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Individualisti, ma integrati: perché rivalutare l’Io al tempo della tecnologia



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Il ritorno a Jena, culla dell’idealismo tedesco e simbolo del dibattito filosofico sull’Io, rappresenta una metafora del percorso che la società è chiamata a intraprendere. Urge ripensare l’individualismo alla luce delle trasformazioni digitali, riflettendo su come preservare la libertà individuale e promuovere una concezione dell’identità che rispetti la complessità e la molteplicità dell’esperienza umana

Pubblicato il 16 gen 2024

Lelio Demichelis

Docente di Sociologia economica Dipartimento di Economia- Università degli Studi dell’Insubria



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Siamo davvero una società individualistica, egotistica e narcisistica? O siamo piuttosto una non-società fatta di individui integrati nel sistema, per cui l’individualismo è solo una finzione? E se questa seconda lettura è vera, c’entrano qualcosa il lavoro industriale e la fabbrica di spilli di Adam Smith, il positivismo, Taylor e il taylorismo (oggi digitale), le tecniche di management e di human engineering, il consumismo e il marketing, i social e il capitalismo di piattaforma? Certo che c’entrano.

Perché il lavoro industriale si basa sempre, dall’inizio della rivoluzione industriale, sulla legge ferrea del separare, isolare, individualizzare, parcellizzare/suddividere il lavoro (e la vita e l’individuo stesso), per poi poter meglio integrare/sincronizzare/sussumere il lavoro (e la vita e l’individuo diviso in frammenti, ciascuno di essi valorizzato capitalisticamente) nel tecno-capitalismo.

E quanto più si produce individualizzazione, atomizzazione, isolamento ed ego(t)ismo (che sono benzina per la competizione tecno-capitalistica di tutti contro tutti), quanto più e meglio si realizza (oggi con la digitalizzazione di tutti e di tutto) l’integrazione/sussunzione totalitaria delle parti prima suddivise (soprattutto gli uomini) nell’apparato/Tutto. Apparato che deve funzionare al massimo della sua efficienza, della sincronizzazione delle parti e della mobilitazione totale di tutti, per la massimizzazione del profitto del tecno-capitale. E ciò che evidenziava ad esempio Sherry Turkle nel 2011 come effetto delle nuove tecnologie[i] – gli individui insieme, ma sempre più soli – in realtà è nell’essenza della razionalità strumentale/calcolante-industriale che governa il mondo e gli uomini.

De-socializzare per ri-socializzare

Già, perché ciò che si è compiuto a partire dalla rivoluzione industriale è un processo di continua e incessante de-socializzazione, cioè di rottura dei meccanismiche producevano socializzazione (famiglia, gruppi, cultura, religioni). Una rottura che sarebbe stata illuministicamente liberante ed emancipante (per quell’individuo autonomo e libero immaginato da Kant, capace di uscire dalla propria minorità rispetto al potere) se avesse prodotto soggetti appunto autonomi e liberi. In realtà – rovesciando le speranze di Kant – è stata utilizzata dal tecno-capitale per indurre una continua ri-socializzazione e totalizzazione/integrazionedegli individui e basata sul modello della fabbrica (e anche i social sono fabbriche). Che oggi diventa digitale, ma senza perdere nulla della forma e del modo di organizzare il lavoro – la sua legge ferrea, appunto – della vecchia fabbrica fordista-taylorista. Dove ciascuno è ancor più separato/isolato dagli altri, ma massima è la sua connessione/integrazione/sussunzione e quindi la sua funzionalità per il sistema.

