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Julian Assange, il crimine è dimenticare: qui le radici della nostra libertà

Nessuno parla più di Julian Assange, passato nell’arco di un decennio dall’essere eroe del nostro tempo a reietto, risucchiato – lui come molti altri desaparecidos dalla cronaca – in quella schizofrenia dell’informazione esaltata dai social. Come siamo arrivati a questo punto? E sappiamo cosa stiamo rischiando?

Pubblicato il 07 Ott 2020

Alessandro Longo

Direttore agendadigitale.eu

Rocco Panetta

Partner Panetta Studio Legale e IAPP Country Leader per l’Italia

Julian Assange

Julian Assange, chi è costui? Già: possiamo ben sentire giovani e meno giovani pronunciare la famosa manzoniana frase, senza distogliere gli occhi dal sempiterno rullo di TikTok o Instagram.

E, ciò che è peggio, i social sono in buona compagnia. Anche se in questi giorni si sta svolgendo quello che molti hanno definito il “processo del secolo”, la resa dei conti nel controverso caso Wikileaks, quasi nessun giornale e media, sembra interessarsene. E guardate che non sono solo i media italiani: anche in Australia, terra natale di Assange, c’è la stessa lamentela.

Eppure dall’esito della vicenda dipende molto del loro futuro. In bilico, ci sono alcuni capisaldi della democrazia e svariati diritti civili.

Perché la storia di Assange è importante

Come siamo arrivati a questo punto, a dimenticare Assange e un po’ noi stessi

Perché allora si è arrivati a questo punto di indifferenza? Di “qualunquismo”, si sarebbe detto un tempo, in cui l’impegno politico di tutti era considerato condizione ottimale per la tenuta delle istituzioni.

Perché Julian Assange e la sua vicenda processuale sono diventati parte di quella lista corposa dei desaparecidos dalla cronaca, nazionale ed internazionale, assieme ai Panama Papers e dintorni? Scandali sessuali o di partito, soprusi di ogni sorta, cronaca nera e rosa, pandemie e perenni campagne elettorali, conflitti d’interesse e abusi d’ufficio.

Un elenco di notizie “bomba”, come le avrebbe definite Maurizio Mosca, il cui clamore del lancio e della successiva deflagrazione ha via via lasciato il posto ad un silenzio irreale. Quante sono ormai le news che, esattamente come avvenuto per i documenti di Wikileaks, vengono pubblicate da tante autorevoli testate come in una sorta di sprint da centometristi, dominando le prime pagine e le homepage per alcuni giorni, magari settimane, per poi finire sconsolatamente dimenticate, nonostante siano ancora legate ad eventi tutt’altro che conclusi. Mi sono chiesto più volte perché tutto ciò accade e ogni volta ho trovato una risposta diversa.

Ci sono i lettori, assuefatti divoratori di informazioni, generalmente restii all’approfondimento e costantemente alla ricerca di nuove e più superficiali sollecitazioni mediatiche. La fenomenologia di like e commenti, il dibattito da bar al bancone di Twitter, l’odio da tastiera richiedono sempre del materiale nuovo sul quale esprimersi. Cosi la notizia diventa subito obsoleta e sa di stantio.

Non ci si interessa alle notizie per sapere come andranno a finire, come in una sorta di matrimonio intellettuale, piuttosto l’approccio preferito è quello “da una lettura e via”, addirittura in alcuni siti di giornali è segnato il tempo di lettura in minuti e secondi di un articolo, promettendo cosi di farla breve e veloce per non annoiare il lettore!

Ci sono poi i mass media. Giornali e telegiornali affamano e al tempo stesso sfamano la brama informativa dei lettori. La realtà è certamente complessa, sarebbe impossibile narrarla tutta e pure bene. Nondimeno, ciò che spesso si crea è, appunto, un diabolico regime bulimico-mediatico-alimentare. Una dieta di notizie sproporzionata e irregolare, dove per giorni e giorni ci viene somministrata fino alla nausea una medesima vicenda che poi, da un momento all’altro, è sostituita da altro. Il giornalismo, e in particolare quello investigativo, continua a svolgere la propria funzione di grimaldello per la verità dietro ai fatti, tuttavia, una volta scassinata la porta, spesso non riesce più a trovare l’uscita, finendo a servire alla tavola della furia mediatica alla Twitter.

