l'analisi

Intelligenza artificiale, l’asso della Cina nella partita con l’Africa. La “roccaforte” Nigeria

Investimenti in infrastrutture digitali e tecnologie per il riconoscimento facciale al centro delle mire di Xi Jinping sul continente africano. Una strategia ad alta conflittualità che rischia di inasprire la repressione in Paesi con scarsi indici di rispetto dei diritti umani. Le dinamiche in campo e l'”hub” nigeriano

Pubblicato il 19 Gen 2021

Irene Spadaro

Collaboratrice per il Center for Cyber Security and International Relations Studies

recognition privacy videosorveglianza

Tra le molte problematiche etiche collegate allo sviluppo di tecnologie di Intelligenza Artificiale (IA), di facial recognition e di machine learning, una delle più rilevanti è il loro utilizzo per fini di sorveglianza interna. Un fenomeno che pone il tema dei diritti fondamentali al centro della scena della sicurezza digitale.

Già nel 2019, l’Artificial Intelligence Global Surveillance Index (AIGS)[1], elaborato dal Carnegie Institute, ha evidenziato come globalmente almeno 75 paesi su 176 utilizzano tecnologie di IA nella sorveglianza interna, tra cui numerose democrazie liberali[2] (51% dei paesi classificati come liberal democracies). Dal report è inoltre emerso il ruolo della Cina come maggior attore nell’utilizzo, così come nell’export, di queste tecnologie.

E il problema sta peggiorando rapidamente con il covid-19.

Cyber-policy, Cina “campione” di sorveglianza

Fin dalla nascita della Repubblica Popolare Cinese nel 1949 si è assistito alla nascita e al perfezionamento di tecniche di sorveglianza di massa dei cittadini. Con la diffusione di tecnologie ICT, il governo cinese ha istituito una serie di meccanismi volti ad affermare il proprio dominio nel cyberspazio. Inoltre, ha gradualmente integrato tecnologie digitali all’avanguardia con un’ampia infrastruttura fisica di sorveglianza, censura e coercizione. Sotto la presidenza di Xi Jinping, le autorità cinesi hanno represso qualsiasi forma di tentativo sovversivo su Internet, rafforzando il controllo delle informazioni e il Great Firewall cinese con nuove tecnologie. Nel dicembre del 2012, il Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo ha approvato un regolamento che impone a coloro che desiderano utilizzare Internet tramite telefoni cellulari o registrare account di social media, di fornire i propri nomi reali ai provider di Internet. La normativa prevedeva inoltre che le aziende assumessero un ruolo maggiore nella rimozione e nella segnalazione di post offensivi.

Dal punto di vista infrastrutturale, la Cina è l’utente in più rapida crescita al mondo in termini di installazione di telecamere di sorveglianza, una tendenza guidata principalmente dal loro uso nei programmi di sorveglianza del governo. Negli ultimi dieci anni, i progressi tecnologici hanno reso queste telecamere strumenti sempre più efficaci per il monitoraggio dei cittadini. Oggi, il riconoscimento facciale e l’analisi intelligente, la tecnologia che segnala oggetti o eventi di interesse quando vengono rilevati dalla telecamera, stanno diventando caratteristiche standard della videosorveglianza. Il riconoscimento dei volti da parte delle telecamere ha iniziato a diventare una realtà nel 2010, quando i ricercatori hanno raggiunto un punto di svolta nell’elaborazione di un algoritmo di deep learning utilizzato per il riconoscimento vocale e delle immagini.

Queste tecnologie si sono tradotte e integrate nello sviluppo di programma di videosorveglianza noto come Skynet, avviato nel 2005 e concluso nel 2017, che secondo una stima del New York Times[3] nel 2019 era composto da una rete di circa 200 milioni di telecamere di sorveglianza. Su questo programma è stato sviluppato nel 2015 dalla Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma della RPC un progetto denominato “Sharp Eyes”.

In particolare, l’uso di tecnologie di facial recognition in programmi di sorveglianza interna è più massiccio nella regione della Cina dell’Ovest di Xinjiang, che ospita la gran parte della minoranza musulmana Uiguri, al fine di monitorare quelle azioni che possono nuocere all’ordine pubblico o alla sicurezza nazionale[4]. Numerosi report di giornalisti e organizzazioni che si occupano di diritti e libertà hanno evidenziato come tutti gli adulti Uiguri che vivono in questa regione debbano sottoporsi alla raccolta di numerosi dati biometrici, incluso DNA, gruppo sanguigno, registrazione di voce e scan facciale, per la costruzione dell’Integrated Joint Operations Platform (Ijop), un database regionale. L’Ijop è integrato con tecnologie di deep learning, che analizzano e in tempo reale i feed video, costruendo un archivio per identificare comportamenti sospetti e prevedere azioni dannose per la sicurezza nazionale, imparando da essi. Alcune delle azioni che possono attivare queste tecnologie di includono vestirsi in modo islamico e non partecipare alle cerimonie nazionalistiche dell’alzabandiera.

