicamente tra di noi e in noi’. Gli appestati del Manzoni ‘sapevano’ di essere mortali, mentre noi ‘crediamo’ di essere immortali perché sempre più artificiali; o ‘crediamo’ che la tecnica e l’artificiale ci ‘immunizzino’ sempre e comunque.
Ha scritto Moni Ovadia, sul ‘manifesto’: “Quando la pandemia del coronavirus – dopo avere percorso il suo iter – scomparirà dal nostro orizzonte, sarà utile, sulla scorta delle lezioni che ci avrà imposto, ridefinire le nostre priorità nelle agende politiche e sociali”.
Ma sapremo davvero fare tesoro di queste ‘lezioni’?
In realtà da tempo – è per questo che dovremo capire se questi giorni di paura davvero cambieranno la nostra vita – siamo appunto diventati incapaci di pensare oltre il nostro ‘io’; ci preoccupiamo forse dei ‘nostri’ figli ma siamo incapaci di costruire – da oggi – un mondo ‘giusto’ in termini sociali ed ecologici per i ‘loro’ figli, cioè per i ‘nostri’ nipoti; soprattutto dimentichiamo/rimuoviamo troppo facilmente ciò che non ci piace o ciò che ci ha fatto paura (la realtà virtuale e i social sono servite anche a questo: a de-responsabilizzarci, alienandoci da noi stessi e dagli altri ‘reali’); non abbiamo più memoria collettiva/sociale e quindi siamo incapaci di non ripetere gli errori del passato; ma soprattutto siamo incapaci di ‘lungimiranza responsabile’, cioè di saper guardare nuovamente lontano e immaginare/progettare ciò che vorremmo/potremmo costruire se non fossimo dominati dai ‘tempi-ciclo’ sempre più rapidi imposti dall’accelerazione tecnica e che (di nuovo) ci ‘ingegnerizzano’ per vivere solo nel presente, senza un oltre che non sia la ripetizione del precedente (anche se ci viene offerto come sempre diverso e nuovo).
Lo eravamo – capaci di immaginare – ma lo abbiamo dimenticato: preferendo o accettando di ‘vivere alla giornata’, o assecondando solo gli immaginari prodotti dall’industria culturale 2.0, incessantemente adattandoci/piegandoci alle esigenze del sistema. Alla fine, siamo diventati ‘organismi esistenzialmente modificati’ dalla pedagogia tecno-capitalista e abbiamo vissuto e viviamo per assecondarne solo le logiche irresponsabili fatte di profitto, produttività, pluslavoro, consumismo, integrazione/sussunzione nel sistema, industria del divertimento e dei social, incapacità di concepire un’idea di limite, eccetera.
L’io senza noi
Ciò che serve allora non è sperare di ricominciare ‘come prima’; non basta dire “ce la faremo” se poi non ne conseguono azioni utili per vivere ‘diversamente’ rispetto al ‘comando’ del sistema che ci vuole isolati ma connessi, unici ma integrati, egoisti ma competitivi.
Serve allora – e questa appunto dovrebbe/potrebbe essere l’occasione per farlo – una riflessione ‘interiore-individuale’ che dovrebbe poi diventare/generare una riflessione ‘interiore-collettiva’ ragionando ‘tutti insieme’ (questo dovrebbe accadere in una polis davvero democratica) sui valori o sui disvalori della nostra società e portarci quindi a ‘dis-obbedire’ a ‘questo’ sistema. Provando/tornando a immaginare/progettare una società migliore.
Non sarà facile: perché accanto al magnifico lavoro di medici e infermieri (grazie, di cuore); accanto alle molte forme di solidarietà e di aiuto reciproco (ancora, grazie a tutti) anche se a distanza di sicurezza, queste settimane di coronavirus hanno prodotto anche comportamenti individuali e collettivi ai limiti della irresponsabilità e della ‘follia delle folle’, portando qualche sindaco a chiedere persino l’intervento dell’esercito “perché i cittadini non stanno a casa” – e bisognerebbe tornare a rileggere Gustave Le Bon e il suo ‘La psicologia delle folle’.
