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Kentucky Route Zero, il videogame dell’assurdo che diventa esercizio di pratica filosofica

Kentucky Route Zero è la prova che i videogame siano alta letteratura e avanguardia. Il gameplay, in questo caso, è esercizio di pratica filosofica. Il viaggio che compiamo riguarda anche la nostra interiorità, ci porta a riconoscerci nell’assurdo e nella tragicità amara del modo di vivere odierno

Pubblicato il 21 Gen 2021

Lorenza Saettone

Filosofa specializzata in Epistemologia e Cognitivismo, PhD Student in Robotics and Intelligent Machines for Healthcare and Wellness of Persons

kentucky

Kentucky Route Zero è un autentico video game dell’assurdo. Molti sono i temi che intrecciano la vicenda e che volutamente ci disorientano in questo viaggio verso la Route Zero, al 5 di Dogwood Drive. Chiare sono le critiche alla società odierna, tecnocratica e altamente burocratizzata, allo sfruttamento e alle ingiustizie del capitalismo, mentre i riferimenti alla poesia e all’arte in generale compaiono ovunque, quali baluardi di umanità e di connessioni autentiche. In realtà non c’è modo di comprendere se spazio e tempo siano reali, o se tutto quanto sia frutto di una simulazione digitale.

Secondo Jorge Luis Borges sappiamo che la realtà è illusione ed è per questo che la accettiamo facilmente. La nostra esistenza è un labirinto di sogni che riguardano altri sogni, all’infinito. Ogni volta che ci svegliamo da uno di essi, non ci destiamo mai davvero. Dovremmo risalire al primigenio, in questa catena infinita di pensieri e, per sempre, di pensieri di altri pensieri. In pratica è come riuscire a scovare il primo “terzo uomo” di Aristotele e avventurarci oltre la “trinità”. “La strada all’indietro è interminabile e morirai prima di esserti svegliato”[1]: è per questo che dovremmo rinunciare a “decifrare o a vendicare, accettando solo il labirinto e la prigione”, accettando il fenomeno che ci appare per primo, benché sappiamo essere un sogno. Nell’avventura grafica sviluppata da Cardboard Computer analogamente non possiamo far altro che proseguire il gioco, esplorando i meandri dello spaesamento. Ci pare di allontanarci sempre più dalla meta e dalle nostre vaghe convinzioni intorno ad essa, ma, forse, è proprio questa la via: come diceva Baudelaire, “solo raggiungendo l’ignoto, finalmente potremo trovare qualcosa di nuovo”.

La meta è l’inizio

In Kentucky si ha l’impressione che tutto sia circolare e privo di senso. È un incubo dove ogni elemento è importante nell’immediato, ma, a decifrarlo, torna evanescente e privo di valenza per la finalità del gioco: la consegna, l’ultima, che il protagonista, Conway, deve effettuare per conto dell’antiquariato dove lavora. Non è un caso che si tratti dell’ultima corsa per un negozio di oggetti usati, e quindi di “memorie materiali”. La proprietaria del negozio soffre di demenza, non ricorda quasi più nulla della sua vita e perciò le è inevitabile cessare l’attività: nulla ha più passato, né lei né gli oggetti che vende. Il destino, diceva Borges, finisce per identificare gli individui. Quello che accade loro, nel tempo, è ciò che la gente chiama identità. “Un uomo è, alla lunga, ciò che lo determina”[2]. La memoria, tuttavia, è quasi sempre confusa. I ricordi sono annebbiati, fatti di rimproveri, gente scomparsa, rimpianti, eppure quasi nessuno pare disposto ad abbandonarli. Probabilmente è questo immobilismo che impedisce alle persone di svoltare, iniziando dalla Strada Zero, la quale, più che meta, è un nuovo inizio. Anche Conway, in realtà, pare non voler concludere quella consegna, non intendendosi liberare del suo passato-futuro e cioè del suo “eterno ritorno”.

Ogni viaggio deve essere sempre motivato da un obiettivo da raggiungere. Pure l’esistenza in quanto navigatio vitae ha bisogno di una finalità. HellBoy, nel film di Guillelmo del Toro, non può essere riportato in vita solo dalla Morte, ha anche bisogno di un motivo per vivere.

I personaggi di Kentucky sembrano tutti automi, intrappolati nella routine e nelle trame del neoliberismo, tra scadenze e contratti di lavoro, apparentemente non scioglibili. L’individualismo isola le persone, impedendo loro di condividere il coraggio per cambiare. La Route Zero rappresenterà la possibilità di incominciare una nuova vita, finalmente alla luce del sole, attraverso la riedificazione di una comunità di arte e relazioni vere, in un misto tra i Fratelli della vita comune e una aggregazione hippy.