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Riconoscimento facciale anti-Covid

Durante la pandemia da Coronavirus, la compagnia SenseTime ha annunciato alla fine di febbraio che le sue telecamere erano in grado di riconoscere i volti basandosi esclusivamente sulle parti limitate del viso che un portatore di maschera lascia visibili. Le telecamere di sorveglianza dotate di software di riconoscimento facciale erano già utilizzate per identificare le persone sospettate di aver interrotto la quarantena.

Secondo l’AI Global Surveillance (AIGS) Index, la Cina è uno dei principali attori della sorveglianza AI in tutto il mondo, attraverso la fornitura di queste tecnologie tramite aziende nazionali – in particolare Huawei (che da solo fornisce almeno 50 paesi globalmente), Hikvision, Dahua e ZTE – a 63 paesi, 36 dei quali sono parte della Belt and Road Initiative (BRI) cinese. La vendita di questi prodotti tecnologici è spesso accompagnata da prestiti agevolati per incoraggiare i governi ad acquistarle, specialmente in paesi che altrimenti non ne avrebbero accesso, come Kenya e Uganda in Africa.

Africa, primattore della Belt and Road Initiative

La Belt and Road Initiative (BRI) cinese, a volte indicata come la Nuova Via della Seta, è uno dei progetti infrastrutturali più ambiziosi mai concepiti, tra cui strade, ferrovie, telecomunicazioni, gasdotti energetici e strutture portuali di cui specialmente paesi sottosviluppati o in via di sviluppo necessitano. Lanciata nel 2013 dal presidente Xi Jinping, la vasta raccolta di iniziative di sviluppo e investimento si estende dall’Asia orientale all’Europa, espandendo in modo significativo l’influenza economica e politica e il soft power della Cina a livello mondiale.

A marzo 2020, 138 paesi hanno aderito alla Belt and Road Initiative, di cui 38 paesi dell’Africa subsahariana, rendendo l’Africa il continente con più paesi presenti nella BRI. Il presidente cinese Xi Jinping ha lanciato l’iniziativa nel 2013 con un budget iniziale di 900 miliardi di dollari per il suo sviluppo, ma entro il 2020 il finanziamento del progetto è stato stimato in 1,3 trilioni di dollari. L’iniziativa sottolinea cinque priorità principali: coordinamento delle politiche; connettività dell’infrastruttura; commercio senza ostacoli; integrazione finanziaria; e collegamento delle persone.

Se da un lato gli investimenti in infrastrutture apportano benefici in termini di sviluppo, dall’altro vi sono numerosi dubbi sulla sostenibilità economica, a causa del debito che i governi accumulano per ripagare questi enormi progetti infrastrutturali. Inoltre, queste politiche sono spesso accompagnate da accordi su importazione di manodopera cinese per i lavori di costruzione delle infrastrutture, fattore che crea ostilità nell’opinione pubblica e disoccupazione, specialmente in paesi sottosviluppati o in via di sviluppo come numerosi paesi africani.

Gran parte della politica estera cinese di ridefinizione degli equilibri globali si fonda sulla politica estera in Africa, dagli aiuti erogati durante la Guerra Fredda fino ai progetti parte della BRI. Ciò garantisce un parziale allineamento dei paesi africani alle politiche cinesi, anche in forum internazionali, e special partnership commerciali, ma anche l’allontanamento del continente dalla sfera di influenza occidentale. Anche se l’adozione del modello di governance cinese – politica ed economica – da parte dei paesi africani non è ancora emerso come fenomeno, l’economia e politica, ideologia e strategia della politica cinese in Africa si interconnettono e rafforzano, offrendo un sistema alternativo al liberalismo democratico occidentale.