Social media e schizofrenia dell’informazione

C’è chi in questo vuole vederci complotti e macchinazioni per distrarre l’opinione pubblica dai “veri problemi” o per compiacere il “potere forte” di turno. Può darsi, ma credo piuttosto che si tratti del naturale frutto di ciò che abbiamo seminato, il retaggio del nostro tempo. Un sistema – che affonda le proprie radici in un percorso di formazione di cittadini e giornalisti non più al passo con i tempi – dove la corsa al clickbait, più o meno spinto, ha scosso l’equilibrio tra qualità e velocità nella produzione di notizie e dove la schizofrenia dell’informazione ha trovato nei social media un terreno in cui germogliare rigogliosa.

I social media, in effetti, hanno cambiato tutto, ogni ambito della nostra esperienza quotidiana. E hanno trasfigurato il modo di fare informazione e di informarsi. Si tratta di una nuova dimensione, dove tempo, sostanza e forma seguono regole proprie, diverse da quelle a cui eravamo un tempo abituati. Nessuno lo ha voluto (anche se forse qualcuno ci sperava), eppure questa è la nuova realtà ed occorre che tutti, lettori e giornalisti, inizino a confrontarcisi seriamente. Le esperienze e l’impegno in questa direzione non mancano. Si pensi ai progetti di fact-checking come a quelli di slow journalism. Tutte iniziative lodevoli e che possono aiutare ad arginare quello che, in definitiva, è il pericolo che più mi spaventa.

La perdita del passato. Il consumismo estremo di notizie, l’esaltazione dell’immediatezza sui social, rischiano di mandare in fumo gli archivi storici, il ricordo di ciò che è stato, nel secolo scorso così come nel 2010, quando la bomba Wikileaks esplodeva sulle pagine di cinque grandissimi giornali.

Ma se perdiamo il passato perdiamo un po’ noi stessi. Perché (anche?) di questo siamo fatti. Passato che si protende sul presente verso il futuro, direbbero i padri esistenzialisti.

Più banalmente, senza approfondimento, senza tenere stretto il passato nelle nostre menti, siamo più vulnerabili al’erosione lenta che il potere può fare dei nostri diritti. Un tocco alla volta, come la parabola della rana bollita lentamente.

La parabola di Julian Assange e quella delle biblioteche

Nel caso di Wikileaks, tuttavia, dietro alla più grande operazione di disvelamento continuato e progressivo di centinaia di migliaia di files dal contenuto classificabile come riservato, giace la vicenda di un uomo che nell’arco di un decennio è passato dall’essere eroe del nostro tempo a reietto della società, pronto ad essere sacrificato per poter tornare al centro, per qualche ora, dell’attenzione mondiale. Un eroe “semidio” dalle fattezze “asgardiane” della teologia Norrena declassato a fuggitivo recluso e mortificato nel corpo e nello spirito.

Qualche giorno fa ho visitato l’Oratorio dei Girolamini a Napoli, un monumento nazionale, capolavoro del rinascimento napoletano, nella cui maestosa e sterminata biblioteca Giambattista Vico, prima, e Benedetto Croce, poi, si sono formati e ciò mi ha spinto a questa riflessione. Pochi oggi frequentano le biblioteche. Ancora quelli della mia generazione, quando dovevano scrivere un articolo, una nota, la tesi di laurea, un saggio, un libro, andavano in biblioteca. Oggi c’è la rete, che tra le altre cose svolge perfettamente il ruolo che in passato svolgevano le abbazie, i conventi, gli oratori con le loro biblioteche, luoghi in cui passato e presente venivano custoditi assieme, sebbene poi filtrati dall’etica cattolica ad uso di pochi privilegiati.

Conclusioni

Le biblioteche ieri e la rete oggi sono un po’ come la Stanza Delle Necessità di Harry Potter, un luogo in cui tutto viene custodito e che magicamente si presenta nel momento del bisogno. Ieri entrando in Chiesa e frequentando conventi ed oratori, oggi navigando in Internet. Anche la storia di Assange è lì, nella Stanza delle Necessità, andiamola a trovare, studiamola e teniamo viva quella narrazione. Però attenzione, non ci è dato sapere cosa sia successo ad Hogwarts dopo che la stanza è andata in fiamme. Il mio consiglio è allora quello di fermarci prima che l’incendio scoppi anche per noi.

Non dimentichiamo dunque Assange, non abbandoniamo il servizio civile del giornalismo investigativo, non trasformiamo il patrimonio informativo, gli archivi, le biblioteche in un polveroso magazzino. Riscopriamo la militanza informativa, ricordandoci che dietro ogni storia raccontata ci sono donne e uomini.

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