Commissione europea

Innovazione, l’Italia ha imboccato la strada giusta: adesso rimuoviamo gli ultimi ostacoli

Nonostante l’incremento del tasso di innovazione registrato dal “Quadro europeo di valutazione dell’innovazione”, il nostro paese continua a posizionarsi appena al di sotto della media europea, nel gruppo dei paesi “moderatamente innovatori”. Sembra però che abbiamo imboccato la strada giusta. Le misure da attuare

Pubblicato il 28 Lug 2021

Paolo Di Bartolomei

ex Direttore Generale Fondazione COTEC, Head of Institutional and External Communications di FiberCop

Innovation-in-Italy

Messa in ombra (comprensibilmente) dalle notizie riguardanti l’approvazione del PNRR italiano da parte della Commissione europea, è passata sostanzialmente inosservata nelle scorse settimane la notizia della pubblicazione da parte della stessa Commissione europea del “Quadro europeo di valutazione dell’innovazione” (European Innovation Scoreboard – EIS), che invece riveste elementi particolarmente interessanti in questo momento, anche proprio per valutare la correttezza e l’efficacia dell’allocazione dei fondi che contiamo di ottenere dall’UE.

Il Quadro europeo di valutazione dell’innovazione fornisce un’analisi comparativa delle prestazioni in termini di innovazione nei paesi dell’UE, in altri paesi europei e nei paesi confinanti della regione, rilevando, sulla base di 32 indicatori, i rispettivi punti di forza e di debolezza, per aiutare i governi nazionali ad individuare le eventuali aree di intervento. Questo strumento informativo, utile come supporto nello sviluppo di politiche di promozione dell’innovazione, è completato anche da un “Quadro di valutazione dell’innovazione regionale” (RIS), che valuta, su un numero più limitato di indicatori, i risultati in materia di innovazione delle 240 regioni dei paesi considerati.

La notizia interessante è che, a fronte di una prestazione europea in termini di innovazione in crescita in tutta l’UE, l’Italia è uno dei paesi in cui si è registrato il maggior incremento rispetto agli anni precedenti, con indici in crescita di oltre 25 punti percentuali dal 2014 ad oggi di cui oltre 20 punti a partire dal 2018.

Innovazione in Europa, la necessità di uno sviluppo bilanciato

I punti di forza del sistema di innovazione italiano

Non capita spesso di essere tra i paesi più virtuosi nelle classifiche europee per cui la notizia merita di essere sottolineata, ma va anche detto che l’aumento del tasso di innovazione registrato in Italia si inserisce, in effetti, all’interno di un costante processo di convergenza in corso nell’Unione Europea, con i paesi con prestazioni più basse in crescita più rapida rispetto a quelli con prestazioni più elevate, tendente a colmare il divario di innovazione tra di essi. Nonostante il rapido incremento, infatti, il nostro paese continua a posizionarsi appena al di sotto della media europea e, dunque, nel gruppo dei paesi considerati “moderatamente innovatori”.

Sulla base dei punteggi registrati, infatti, i paesi dell’UE sono stati suddivisi in quattro gruppi di prestazioni: i leader dell’innovazione, i forti innovatori, gli innovatori moderati e gli innovatori emergenti. La Svezia continua a essere in testa alla classifica dell’innovazione nell’UE, seguita da Finlandia, Danimarca e Belgio – tutti paesi con un punteggio molto superiore alla media UE, mentre Bulgaria e Romania occupano gli ultimi due posti. Senza particolari sorprese, viene rilevato che i gruppi di prestazioni tendono a concentrarsi geograficamente, con i leader dell’innovazione e la maggior parte degli innovatori forti che si trovano nell’Europa settentrionale e occidentale e con la maggior parte degli innovatori moderati ed emergenti nell’Europa meridionale ed orientale.

Quali sono i punti di forza del sistema dell’innovazione italiano? Gli indici su cui siamo risultati significativamente al di sopra della media europea sono: la percentuale di “prodotti e processi innovativi”, “l’impatto sull’occupazione delle imprese innovative” e i livelli di “Sostenibilità ambientale”. Tuttavia, il forte aumento tra del tasso di innovatività nel nostro paese registrato tra il 2019 e il 2021 è dovuto innanzi tutto al forte miglioramento della performance relativa alla “Penetrazione delle reti di telecomunicazioni a banda larga” che ha registrato un aumento di oltre 50 punti percentuali.

Interessante anche entrare nel dettaglio regionale, perché si scopre che sono sette le regioni che si collocano al di sopra della media nazionale, rientrando nella categoria degli “strong innovators”, con l’Emilia Romagna che si piazza al primo posto nazionale e al 76° posto tra tutte le regioni europee. Fanalini di coda invece la Valle d’Aosta e la Calabria, rispettivamente al 179° e 174° posto a livello europeo, superate purtroppo di pochissimo da Sicilia, Puglia e dalle altre regioni dl Meridione. Da segnalare però che, dopo l’Emilia Romagna, i più alti tassi di incremento di innovatività dal 2014 ad oggi li hanno registrati proprio la Campania e la Basilicata, superando così i pur ottimi risultati delle altre regioni del nord Italia.

