arte immersiva

Immersività e senso del bello: le tecnologie ci restituiscono lo spirito dionisiaco dell’arte?

Attraverso l’uso di tecnologie, schermi, sensori e probabilmente dell’intelligenza artificiale le opere del progetto giapponese TeamLab proiettano lo spettatore in un’esperienza di bello priva di concetto e di finalità pratica. Ma la tecnologia, allora, la tecnologia può restituirci lo Spirito Dionisiaco?

Pubblicato il 20 Mag 2022

Lorenza Saettone

Filosofa specializzata in Epistemologia e Cognitivismo, PhD Student in Robotics and Intelligent Machines for Healthcare and Wellness of Persons

teamlab

Cosa significa arte immersiva? In questo articolo proveremo a decostruire il senso di bello veicolato da tale arte, rispondendo alla domanda se la tecnologia ci restituisca o meno lo Spirito Dionisiaco.

Arte digitale, l’immersività reinventa la spettacolarizzazione culturale

Il progetto TeamLab

Il progetto TeamLab appartiene a un collettivo giapponese di circa seicento artisti, ingegneri del software, animatori e architetti. Tale collezione è un esempio eccellente di cosa sia l’arte immersiva. Attraverso l’uso di tecnologie, schermi, sensori e probabilmente dell’intelligenza artificiale (gli artisti del progetto sono sempre abbastanza evasivi circa le spiegazioni tecniche alla base delle opere) si intende proiettare lo spettatore in un’esperienza di bello priva di concetto e di finalità pratica. Si tratta di un sentire immediato, in tutt’uno con lo spazio artistico di cui si prende parte. Luci, musica, forme, animali, piante, individui misteriosi, senza scarti di tempo, reagiscono al nostro procedere e al nostro toccare: questo il segreto dell’esperienza immersiva. Insomma, è una casa domotica declinata in senso estetico, dove il fine dei sensori del robot-opera-d’arte è quello di risuonare con le nostre emozioni, con la parte più istintiva e immediata del nostro cervello. L’arte immersiva potrei definirla neuromarketing robotico.

teamLab Borderless Hamburg: Digital Art Museum

teamLab Borderless Hamburg: Digital Art Museum

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Il fatto che non ci sia una distanza tra opera d’arte e spettatore, tra intenzione e azione, tra azione ed effetto e che tutto fluisca spontaneamente tra ciò che facciamo e ciò che vediamo ci obbliga a sperimentare un senso profondo di presenza e di continuità; un raccordo che va al di là di ogni possibile meta-riflessione allontanante tipica del fare arte consueto. Siamo lì, partecipiamo e ci immergiamo nei giochi di luce attraverso i nostri meccanismi senso-motori che esistono prima di ogni dualismo soggetto-oggetto, natura-cultura, interno-esterno e, anzi, li sorreggono.

Il fatto che si utilizzino dispositivi sensoriali precedenti al linguaggio e che il fine non sia il prodotto fisso, l’opera monumentale e potenzialmente antiquaria da ammirare in un museo, trasforma l’arte in un’esperienza direi mistica, qualcosa che si avvicina di più alla ritualità di musica ed estasi tipica di certe culture orali. In realtà non è lo Spirito Dionisiaco che si fa strada nella fruizione di queste mostre: non c’è dolore: il caos non riluce sotto al velo dell’armonia e della regolamentazione algoritmica, misurata, dell’arte robotica. Questo significa che il principio di non contraddizione tipico della logica tradizionale, aristotelica, non è venuto meno, ciononostante si deve comunque rinunciare a capire: l’onda del mare risponde alle leggi, senza che debba razionalizzare la sua liquidità e le ragioni del suo movimento. TeamLab e ogni progetto di arte immersiva non è il luogo della moralità e nemmeno della amoralità, non è un luogo tout court. Sebbene ci sia armonia e senso di pace, non si dà nemmeno la partecipazione apollinea dell’arte figurativa: non c’è razionalità, non c’è “mondo come rappresentazione”.

L’obiettivo dell’organizzazione

Il fondatore di TeamLab, Toshiyuki Inoko, ha detto che l’obiettivo dell’organizzazione è di abbattere le bandiere tra il Sé e l’ambiente. Questa affermazione mi spinge a riflettere per deformazione professionale sulla filosofia e su concetti embodied ed enacted della mente.

Husserl sosteneva che ogni pretesa della scienza positiva di risalire alle osservazioni neutrali, epurate da pregiudizi, era invece una costruzione artificiale, intimamente legata al nostro osservare un mondo dotato di significati, di concetti. L’obiettivo della sua fenomenologia era quello di mettere tra parentesi tali costruzioni e tornare al mondo della vita, al contatto immediato di un soggetto da sempre aperto intenzionalmente all’ambiente esterno. In questo mondo composto di essenze finiscono per cadere tutte le divisioni culturali, le diversità percettive. L’epoché fenomenologica ci proietta nell’atto puro, precategoriale, cioè nella vita stessa. Ecco che l’arte immersiva sembra tradurre in pratica l’obiettivo di Husserl: l’esperienza di senso muta.