La Digital Silk Road in Africa

La Digital Silk Road (DSR) è stata introdotta nel 2015 da un white paper ufficiale del governo cinese, come componente della Belt and Road Initiative (BRI) di Pechino, che mira a migliorare la connettività digitale globale e ad agevolare l’ascesa della Cina come superpotenza tecnologica globale. La DSR prevede investimenti esteri in infrastrutture digitali e investimenti nazionali nello sviluppo di tecnologie avanzate dual use, in particolare l’intelligenza artificiale, il quantum computing e la tecnologia satellitare globale, e nelle smart cities. È inoltre prevista la creazione di zone di libero scambio digitali, integrate con l’espansione delle piattaforme di pagamento digitale cinesi all’estero. La DSR è non solo economica, ma anche politica, in quanto mira ad accrescere il soft power cinese nella cyber-arena internazionale ed esportare la propria visione della governance del cyberspace nel contesto di istituzioni multilaterali e impegno diplomatico, che è principalmente incentrata sulla promozione del principio della cybersovereignty.

L’Africa presenta un grande potenziale di sviluppo nell’economia digitale. Come sottolineato nel Forum sulla cooperazione Cina-Africa del piano d’azione di Pechino (2019-2021), Cina e Africa “condivideranno l’esperienza nello sviluppo della comunicazione dell’informazione, coglieranno l’opportunità offerta dall’economia digitale e incoraggeranno le aziende a portare avanti la cooperazione nel settore delle TIC infrastrutture, Internet e l’economia digitale”.

Come già notato, la Cina è il principale attore nella costruzione di infrastrutture digitali essenziali e nella vendita di tecnologie per la sorveglianza AI in Africa. Huawei, per esempio, ha costruito il 70% del network 4G del continente, finanziato con prestiti di banche cinesi. Inoltre, le sue società hanno fornito hardware per le telecomunicazioni, tecnologie avanzata di riconoscimento facciale e strumenti di analisi dei dati a una varietà di governi con scarsi indici di rispetto dei diritti umani.

Riconoscimento dei volti dalla pelle scura

In questo senso, la società di Guangzhou CloudWalk – accusata di essere coinvolta nella produzione di tecnologie di sorveglianza della popolazione Uigura – ha raggiunto nel 2018 un accordo con lo Zimbabwe per la vendita di software di riconoscimento facciale e sistemi di monitoraggio, ai fini di identificazione e soppressione di minacce all’”ordine pubblico”. L’accordo prevede inoltre l’invio dei dati raccolti a CloudWalk per permettere di migliorare i software di intelligenza artificiale nel riconoscimento di volti con colore della pelle più scuro. Allo stesso modo, Uganda e Zambia hanno raggiunto accordi commerciali con Huawei per la fornitura e l’installazione di apparecchiature di sorveglianza nelle città. Queste iniziative sollevano preoccupazioni sul rispetto dei diritto umani, in particolare per le opposizioni politiche, in paesi che vengono classificati dal Freedom House nel Global Freedom Score come “not free” (Uganda) e “partially free” (Zimbabwe e Zambia).

Le relazioni bilaterali contemporanee tra Cina e Nigeria affondano le loro radici nel 1971, anno in cui la Repubblica Popolare Cinese Comunista ottenne il diritto di posto nel Consiglio di sicurezza dell’ONU e la Nigeria raggiunge il primo decennio di indipendenza post coloniale.

Riconosciuta la centralità geostrategica della Nigeria, la Cina ha lavorato negli ultimi decenni per stabilire una forte relazione economica e diplomatica con il paese. Ad oggi, la Cina è il primo paese esportatore in Nigeria, ha oltre 200 aziende che operano nel paese e molteplici infrastrutture vitali per il paese sono gestite da queste aziende (China Civil Engineering Construction Corporation per il sistema ferroviario, China National Petroleum Company – CNPC – e la China National Petroleum and Chemicals Corporation – CNPCC – nei giacimenti petroliferi).

Nigeria super-partner della Cina in Africa

Uno dei maggiori esempi dell’asimmetricità delle relazioni tra i due Stati è l’accordo tra la China National Overseas Oil Company (CNOOC) e la Nigerian National Petroleum Corporation sul giacimento petrolifero Akpo, in cui la CNOOC ottiene il 70% del profitto mentre l’NNPC il 30%. Un altro punto che caratterizza come asimmetriche le relazioni commerciali è che le esportazioni cinesi in Nigeria rappresentano circa l’80% del volume totale degli scambi bilaterali. Tutti questi accordi rendono la Nigeria il secondo partner commerciale della Cina nel continente Africano, dopo il Sudafrica, e questo ha spinto i due Paesi a stipulare uno scambio di valuta per facilitare le relazioni commerciali.