Scriveva Jacques Ellul (1912-1994): “La tecnica” – ma noi diciamo che analogamente procede il capitalismo/mercato, integrando sempre più in sé ciascun individuo come soggetto consumativo e insieme integrando i mercati in mercati sempre più grandi e sempre più integrati e connessi – “progredendo, mette in discussione le vecchie strutture e i vecchi valori e incita l’uomo a creare qualcosa che gli permetta di vivere in tale ambiente: ma è solo un conformismo e la creazione produce innumerevoli gadget”; perché il sistema tecnico– continuava Ellul – “sviluppa quella parte della nostra umanità a cui teniamo di più (diversità, altruismo, anticonformismo), in modo però completamente integrato al sistema stesso – vale a dire funzionando a vantaggio del sistema, perché gli fornisce nuovo alimento e realizzandosi grazie a ciò che il sistema mette a disposizione”[ii].

Docilizzare per utilizzare meglio: la tecnocrazia delle macchine

Appunto: il sistema tecno-capitalista de-socializza incessantemente (ricordiamo lo slogan di Margaret Thatcher: “La società non esiste, esistono solo gli individui”, slogan utile per integrare meglio nel mercato ciascun individuo, privato di socialità e di solidarietà/uguaglianza e potesse essere ridotto a mero homo oeconomicus ben integrato nella società ridotta a sua volta a mercato e competizione), per poter ri-socializzare/sussumere quindi ciascuno in sé e in funzione di sé come sistema. Una tecnica di human engineering che inizia con la rivoluzione industriale e ancora continua.

Ma allora, quale individualità/soggettività/autonomia e quale libertà incorpora questo individuo, se poi deve essere sempre più integrato nel sistema? Non è forse una falsa individualità e quindi non viviamo in un falso individualismo e in una falsa società individualistica, essendo piuttosto la nostra una società-fabbrica[iii] dove tutti sono integrati e messi al lavoro, dove ciascuno deve essere solo homo oeconomicus/technicus, produttivo, consumativo e oggi generatore di dati h24, ma sempre e ovunque organizzato, comandato e sorvegliato da management, marketing e digitale, appunto come in una fabbrica? E al crescere della integrazione/sussunzione/funzionalità di ciascuno nel sistema/organizzazione, non diminuisce necessariamente la sua individualità/autonomia/libertà?

Aveva dunque ragione Michel Foucault quando scriveva che la modernità ha inventato la libertà ma anche le discipline. E le discipline foucaultiane sono appunto una tecnica per integrare ciascuno in una organizzazione (“il capitalismo ha potuto consolidarsi solo grazie all’inserimento controllato dei corpi nell’apparato di produzione, grazie a un adattamento dei fenomeni di popolazione ai processi economici”[iv]), per renderlo docile e utile, per fargli fare autonomamente ciò che richiede il potere (“perché gli uomini facciano ciò che il potere desidera, ma anche perché operino come esso vuole, con le tecniche e secondo la rapidità e l’efficacia che esso determina”[v]). Il tutto mediante una eterodirezione/human engineering continua che però non deve sembrare tale mentre i comportamenti sempre other-directed dal tecno-capitale (come produrre e consumare a produttività e a pluslavoro crescenti, e chi se ne importa della crisi climatica e ambientale) devono venire interiorizzati ed essere percepiti dall’individuo come inner directed. Ed era la tecnica di human engineering usata anche da Taylor per accrescere la produttività dell’operaio Schmidt del 280% (contro un aumento salariale di solo il 60%), facendolo però felice di auto-sfruttarsi e soprattutto evitando ogni rimostranza. E non diceva la stessa cosa il neoliberale Walter Lippmann (1889-1974) quando scriveva, negli anni ’30 del ‘900, che il neoliberalismo è l’unica filosofia capace di far adattare la società alle esigenze della rivoluzione industriale e della divisione del lavoro? Oppure, un secolo prima, il positivista Auguste Comte (1798-1857), per il quale occorre educare gli uomini alla disciplina e all’obbedienza all’ordine esistente. E scienza e società “si devono unire in un insieme indivisibile nel giustificare e rinforzare l’ordine sociale, favorendo una saggia rassegnazione[vi]? – e ricordiamo che per il positivismo, società e industria sono sinonimi. Aggiungendo: “Come è dolce obbedire quando possiamo godere della felicità… di essere convenientemente liberati, da capi saggi e meritevoli, dall’assillante responsabilità di decidere come ci dobbiamo generalmente comportare” – e oggi abbiamo algoritmi e i.a., il divertimento e i social ma soprattutto il capitalismo della sorveglianza e la società-fabbrica (e i populisti e i tecnocrati e la tecnocrazia delle macchine) e li accettiamo come capi saggi e meritevoli. Ovvero, ci siamo rassegnati a non essere liberi, credendo però di essere più liberi grazie alla tecnica e alla delega esistenziale che le affidiamo – qualcosa di impossibile in sé per la contraddizione che non lo consente (ancora: più integrazione uguale minore libertà).