Non si può dire cosa sia l’arte immersiva

Infatti, ogni pronunciare inevitabilmente fa perdere la genuinità dell’azione. Non si può dire cosa sia l’arte immersiva, non si deve dire. Questo sembra il discorso di Plotino a proposito dell’Uno, di cui non si poteva dare alcuna definizione diretta. L’unico modo per parlarne era dire ciò che non era (teologia negativa). Anche nel caso dell’arte immersiva si può solo spiegare il processo che conduce all’apertura con l’ignoto, che porta all’esperienza mistica, ma, poi, dell’ignoto non si potrà mai dire alcunché.

Questo approccio contraddice tutto quello che l’ontologia occidentale ci ha insegnato a definire “reale”: una classificazione di oggetti che, solo se nominati, possono essere veri o falsi, e quindi visti, usati e scambiati. In breve possono essere dominati. La magia, all’opposto, definisce come reale ciò che è indefinibile: e cioè l’esistenza. Essa è sempre fuori da sé, sfugge a ogni nome. Pertanto, essa non può essere fissata in nessun ritaglio rappresentativo, essendo costantemente al di là della parola, del racconto, del ricordo, della simulazione. L’esistere, allora, altro non è che una dinamica muta, in cui non hanno senso il Sè, l’ambiente, il cervello, gli altri… Non ci sono divisioni, non ci sono digitalizzazioni. O vivere o scrivere.

La vita ha a che fare con una sovrabbondanza di senso e dal momento in cui ne facciamo esperienza, questa eccedenza non può che nausearci, come ricorda Sartre. La sovrabbondanza ci mostra che la libertà è una condanna e come tale, allora, non esiste. Per fuggire dalla nausea scegliamo di vivere in schemi linguistici, in regole metodologiche che ci dicano risposte binarie, in sensori che ci certifichino la salute e anche l’arte immersiva fa parte di questa esigenza di essere guidati in una scelta-non-scelta, in cui tutto è già predisposto a farci esperire un pool di emozioni fintamente spontanee.

Arte immersiva e tecnologie

L’arte immersiva è imbevuta di tecnologie. Essa sta trasformando il modo in cui si è artisti, in cui si è fruitori e il modo in cui esisteranno gli spazi museali stessi. Come ha affermato Janet Kraynak, storica dell’arte e professoressa alla Columbia University, invece di sforzarsi di essere luoghi di pedagogia, i musei stanno diventando esperienze culturali, veicoli di “contenuti ” alla maniera di ogni altro elemento onlife. Non solo, non possono prescindere dal trasformare i consumatori in autori dell’arte che stanno fruendo. L’artista è una catena di interventi impossibile da fissare, inutile da fissare. Non c’è firma, solo il fatto di poter condividere la compartecipazione. Tutto è più simile a un parco di divertimenti.

L’arte è un’installazione dove i fruitori finalmente possono trovare svago, dimenticando il “lavoro totale” nel flow dell’esperienza estetica a lume della ragione spento. Non abbiamo tempo e risorse attentive sufficienti per concederci a una musica d’autore com’era quella degli anni Settanta. L’arte sta diventando un modo ulteriore per anestetizzarci: non ne possiamo più di significati, di interpretazioni, di produrre. Vogliamo diventare parte di un prodotto senza linguaggio in cui sentirci partecipi della bellezza.

Conclusioni

È un inganno, allora? Si tratta forse dell’ennesima trovata del marketing? A mio avviso siamo giunti all’apice di quello che la scuola di Francoforte chiamava “industria culturale”. Ogni tanto, come Odisseo con le sirene, abbiamo bisogno di immergerci nella magia, nell’ignoto, nel mondo-della-vita precateogirale, allora, la società concede piccoli momenti di sfogo agli umani. Questi piccoli spazi di piacere sono sapientemente ingegnerizzati, gestiti dall’alto perché non ci sia ribellione dal sistema. Odisseo si fa legare all’albero maestro della nave per avere un assaggino di quel bisogno atavico di Natura, senza però rischiare di perdersi e anche noi otteniamo l’estasi fino a un certo punto.

Insomma, non è arte dionisiaca, questa, perché è sempre la razionalità, è sempre la produzione di massa che crea la simulazione. L’obiettivo è permettere all’essere umano di appagare la sua necessità di natura, ma non troppo. Il rischio è che qualcuno si liberi rompendo la meccanica di ingranaggi perfettamente temporalizzati e acritici.

Non c’è dolore, perché l’arte ci vuole mansueti, dimentichi, servi e il dolore potrebbe farci rendere conto che essere popolo significa essere stati domesticati per fini che non potrebbero essere innocui. L’estasi ci farebbe perdere il contatto con quel tipo di ontologia tassonomica fondata sul dominio della Natura: la Natura resta molto più grande di noi e se vogliamo davvero fonderci con essa, dobbiamo rinunciare all’Ego, al Tu, alla Natura stessa e accettare che la vita non si può fissare. Nessun tipo di strumento può misurarla. La vita non è né bella né brutta, ma questa consapevolezza sarebbe una minaccia per la civiltà, per la tecnica, per la scienza. Pertanto, è impensabile che un’arte resa fruibile dalle tecnologie sia finalizzata a farci sperimentare il contatto con la Vita. Quest’arte non può che voler proteggere se stessa e la civiltà dal nichilismo fenomenologico.

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