L’Italia ha finalmente imboccato la strada giusta?

Provando a trarre da questi dati alcune considerazioni, possiamo innanzi tutto dire che, a partire dal 2018, l’Italia sembra aver finalmente imboccato la giusta direzione, puntando con maggior decisione su ricerca e l’innovazione, nella consapevolezza che esse rafforzano la resilienza dei nostri settori produttivi, la competitività delle nostre economie e la trasformazione digitale ed ecologica delle nostre società. Se è vero, d’altra parte, come riportato anche dalla relazione “Science, Research and Innovation Performance of the EU, 2020 (SRIP)” della Commissione europea, che circa due terzi della crescita della produttività in Europa negli ultimi decenni è stata trainata dall’innovazione, è evidente che questo percorso di crescita dell’innovatività nel nostro sistema socio-economico va ulteriormente rafforzato per poter realizzare i programmi del Green Deal europeo e della Digital Compass europea entro il 2030.

Il PNRR, come sappiamo, stanzia fondi ingenti per raggiungere questi obiettivi e non vanno dimenticati i circa cento miliardi a livello europeo già previsti per la ricerca dal programma Horizon per il periodo 2021-2027 ed i circa 60 miliardi stanziati dai Fondi di coesione europea per le aree meno sviluppate. La vera sfida, è ormai chiaro, sarà dunque nel riuscire ad utilizzare nel modo più proficuo questa enorme mole di finanziamenti, indirizzandoli laddove si registrano ancora gap importanti rispetto al resto d’Europa.

Anche in questo senso possono essere utili alcune ulteriori indicazioni fornite dallo European Innovation Scoreboard. Analizzando infatti le aree di maggior debolezza, verifichiamo che le prime tre performance maggiormente negative riguardano:

  • la percentuale di “persone con competenze digitali di base”,
  • la “spesa in R&S da parte della Pubblica Amministrazione”,
  • la “spesa in venture capital”.

I problemi da affrontare con urgenza

Emergono dunque anche da questa indagine come problemi da affrontare prioritariamente, alcuni dei limiti strutturali già evidenziati da altri indici internazionali, quali ad esempio il DESI, e da vari studi sui processi di innovazione e digitalizzazione nel nostro paese, come ad esempio il recente report realizzato dalla Fondazione COTEC insieme alla Banca Europea degli Investimenti su “La digitalizzazione delle piccole e medie imprese in Italia”.

La formazione

Innanzitutto, il problema della formazione, che viene costantemente evidenziato come maggiore handicap a livello nazionale per la realizzazione del processo di digitalizzazione del paese. La cosiddetta “trasformazione digitale” sta determinando la nascita di una complessa struttura di connessioni che coinvolgono le persone e gli oggetti all’interno di un sistema di ambienti “smart”, che va dalle abitazioni, agli uffici, alle città e che comporta la necessità di rivedere l’organizzazione stessa del lavoro e del nostro vivere sociale. Ciò comporta inevitabilmente un impatto sulle politiche della formazione sia a livello pubblico che da parte delle aziende. Nel nostro Paese 7 milioni di italiani in età lavorativa non posseggono ancora le competenze digitali minime e di base, si rende dunque necessario creare nuovi percorsi e modalità di collaborazione tra aziende, scuole ed università per lo sviluppo della ricerca e della formazione tra i giovani, contribuendo così a colmare il divario tra le competenze richieste dal mercato del lavoro e quelle fornite dall’istruzione generale. Allo stesso tempo è urgente una decisa politica da parte delle aziende di “reskilling” e “upskilling”, cioè di aggiornamento digitale, per i lavoratori meno giovani e ancora di più per quelli della pubblica amministrazione. È evidente infatti che sarebbe impossibile pensare di portare avanti una strategia di transizione digitale puntando solo sull’inserimento dall’esterno di competenze nuove, lasciando indietro la grande massa degli attuali lavoratori che costituiscono il vero motore delle aziende e della PA.

La spesa in ricerca e sviluppo

Il secondo problema che emerge dallo Scoreboard europeo, abbiamo detto essere quello della spesa in R&S. in questo caso il quadro è un poco più articolato. L’Italia infatti si colloca ben al di sotto della media dei paesi europei, con una percentuale annua del PIL dedicata alla ricerca e sviluppo attorno all’1,5%, che non raggiunge nemmeno la metà dell’obiettivo generale fissato dalla Strategia Europea 2020, volto ad accrescere gli investimenti pubblici e privati in R&S fino a un livello del 3% del Pil. Tuttavia, il trend degli ultimi anni era stato di costante crescita, con progressi tra i 6 e i 7 punti percentuali negli anni 2018 e 2019. Purtroppo, questo promettente percorso è stato interrotto dalla pandemia di Covid 19, che ha determinato un brusco calo della spesa in R&S da parte delle imprese, di circa 5 punti percentuali sul Pil.