Da Kant ai “Magnifici ribelli”, la nascita dell’Io

Eppure, c’era stato un tempo – tanto tempo fa – in cui era nata l’idea dell’Io, della sua libertà e della sua autonomia. Il tempo della rivoluzione francese, dell’Illuminismo; e di Kant (1724-1804) che appunto scriveva, pochi anni prima della deriva positivistica: “L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di servirsi della propria intelligenzasenza la guida di un altro. […] Sapere aude!Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! Questo è il motto dell’Illuminismo”[vii]. Oggi invece cerchiamo l’intelligenza artificiale che è tutto meno che sapere aude!, essendo piuttosto la ricerca della guida di un altro chiamato macchina, accrescendo quindi la nostra minorità – di cui siamo ancora una volta noi stessi i colpevoli.

Kant e poi Jena, piccola città tedesca ma dove a fine Settecento si incontrarono, con al centro l’Università più libera del tempo (“a Jena vivevano più poeti, scrittori, filosofi e pensatori famosi in rapporto alla popolazione che in qualunque altra città, sia riguardo al presente che al futuro”), Goethe e filosofi radicali come Fichte, il poeta Novalis, i fratelli Schlegel e von Humboldt, e poi Schelling e Schiller ed Hegel. E inventarono l’Io moderno, come spiega Andrea Wulf nel suo affascinante romanzo storico-filosofico dal titolo di Magnifici ribelli[viii]. Costituendo quello che Wulf chiama il Circolo di Jena, dove nessuno cercò mai di dettare regole e anzi “tutti inneggiavano all’assenza di regole rigide”; “non erano interessati a una verità assoluta ma al processo della conoscenza” (mentre oggi tutti devono apprendere positivisticamente solo le competenze a fare, escludendo appunto la conoscenza dei processi e i processi della conoscenza, cercando – peggio – la verità solo nell’esattezza del calcolo matematico); e “demolivano i confini tra le discipline e con ciò superavano le divisioni tra le arti e le scienze e contrastavano l’ordine costituito” (mentre oggi viviamo nella iper-specializzazione, alziamo confini tra le stesse scienze e così rafforziamo l’ordine costituito).

Fichte, dunque, che sulla scia della rivoluzione francese – in parentesi, sopra e sotto, i nostri commenti/chiose a Wulf e al pensiero degli autori citati – “infondeva nell’Io la più inebriante delle idee: il libero arbitrio” (mentre oggi ci rassegniamo a un servo arbitrio dettato dagli algoritmi e dall’i.a.), libero arbitrio che “aveva a che fare tanto con la liberazione dell’individuo, quanto con la ribellione contro il dispotismo dello Stato” (mentre oggi ci adattiamo al dispotismo della Silicon Valley e ai voleri delle multinazionali hi-tech che governano la nostra vita e impongono le loro innovazioni a prescindere da qualsiasi valutazione/decisione democratica e da qualsiasi procedura di responsabilità e di precauzione verso la vita e verso le future generazioni). Perché una persona, insegnava Fichte ai suoi studenti, “dovrebbe essere quello che è perché vuole esserlo ed è giusto volerlo essere”, e tutti sognavano una rivoluzione innescata dalla filosofia, filosofia che è qualcosa di essenzialmente umano (mentre oggi ci adattiamo alla rivoluzione tecnologica imposta da imprese, ingegneri e da tecnocrati, senza renderci conto che così l’Io muore, perché alienato da sé e matematizzato da quella razionalità strumentale/calcolante industriale che è la negazione dell’Illuminismo, di Kant, dalla ragione, ma che tuttavia pre-determina capitalismo e sistema tecnico).