Nell’atto quinto la maggior parte dei personaggi incontrati si ritroverà in quella che è la Route Zero, priva di strade in entrata e in uscita. Vi si accede da una scala oppure volando. Pare che gli antenati che costruirono il villaggio (il “Popolo del Nulla”) vollero che il “pueblo” fosse una sorta di isola protetta. Giunsero in sella ai loro cavalli, liberandoli non appena si insediarono nel nuovo paese. Gli abitanti vissero di arte, senza istituzioni. Queste ultime, per loro natura, fissano per iscritto tutto, anche il Nulla, cioè il divenire dell’esistenza, e, in nome di quello, comandano, creando ingiustizie e diversità. È così che nascono le regole sociali. Ora, però, per i personaggi del videogame è finalmente possibile sotterrare il passato, compreso quello degli avi, di cui sono deceduti gli ultimi cavalli liberi. La fossa è significativamente scavata tenendo conto della misura degli umani: due metri. Ron, giustamente, si domanda se debba attenersi a quella misura e se lo faccia per rispetto o perché, seppellendo i cavalli, si stia in realtà sotterrando qualcosa di loro stessi. Nel villaggio si aggirano ancora i fantasmi del Popolo del Nulla. Le figure si accalcano un’ultima volta alla cerimonia funebre, per poi lasciare il posto definitivamente alla nuova meta della neonata comunità.

Il videogioco come teatro dell’assurdo

Il videogioco è vero e proprio teatro dell’assurdo. La caratteristica principale di questo genere drammaturgico del Novecento è il rifiuto della consequenzialità, logica e temporale. I drammaturghi volevano descrivere la realtà, ma quella degli esistenzialisti e soprattutto quella di Sartre. Gli eventi non si susseguono in modo lineare e da essi non si intravede alcuna possibilità di risolvere le matasse dei problemi. C’è una giustapposizione di dialoghi privi di senso, pause, ripetizioni, avvenimenti connessi solo da un vago stato d’animo e dalla certezza che tutto sia assolutamente casuale e, quindi, non dominabile dal metodo e dal linguaggio. Anche le relazioni, in questo contesto, sono vaghe. Gli individui sono anonimi, alienati e oppressi dall’angoscia. Tutto questo lo si ritrova in Kentucky Route Zero, in cui ogni evento non sbroglia quello precedente, ma si aggiunge solo per disorientarci. Si procede per inerzia, tra le scene dei cinque atti, dove le persone vivono trascinandosi dietro lutti e debiti, immerse nelle tenebre e nell’assenza di un futuro. Grazie all’interattività propria del videogioco, poter cambiare l’ordine delle sequenze, scegliendo diversi percorsi di dialogo, ben si confà al teatro dell’assurdo. Kentucky Route Zero ci convince di come non abbia alcun valore la catena causale degli addendi, la somma non muta il nonsense proprio della diegetica.

Che quest’avventura punta-e-clicca sia anche teatro lo si può intuire da uno degli preludi, uno dei migliori, a mio avviso. Siamo in un bar che vende solo il whisky della zona, eppure, se ci voltiamo, ci rendiamo conto che si tratta della scena di un teatro indipendente, con tanto di commenti del regista, intervallati dalle critiche dei giornali. Il barista nella scena finge di essere stato in vacanza. Dalle sue contraddizioni è chiaro si tratti di una menzogna. I personaggi della storia non hanno un futuro, vivono solo di passato e di debiti con esso, pertanto come potrebbero cambiare la routine? Se ci determinasse solo quello che è avvenuto, non potremmo iniziare alcunché, niente di nuovo, nessuna iniziativa: il destino coinciderebbe con l’eterno ritorno che ci siamo scelti. Quella sera una cliente sta aspettando i suoi genitori, che come sempre si ritroveranno al bar, aspettandosi che sia la figlia a pagare le loro rimozioni. Quella volta non sarà così, la ragazza ha intenzione di pensare a se stessa e non occuparsi più dei genitori e dei loro debiti. Il barista, tuttavia, non potrà aspettare che nessuno paghi il conto: i fornitori hanno bisogno di un rimborso e così, alla fine, si verrà a scoprire che il titolare aveva già firmato un contratto, vendendo i debiti dei clienti direttamente alla distilleria. Più avanti capiremo cosa significa “essere in debito” con la fabbrica di whisky.

È indicativo, poi, che la distilleria sia localizzata sotto una vecchia chiesa abbandonata, insomma, non è un caso che i due luoghi coincidano: sia l’alcol sia Dio servono spesso a convincerci che ci sia una qualche salvezza, ma da cosa? Spesso dal lavoro e dai debiti, ingranaggi dello stesso sistema. Addirittura lavorare nella distilleria è un debito da saldare.