Comportamenti che hanno evidenziato quanto, nel profondo – e nonostante il ‘sentiment’ solidale espresso ora da moltissimi – siamo stati appunto ‘contagiati’ e ‘catturati’ dalla ‘grande (ma falsa) narrazione’ tecnica e neoliberale (e consiglio caldamente di leggere il libro di Paolo Bartolini e Stefania Consigliere, ‘Strumenti di cattura. Per una critica dell’immaginario tecno-capitalista’ – Jaca Book). Davvero trent’anni di ideologia neoliberale e anarco-capitalista – “la società non esiste, esistono solo gli individui”, secondo lo slogan di Margaret Thatcher diventato senso comune globale – hanno prodotto (illudendo facilmente gli uomini di potere essere ‘felicemente liberi perché senza regole’, se non quelle del mercato competitivo e creduto auto-regolantesi), una modificazione antropologica profondissima, ma appunto falsa – dove il ‘noi’ non conta più, o conta molto meno, o conta solo un ‘noi liquido’, come direbbe Bauman e ‘puntiforme’ o ‘usa e getta’.
Comportamenti irrazionali di molti, di troppi (per i quali violare la legge del ‘restare a casa’ diventa la sfida lanciata da un ‘io’ assoluto e assolutizzato contro qualsiasi idea di ‘noi’) che sono appunto figli del falso individualismo anarco-capitalista/neoliberale di questi ultimi trent’anni. Comportamenti che evidenziano quanto dobbiamo ancora faticare per ricostruire davvero – oltre le esperienze di questi giorni – quella società/socialità che il neoliberalismo e la tecnica hanno deliberatamente e programmaticamente distrutto perché considerate un ‘tempo morto’ per l’efficienza del sistema; quanto ancora dovremo rielaborare per recuperare una società/socialità (e parlo volutamente di ‘società’ aperta e plurale e non di ‘comunità’, tendenzialmente invece chiusa in se stessa) che sia poi capace di ri-costruire una polis in grado di darsi delle regole morali/etiche e civiche/civili di ‘con-vivenza’, dove l’interesse privato si concili consensualmente con l’interesse di tutti, così da poter essere, ciascuno non solo ‘individuo economico e tecnico’, ma ‘con-dividuo’, capace cioè di vivere con gli altri – come ha scritto Francesco Remotti in quello splendido libro che è ‘Somiglianze’ – Laterza, 2019. Una società/socialità capace infine di ri-elaborare una ‘teoria della giustizia umana e ambientale’, regolamentando anche (meglio sarebbe ‘uscirne’ definitivamente) un tecno-capitalismo ingiusto per vocazione e che ‘uccide’ – fisicamente o socialmente, sicuramente ecologicamente – più del coronavirus.
La pandemia dovrebbe essere allora occasione per riflettere su come e perché siamo stati ‘costruiti così’: come individualisti compulsivi che vogliono/devono incontrare solo altri individualisti compulsivi (in realtà, ‘individualisti senza individualità’ e senza capacità di ‘individuazione’, cioè di una auto-costruzione auto-noma di noi stessi); individualisti che vogliono incessantemente differenziarsi dagli altri ma che sono anche sempre affascinati dal gregge e dai comportamenti conformistici (ed è proprio sfruttando questa ambivalenza psichica dell’uomo che hanno ‘giocato’ e ‘giocano’ la tecnica e il mercato, dandoci continuamente l’illusione di essere liberi e sovrani di noi stessi – in rete/social, nel consumo, nel dover essere la continua start-up di noi stessi – in realtà per integrarci sempre più in un sistema di macchine e di algoritmi, di consumi e di lavoro; un ‘io tecnico’ che deve vivere una vita gestita matematicamente e algoritmicamente, ma che poi deve comportarsi secondo la peggiore irrazionalità umana, quella della ‘legge della savana capitalistica’ (‘che tu sia leone o gazzella…’).
Cambiare tutto per cambiare tutto
Sapremo cogliere questa pandemia per cambiare davvero, ‘cambiando tutto perché cambi tutto’? Soprattutto noi stessi? In realtà, tutto sembra anzi portarci a un ulteriore ‘isolamento’ dagli altri: non a quello che dovrebbe essere appunto temporaneo e necessario per evitare il contagio (#iorestoacasa, eccetera); ma perché in molti si fa sempre più forte la voglia e l’obiettivo – sfruttando l’opportunità offerta dal coronavirus – di spingerci ulteriormente verso una riduzione degli spazi di autonomia dell’uomo, di democrazia e di vera socialità, facendoci proseguire piuttosto lungo il piano inclinato di un’ulteriore de-socializzazione tecnica e capitalistica e quindi verso una ulteriore integrazione/controllo sistemico di ciascuno negli apparati di controllo. Una propaganda fatta di: ‘se le scuole fossero tutte online’; ‘se ogni lavoro potesse essere fatto da casa’; ma anche: ‘se tutto fosse gestito da un algoritmo’… Se questo si realizzasse, allora non andremmo verso una nuova socialità umana e umanistica, ma continueremmo nella de-socializzazione/isolamento/de-responsabilizzazione richiesti dal sistema tecno-capitalista per il proprio funzionamento efficiente, non umano ma post-umano o dis-umano.