Si contava dunque sull’intervento pubblico per far ripartire gli investimenti delle imprese e recuperare il gap che ci separa dai nostri maggiori competitor europei. Deriva da ciò, oggi, una certa delusione per gli stanziamenti previsti nell’ambito del PNRR sui quali si riponevano le speranze, giacché la Componente “dalla Ricerca all’Impresa” del PNRR, tesa a sostenere i processi per la ricerca, l’innovazione e il trasferimento tecnologico, integrata dalle risorse del programma React EU e dal cosiddetto “Fondo Complementare”, è finanziata complessivamente con soli 12,9 miliardi in un arco di 6 anni. Non sono purtroppo queste le somme che ci consentiranno il necessario salto di qualità e bisognerà dunque contare anche sui fondi nazionali e sugli alti programmi europei per la ricerca, che bisognerà però imparare ad utilizzare meglio che in passato, attraverso la creazione di partnership pubblico/private a livello locale e nazionale ed il rafforzamento degli ecosistemi dell’innovazione, incentivando le collaborazioni tra Università, centri di ricerca, aziende e istituzioni locali.

Le fonti di finanziamento

Terzo problema strutturale del nostro sistema dell’innovazione, che ci penalizza rispetto ai nostri competitors internazionali, è quello delle fonti di finanziamento ed in particolare della bassissima spesa in venture capital. Secondo la Commissione europea questo dato è particolarmente significativo in quanto l’importo del capitale di rischio è un indicatore del dinamismo delle attività di “business creation”, ovvero di quell’insieme di processi in grado di stimolare la trasformazione di un’idea in un business capace di affrontare le sfide del mercato. In particolare, per le imprese che utilizzano o sviluppano nuove tecnologie (rischiose), il capitale di rischio è spesso l’unico mezzo disponibile per finanziare la loro attività e la loro crescita.

In effetti, come evidenziato anche da studi specifici relativi alla digitalizzazione delle aziende, come il già citato Report COTEC-BEI, sebbene il volume di investimenti di venture capital (VC) negli ultimi anni sia stato in aumento e prima della pandemia si fosse registrato un certo dinamismo di investimenti in start-up italiane (400 milioni nel primo semestre 2019), tuttavia, anche volendo tralasciare il paragone con l’Inghilterra, siamo comunque ben lontani anche dai volumi fatti registrare in Germania e Francia, dove i mercati VC sono più sviluppati e attraggono più investimenti, raggiungendo rispettivamente i 5 miliardi e 1,7 miliardi di euro.

Le motivazioni dello scarso ricorso a questa modalità di finanziamento, come noto, sono di vario genere ed in particolare riconducibili alle caratteristiche del sistema industriale italiano nel quale le molte piccole e medie imprese presenti sembrano non avere fiducia o esperienza per rivolgersi a società di venture capital e investitori in capitale azionario anziché alle banche. Purtroppo, però, va detto che quello della disponibilità di credito, anche di tipo bancario, rappresenta spesso un ostacolo per le PMI disposte a digitalizzarsi e ad investire in innovazione. Esiste infatti un problema di corretta valutazione da parte delle banche degli asset immateriali ai quali viene applicato un processo di concessione del credito analogo a quello degli investimenti tradizionali e sui quali vengono richieste garanzie in beni materiali che spesso non possono essere offerte per questo tipo di investimenti. Servirebbe dunque da parte degli istituti bancari la creazione di strumenti finanziari “specifici per la digitalizzazione” e l’individuazione di processi specifici di concessione del credito che stimolino l’innovazione nelle aziende.

Conclusioni

Partendo da questi spunti offerti dall’analisi effettuata dalla Commissione europea è dunque possibile individuare interventi concreti e mirati che ci permettano di proseguire nel positivo trend di recupero di posizioni nelle classifiche europee. Riuscire a scalare la classifica dei paesi a maggior tasso di innovazione è una necessità, non certo determinata da spirito competitivo o da una vuota forma di sciovinismo, ma dalla consapevolezza che introdurre innovazione nelle nostre aziende e nella nostra società in generale, rappresenta una variabile assolutamente strategica della competitività dell’intero sistema produttivo ed economico nazionale. Solo proseguendo su tale strada, infatti, è oggi possibile sviluppare quegli elevati contenuti di conoscenza e di specializzazione nella produzione di beni e servizi, determinanti per accrescere i risultati economici complessivi del nostro Paese e garantire così una ripresa vigorosa e duratura.

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