Conway, per il quale la consegna dell’antiquariato sarebbe stato il suo ultimo incarico, sarà obbligato dal recruiter a firmare un contratto per trasportare whisky ai venditori al dettaglio. Non potrà declinare quell’offerta, poiché dovrà ripagare il tempo che il procacciatore di risorse umane ha speso nell’accompagnare lui e Shannon nella fabbrica. Conway, dunque, firmerà il contratto di lavoro per saldare il suo debito con l’azienda. Così, pian pano, lo vedremo trasformarsi in scheletro: la divisa di chi lavora per la distilleria.

Anche la caratterizzazione dei personaggi si inserisce perfettamente nella filosofia del teatro dell’assurdo, in particolar modo nella visione di Samuel Beckett. L’artista irlandese ammise di non conoscere i suoi personaggi meglio di qualunque lettore accorto. Quello che viene rappresentato è quello che l’autore sa. Anche gli sviluppatori del videogioco probabilmente non potrebbero offrirci più dati di quelli che già ci rendono noti nel game play. È come se ci rivelassero l’impossibilità di fare ermeneutica e di approfondire gli eventi. Non dobbiamo illuderci: nessuna ipotesi di senso è formulabile. Non si può dire nulla e nemmeno si può fingere di concludere alcunché. “Non so in quale spirito l’ho scritta. Non so nulla dei personaggi se non ciò che dicono, ciò che fanno e ciò che succede loro. Del loro aspetto ho dovuto indicare quel poco che ho potuto intravedere. La bombetta per esempio”, diceva Beckett a proposito di Waiting for Godot. Allo stesso modo anche il design di Kentucky Route Zero è essenziale, ridotto all’osso. Sono noti solo gli abiti e il look, mentre i tratti del volto sono volutamente omessi, come se fossero tutti quanti la stessa persona. La prosopagnosia della società di massa si fonda sulla sostituibilità delle parti, nell’opinione pubblica come al lavoro; la “gente” non deve metterci la faccia.

Dentro-fuori

Nella più famosa delle opere di Samuel Beckett il suo Godot rappresentava varie entità: Dio (di cui il suffisso God potrebbe essere un indizio) o qualunque altra cosa ci ponga nella condizione dell’attesa, come la fortuna e la morte. Non si sa cosa sia Godot, ma sappiamo che c’è, altrimenti perché aspettarlo? Conway, più che attendere passivo che sopraggiunga qualche misterioso personaggio, viaggia ininterrottamente al fine di concludere la sua missione verso la Rotta Zero e il 5 di Dogwood Drive. Sembra che quell’indirizzo sia scomparso tra i meandri dell’autostrada 65, eppure, se qualcuno ha destinato la merce presso quel nome e molti, lungo il cammino, ci attestano l’esistenza di un modo per arrivarci, la Route Zero non è una falsa indicazione o un lapsus calami.

Ogni personaggio ci rimanda a qualcun altro che, a sua volta, ci testimonia che altri ancora sanno dove e con chi arrivarci. Probabilmente la colpa è dell’amministrazione, illogica quanto la burocrazia con cui siamo abituati a trattare. Ad un certo punto, Conway, che nel frattempo aveva cominciato a radunare compagni di viaggio, tra cui un cane con cappello di paglia (nel mio videogioco si chiamava Homer, come l’Immortale di Borges, in effetti) e una figlia di immigrati esperta di circuiti, arriva all’Ufficio degli Spazi Reclamati. È un palazzo di cui non si capisce se sia al chiuso o all’aperto. Qui Conway e la compagna, Shannon, sono rimpallati tra i vari piani, alla ricerca di risposte che nessuno possiede, come del resto accade in tutte amministrazioni. Appare assolutamente normale che in uno degli uffici ci siano degli orsi al lavoro.

Nonostante innumerevoli sali-scendi, non sarà ancora possibile sapere dove si trova l’indirizzo. Tutto il lavoro è stato computerizzato e siccome Dogwood Drive condivide il nome con altre strade, il software non è in grado di gestire l’ambiguità, la “collisione di nomi”. È necessario avviare una pratica.

Anche in uno degli scali sul fiume Echo, nel quarto capitolo, la meccanizzazione del centralino ha causato diversi problemi. Il computer è stato adattato sul sistema telefonico precedente, per risparmiare alcune componenti senza sostituire tutto quanto. Il vecchio impianto era calibrato sull’uomo e il nuovo computer non riesce a comprendere l’attesa tra squillo del telefono, tempi di reazione umani e risposta, pertanto c’è bisogno di un ultimo dipendente umano, Poppy, che offra i suoi tempi, il suo ritardo, perché il sistema non si blocchi, insomma, come ammette lei stessa, “sta lavorando per il suo rimpiazzo”. È il computer che parla ai clienti, l’operatore umano inoltra solo le chiamate, intanto un’altra macchina misura tutti i tempi dell’essere umano, per poterne farne a meno un giorno, ma fino ad ora non è ancora stato così. Ci si domanda, allora, a che servano le misure che la macchina sta collezionando, se Poppy non viene sostituita dal computer.