Per il Circolo di Jena invece la realtà tecnico-scientifica “aveva spogliato la realtà della poesia, della spiritualità e del sentimento”; e “la natura è stata ridotta a una macchina ripetitiva, trasformando l’eterna musica creativa dell’universo nel monotono sferragliare di una gigantesca ruota di mulino” secondo Novalis (e oggi, il virtuale/artificiale/metaverso è ancora di più spogliato di sentimento e di poesia di un mulino e il rumore è solo quello della nostra mobilitazione totale a fare sempre di più). ”Guardate dentro di voi”, insegnava ancora Fichte ai suoi studenti adoranti, “siamo qui per parlare del sé interiore” (mentre oggi il sé interiore è anch’esso frantumato dalla legge ferrea della razionalità strumentale/calcolante-industriale e quindi non può esistere alcun sé interiore perché la riflessione con se stessi è solo un tempo morto per il sistema impedendo la valorizzazione capitalistica di ogni cosa e di ogni momento di tempo: esiste cioè solo un sé esteriore che vive nel virtuale, nel metaverso o con ChatGPT, che comunque è oltre sé ed è altro da sé).

Ma non solo l’Io. Già allora Schelling sosteneva tesi ancora più urgenti oggi. Come ricorda Wulf: “Al posto di un mondo frammentario e meccanicistico, nel quale gli uomini erano poco più ingranaggi di una macchina, lui evocava un mondo unitario. […] Tutto – dalle rane agli alberi, dalle pietre agli insetti, dai fiumi agli esseri umani – era interconnesso, a formare un unico organismo universale”; e il sistema della natura era anche il sistema della mente, ed essere nella natura – camminare, esplorare, pensare – era anche e sempre un processo di auto-scoperta per il quale tuttavia non basta osservare ciò che si vede, occorre anche sentirlo. E Alexander von Humboldt, grande esploratore, descriveva la natura “come un tutto che vive, non un morto aggregato”, e rifiutava le scienze come “arido aggregato di fatti”; e pur essendo un razionalista ricordava che “ciò che parla all’anima sfugge alle nostre misurazioni” (noi invece cerchiamo di misurare e calcolare e prevedere anche l’anima, il sistema impone algoritmi predittivi attraverso la nostra profilazione per standardizzare i nostri comportamenti – e standardizzare, oltre a integrare tutto in sé come Tutto, è appunto nell’essenza della razionalità strumentale/calcolante-industriale – e quindi l’anima, diventando sempre più artificiale in un mondo sempre più artificiale è incapace di sentire la biosfera ma deve invece sentire e vivere la digitalizzazione/artificializzazione del mondo, e l’unico organismo universale che ammettiamo oggi è appunto quello del tecno-capitalismo digitale e dell’i.a. – e quindi mai sentiremo la crisi climatica né cercheremo di porvi rimedio, piuttosto ci faremo resilienti, adattandoci positivisticamente ancora una voltaalle esigenze ecocide del tecno-capitale).

Dall’invenzione dell’Io alla sua morte

Sul perché l’invenzione dell’Io si sia trasformata nella sua negazione, pure in una società che deve credersi individualista, molto è stato detto e scritto. E potremmo ricordare su tutti la prima Scuola di Francoforte[ix], andando indietro a Freud e a Le Bon e arrivando a Fromm[x], ad Anders[xi] o a Sadin[xii]. Chiudiamo invece sottolineando ancora una volta il paradosso (apparente) di una società che deve credersi individualista mentre è in realtà la società più integrata, cioè totalitaria, mai compiutasi nella storia. Effetto dell’egemonia della razionalità strumentale/calcolante-industriale, che ha appunto prodotto una società-fabbrica del tutto artificiale e dove anche la crisi climatica e ambientale (effetto diretto e conseguente del tecno-capitalismo) è un processo che può/deve essere messo a profitto privato (e non a caso, anche la COP 28 è fallita).