Il lato nascosto di questa situazione è che, secondo il Nigeria Debt Management Office (DMO), a marzo 2020 il debito nigeriano nei confronti della Cina ammontava a $3,121 miliardi. L’erogazione di questi fondi sottostà a 3 condizioni generali: rendimenti infrastrutturali, definizione della sostenibilità del debito con l’ufficio del Fondo Monetario Internazionale e ottimizzazione dei prestiti allineandoli agli obiettivi di sviluppo del governo nigeriano.

La Nigeria è stata classificata dal Freedom House nel Global Freedom Score come “partially free” e si è posizionato 115° su 180 paesi nel World Press Freedom Index, che evidenzia come “la campagna elettorale in cui il presidente Muhammadu Buhari ha ottenuto un altro mandato nel febbraio 2019 è stata contrassegnata da un livello di disinformazione senza precedenti, soprattutto sui social media, in gran parte opera di funzionari all’interno dei due principali partiti”.

Il ruolo dei social media nella definizione di opinioni politiche è anche evidenziato dagli episodi di campagne attiviste portate avanti attraverso queste piattaforme, come “#BringBackOurGirls” nel 2014 e “#EndSARS” del 2020. Quest’ultimo è stato un movimento sociale decentralizzato caratterizzato da una serie di proteste di massa contro la brutalità della polizia in Nigeria e, nello specifico, della Squadra Speciale Anti-Rapina (Special Anti-Robbery Squad – SARS), nota unità della Polizia con una lunga storia di abusi. Le proteste contro la SARS e la loro diffusione online sono state principalmente portate avanti dai giovani nigeriani. Considerando che la popolazione nigeriana nel 2019 era composta per il 43.69% da persone di età 0-14, è probabile che questo mezzo di protesta e diffusione di informazioni diventerà sempre più importante nella definizione dell’opinione pubblica interna.

I social nella cyber-warfare in Africa

Non a caso, il colonnello delle pubbliche relazioni dell’esercito e direttore ad interim, Sagir Musa, ha annunciato nell’ottobre 2020 il lancio della prima esercitazione di cyber warfare in Africa progettata per identificare, monitorare e contrastare la propaganda negativa nei social media e nel cyberspazio – operazione nominata Crocodile Smile VI1 – che ha sollevato dubbi e preoccupazioni interne e internazionali su possibili risvolti di censura.

Il numero di utenti di internet attivi in Nigeria nel 2019 ammontava a 129 milioni, rendendola il primo paese in Africa per numero di utenti – a paragone il secondo, l’Egitto, contava 49.2 milioni – e tra i primi globalmente. Secondo l’ITU global cyber index 2018, la Nigeria è 5° nel continente africano e 57° nel mondo. Questi dati sottolineano lo status della Nigeria nel cyberspazio e le conseguenti opportunità e sfide. Riguardo queste ultime, la Nigeria è uno dei paesi più colpiti dal cybercrime e la legge contro il crimine cyber introdotta nel 2015 non ha sortito gli effetti auspicati: Deloitte Nigeria, in un report del 2020, ha infatti osservato un picco di attacchi di phishing, Malspam e attacchi di ransomware, in cui gli attori utilizzano il COVID-19 come esca per impersonare brands, fuorviando così dipendenti e clienti.

Tecnologie di sorveglianza AI permetterebbero al Paese un maggiore e più efficace controllo della criminalità online, così come il monitoraggio di gruppi terroristici interni ma anche, basandoci sulle considerazioni fatte fino a questo momento, lo sviluppo di programmi di sorveglianza interna ai fini di repressione e controllo. Inoltre, il ruolo della Cina nel continente africano e la centralità della relazione bilaterale tra Cina e Nigeria, mette il colosso asiatico al primo posto come possibile provider di tecnologie di riconoscimento facciale e machine learning, utilizzabili in programmi di sorveglianza interna.

Bibliografia

  1. Feldstein, S. (2019). Artificial Intelligence Global Surveillance Index. Carnegie Institute.
  2. L’indice categorizza i regimi politici mondiali in: autocrazie chiuse, autocrazie elettorali, democrazie elettorali e democrazie liberali.
  3. Mozur, P., April 14, 2019. One Month, 500,000 Face Scans: How China Is Using A.I. to Profile a Minority. New York Times.
  4. Shahbaz, A., 2018. The Rise of Digital Authoritarianism. Freedom House

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