[E ad evitare malintesi, meglio chiarire subito che per noi i dati sanitari possono e devono essere utilissimi per governare e controllare una pandemia; ma questi dati non devono essere gestiti dall’oligopolio della Silicon Valley. E invece, come ha scritto Michele Mezza sul ‘manifesto’, accade il contrario: “mentre al Ministero della Sanità si moltiplicano gli sforzi per raggiungere e connettere i data base periferici e poter avere una bussola aggiornata dei comportamenti sociali in rete (…), la ministra Pisano continua a magnificare la sua soluzione (…). Un vero catalogo di servizi digitali che sono offerti gratuitamente ai cittadini (…), ma a svolgere queste attività delicatissime e vitali sono state coinvolte le grandi piattaforme della Silicon Valley, come Microsoft, Amazon, Google e Facebook. Ovvero, la ministra dell’innovazione non trova di meglio che incentivare ulteriormente l’uso delle piattaforme private, dei monopolisti digitali, assicurando a loro l’acquisizione di quella che oggi nel mondo è considerata la materia prima più pregiata: i dati comportamentali del paese, ritenuto un laboratorio nel contrasto al virus”].
Da Covid-19 al cambiamento climatico. E le rane a bollire
Ultima riflessione. Tra coronavirus e cambiamento climatico sembra esistere una relazione evidente e si comincia a legare l’incremento delle pandemie degli ultimi decenni alla drastica riduzione della biodiversità e all’inquinamento. Ma diverso – e molto – è il nostro modo di rapportarci a questi due ‘problemi’. Covid-19 è nato improvvisamente e si è poi è nato casualmente, ma si è poi diffuso velocemente a livello globale. È scattata, più o meno velocemente, l’emergenza e la mobilitazione. Per l’emergenza ‘cambiamento climatico’ siamo invece fermi, nulla accade e la notizia – tremenda e agghiacciante – che i ghiacci polari si sciolgono oggi a una velocità sei volte maggiore rispetto agli anni ’90, quasi scompare dai media. Sappiamo che il cambiamento climatico esiste, che si fa sempre più grave, che la nostra in-azione produrrà effetti sempre più devastanti sul clima, sulla vita umana, sull’economia. Effetti davanti ai quali l’attuale pandemia sembrerà forse un semplice raffreddore. Eppure, pur potendo quindi intervenire ‘da subito’ per modificare la situazione e invertire la rotta – agendo secondo ‘consapevolezza’ e ‘responsabilità’ – nulla accade. O troppo poco.
E allora: siamo forse come le rane della metafora del filosofo Noam Chomsky? Se buttate vive nell’acqua già bollente, le rane cercano di uscire velocemente dalla pentola (consapevoli del pericolo, come noi oggi davanti al coronavirus); se invece vengono messe in un’acqua che si scalda lentamente (il cambiamento climatico non è immediatamente percepibile come emergenza), non si accorgono della modificazione, anzi si accomodano nel caldo piacevole della ‘pentola/comfort-zone’ (il tecno-capitalismo con la sua industria del divertimento, con il consumismo e i social e l’edonismo individualistico – la ‘comfort-zone’ che produce per noi); e quando l’acqua sarà diventata troppo calda (il riscaldamento climatico non si ferma), saranno (saremo) incapaci di uscire dalla pentola. Triste metafora – ma ahimè molto vera – che spiega molto dei comportamenti umani.
E dalle rane ritorniamo a Silvia Avallone, che si rivolge appunto ai giovani (ma qui estendiamo la sua riflessione a tutti): “Un consiglio spassionato? Non disertate la Rete, anzi, ma accanto al diario pubblico, scrivetene uno privato. Strappate una pagina bianca da un quaderno e buttateci sopra quel che avete dentro. Non per piacere agli altri o per utilità. Solo per voi stessi, senza altro fine se non quello di ‘conoscervi’. Avete tempo, no? Potete perdere settimane annegandole nei videogiochi; oppure potete tentare l’impresa: capire chi siete e chi desiderate diventare”. Unico modo, anche per noi, per ‘restare umani’, ‘disobbedendo’ al sistema.