La strada spesso si costruisce ai piedi dei personaggi, il che nutre in noi la convinzione che nulla abbia consistenza reale e che il percorso sia qualcosa che generiamo noi, strada facendo. Come ho anticipato, uno dei temi del videogioco è l’identità tra dentro e fuori. Come in Berkeley per il quale esistono solo le idee contenute nella nostra mente, anche in Kentucky Route Zero sembra che tutto quando sia frutto di un sogno, magari indotto da un computer che si nutre di muffa, Xanadu (nome che ci rimanda a uno dei primi programmi utilizzante ipertesti). Il software pare non funzionare bene a causa dell’intervento degli “Stranieri” i quali avrebbero sabotato i circuiti. Al suo interno ci si muove in modalità punta-e-clicca, come fosse un videogioco nel videogioco. Non solo, i fatti che avvengono nella simulazione sono identici a quelli nella “realtà”, tanto da non comprendere che cosa generi chi, quale sia l’archetipo e quale la copia.

Il ruolo fondamentale dell’arte

Un ruolo fondamentale è rivestito dall’arte. Ovunque lungo la strada troviamo musei. Viene esibita qualunque stranezza, comprese televisioni o altri oggetti tecnologici. Viene da domandarsi chi potrebbe venire in vacanza lì, fermandosi a visitare quelle esposizioni, così come risulta assurdo che esista un centralino atto a offrire servizi di guida turistica sul fiume Echo, tra i funghi dai nomi impossibili e i pipistrelli affetti da una strana malattia. Anche le abitazioni fanno parte di un museo. Insomma, tutto ciò che doveva funzionare a qualcosa e che non funziona più, come le tecnologie e le case, viene riciclato nell’arte, trovando la sua entelechia nel suo essere inservibile. Ezra, uno dei personaggi, un bambino di cui non si sa nulla dei genitori, vive nella mostra, con Julian, una gigantesca aquila che gli fa da mezzo di trasporto e da amico. I debiti hanno probabilmente espropriato molti abitati della zona e l’unico modo per sopravvivere gratis è diventare parte della cultura.

Nel viaggio conosciamo musicisti, cantanti e suonatori di theremin, Ad un certo punto, come per le popolazioni aborigene, anche l’audio della radio diventa un modo per ottenere indicazioni spaziali. Nel penultimo capitolo il fatto che le videocassette d’autore aggiungano assurdità alle ambientazioni è l’unica cosa a non essere assurda. Infine, tutti, compresi i computer, sembrano ambire alla poesia, quale prova di umanità, test di Turing per pc e, soprattutto, per esseri umani[3]. In effetti, prima di ogni altra attività, l’uomo fu artista. Perdere questa componente espressiva è abbandonare ciò che ci rende umani. Sulle caverne la memoria era custodita nella forma di disegni. Tuttavia, il passato è ormai solo più un’attestazione di verità, un fatto usabile contro di noi, e non un’interpretazione artistica, il segno di un passaggio.

Nel gioco, oltretutto, compaiono diverse considerazioni poetiche, che meritano una citazione.

“… E, sai, quaggiù è tutta una questione tattile. Il suono è una vibrazione, qualcosa che ti sfiora l’orecchio, perciò si potrebbe dire che la mia voce sia qualcosa di tattile. Quando due persone si parlano è come se si toccassero, persino al telefono…”

“Ben: Le voci degli spettri non si rivelano finché non riascolti la registrazione in un secondo momento.
Bob: Esistono solo nelle registrazioni, come una copia senza l’originale. Uno specchio che riflette qualcosa che non si trova nella stanza”.

Conclusione

Insomma, Kentucky Route Zero è la prova che i videogame siano alta letteratura e avanguardia. Il gameplay, in questo caso, è esercizio di pratica filosofica. Il viaggio che compiamo riguarda anche la nostra interiorità, ci porta a riconoscerci nell’assurdo e nella tragicità amara del modo di vivere odierno. Insieme ai personaggi siamo condotti verso un’indagine dell’esistenza, del tempo e dello spazio, da cui chiunque ne uscirà disorientato e privato dei suoi riferimenti. Resta una domanda: “Cos’è l’arte?”. Nel quinto atto, esplicitamente, si ammetterà che “tutto è solo arte” e di certo il videogioco di Cardboard Computer lo è.

NOTE

  1. JORGE LUIS BORGES, La scrittura del dio, in L’Aleph, Milano, Universale Economica Feltrinelli, 1961, p.118.
  2. J. L. BORGES, cit., p.119.
  3. Cfr. LORENZA SAETTONE, The Web. Coronavirus e web 2.0: domande e risposte della filosofia, INC, Amsterdam, 2020.

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