E se “nel XIX secolo nacque la necessità, per il sistema (capitalista-industriale), 1) di contrastare quelle masse proletarie che esso stesso stava producendo, evitando che acquisissero una coscienza di classe e che lo abbattessero, secondo l’ipotesi di Marx ed Engels; e, 2) di governarle in modo eteronomo-capitalistico, rendendole funzionali al proprio funzionamento[xiii] attraverso quella che George L. Mosse ha chiamato la nazionalizzazione delle masse e che poi produsse fascismo e nazismo (“La folla incomposta del popolo divenne, grazie a una mistica nazionale, un movimento di massa concorde nella fede dell’unità popolare. La nuova politica offrì una oggettivazione della volontà generale, ciò che trasformò l’azione politica in una rappresentazione drammatica della quale si pensava fosse attore il popolo stesso”[xiv], portando le masse a identificarsi con i valori borghesi), oggi il tecno-capitale non ha più necessità di ricorrere al concetto di nazione politica per svilupparsi, essendo esso stesso la nazione globale integrata, ottenuta attraverso la digitalizzazione delle masse in sé come corpo tecno-capitalista, nuovo Spirito del mondo/mistica tecnica. Che esclude ogni soggettività producendo incessanti processi di soggettivazione eteronoma (di falsa soggettività), che escludono l’Io e che hanno sciolto anche ogni coscienza di classe.

Davvero, l’Io – l’Illuminismo, ma anche il primo Romanticismo narrato da Andrea Wulf, e l’emancipazione dell’uomo pensata dalla Scuola di Francoforte – è morto. E non poteva non morire, perché di intralcio alla legge ferrea della rivoluzione industriale e del capitale, perché non calcolabile e non standardizzabile. Urge tornare a Jena.

Bibliografia


[i] S. Turkle (2012), “Insieme ma soli”, Codice Edizioni, Torino

[ii] J. Ellul (2009), “Il sistema tecnico”, Jaca Book, Milano, p. 142.

[iii] L. Demichelis (2023), “La società-fabbrica. Digitalizzazione delle masse e human engineering”, Luiss University Press, Roma

[iv] M. Foucault (2001), “La volontà di sapere”, Feltrinelli, Milano, pag.124

[v] M. Foucault (2011), “Sorvegliare e punire”, Einaudi, Torino, pag. 150

[vi] In L. Demichelis (2023), “La società-fabbrica. Digitalizzazione delle masse e human engineering”, Luiss University Press, Roma, pag. 96

[vii] I. Kant (2006), “Che cos’è l’Illuminismo”, Editori Riuniti, Roma, pag.48

[viii] A. Wulf (2023), “Magnifici ribelli. I primi romantici e l’invenzione dell’Io”, Luiss University Press, Roma (le citazioni riportare a seguire sono riferite alla pagine: 33, 34, 39, 40, 76, 243, 244, 245, 405, 406).

[ix] Su tutti ricordiamo: M. Horkheimer (2000), “Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale”, Einaudi, Torino; e H. Marcuse (2011), “L’uomo a una dimensione”, Einaudi, Torino

[x] Si legga ad esempio: E. Fromm (2004), “Psicanalisi della società contemporanea”, Mondadori, Milano

[xi] In particolare: G. Anders (2003), “L’uomo è antiquato”, 2 voll., Bollati Boringhieri, Torino

[xii] E. Sadin (2019), “Critica della ragione artificiale”, Luiss University Press, Roma; Id (2022), “Io tiranno”, Luiss University Press, Roma

[xiii] L. Demichelis (2023), “La società-fabbrica. Digitalizzazione delle masse e human engineering”, Luiss University Press, pag. 262

[xiv] In Ivi, pag. 263

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