regole di internet

La mano degli Stati si stringe sulla Rete: così le democrazie seguono la Cina

Sempre più Stati, anche democratici, stanno approvando norme per accrescere il potere statale di blocco di contenuti internet considerati inopportuni. In Indonesia l’ultimo caso di un fenomeno che viene dalla Cina

Pubblicato il 08 Ago 2022

Angelo Alù

studioso di processi di innovazione tecnologica e digitale

democrazia internet

Prolifera in tutto il mondo la censura online come “longa manus” degli Stati che stanno manifestando, mediante l’implementazione di tecnologie emergenti all’avanguardia per controllare i flussi comunicativi veicolati in Rete.

Sono i tratti di un preoccupante “autoritarismo digitale”, che ora si estende dalla Cina a Paesi democratici come Indonesia, India.

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Insomma, quello dell’autoritarismo digitale è un fenomeno che sembra diffondersi su larga scala in tutto il mondo e non solo nel contesto orientale, ove il “Great Firewall” ideato da Pechino funge da centrale punto di riferimento ispiratore per i Paesi geograficamente limitrofi o ideologicamente affini con l’intento di perfezionare l’uso pervasivo di sistemi automatizzati di sorveglianza reprimendo qualsivoglia critica di dissenso.

Al contempo però, anche nell’area occidentale del globo si stanno manifestando i segni “politici” di una progressiva espansione dei sistemi di sorveglianza, spesso motivata dall’esigenza di assicurare la tutela della sicurezza nazionale e della salute pubblica, anche a discapito di una significativa contrazione del pluralismo informativo e con gravi negative ripercussioni sull’effettivo esercizio dei diritti fondamentali, al punto da prospettare un generale indebolimento delle democrazie consolidate nei sistemi politici più resilienti.

Regole della rete in Indonesia

L’Indonesia è appunto l’ultimo sviluppo. Sta revisionando la propria legislazione statale per introdurre regole più stringenti a carico dei gestori delle piattaforme telematiche al fine di ampliare il controllo governativo sull’ambiente digitale e consentire, con la diretta (coercitiva) collaborazione degli operatori virtuali, la rimozione immediata di qualsivoglia contenuto ritenuto illegale ai sensi e per gli effetti della normativa vigente in materia.

In uno dei maggiori mercati ICT esistenti a livello globale, ove si registra una delle più alte crescite esponenziali di utenti iscritti ai principali social media, la “ratio” giustificativa di tali severi interventi risiederebbe nell’esigenza di salvaguardare la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico riducendo, in ottica preventiva, i principali pericoli connessi alla repressione di efferate condotte criminose da cui discende la ricorrenza di gravi fenomeni delinquenziali implicanti un rilevante allarme sociale con particolare riferimento a settori sensibili ritenuti maggiormente vulnerabili (come il terrorismo, la tutela dei bambini, la pacifica convivenza dei consociati e la stabilità interna del Paese).

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Emblematiche, in tal senso, risultano i riscontri resi noti da un approfondito rapporto a cura di Reuters, secondo cui il governo indonesiano avrebbe intensificato il suo controllo su Internet mediante l’introduzione di regole più oppressive risalenti al 2020 per imporre la tempestiva rimozione dei contenuti illeciti segnalati su richiesta “urgente” degli apparati pubblici statali. Le autorità governative sarebbe così legittimate a multare gli operatori telematici che non rispettano le regole ivi stabilite, sino al possibile blocco delle piattaforme inadempienti nei casi ritenuti più gravi, ricevendo tale normativa persino l’avallo giurisdizionale della Corte Costituzionale favorevole a limitare l’accesso ad Internet soprattutto quando ciò sia reso necessario dalle circostanze esistenti in presenza di pericolosi disordini sociali.

In particolare, tra i provvedimenti restrittivi che hanno sollevato maggiori preoccupazioni vi è il regolamento ministeriale “MR5” (entrato in vigore nel 2020 e novellato dal correttivo “MR10” del 2021) che, oltre a consentire l’accesso a tutti i dati detenuti dalle aziende tecnologiche su richiesta del governo per esigenze di sorveglianza generale, subordina altresì, a pena di blocco, la fornitura dei servizi digitali erogati in Indonesia da qualsiasi operatore telematico (come categoria generale di intermediari intesa in senso ampio, e pertanto comprensiva di social network, motori di ricerca, servizi di messaggistica, applicazioni mobili, ecc.) al rispetto di specifici oneri di controllo, monitoraggio e filtro dei contenuti condivisi all’interno delle relative piattaforme da assolvere entro il breve termine di 24 ore decorrente dall’avvenuta notifica della segnalazione, senza una preventiva ingiunzione dei tribunali, non solo nei casi di accertata violazione delle leggi vigenti, ma anche quando le informazioni pubblicate possono causare “disordini pubblici” (come giustificazione residuale tendenzialmente elastica e generica in grado di espandere oltremodo gli interventi di rimozione concretamente ammessi).

Studio Freedom House

I prospettati timori di censura sono stati evidenziati dallo studio “FreedomHouse” che, nel monitorare periodicamente le condizioni di esercizio della libertà in Rete, attribuisce all’Indonesia un punteggio pari a 48/100 riscontrando, tra le maggiori criticità rilevate (pur a fronte di un tendenziale miglioramento rispetto ai precedenti anni), frequenti violazioni dei diritti degli utenti, ostacoli all’accesso e limiti ai contenuti immessi online soprattutto per finalità politiche accentuate durante il periodo delle competizioni elettorali.

Le restrizioni sono state ulteriormente aggravate dal citato stringente regolamento recante stringenti vincoli di rimozione e registrazione destinati quindi a ridurre lo spazio di libertà configurabile su Internet. Secondo lo studio, si assiste peraltro ad un usuale blocco di siti web effettuato su disposizione delle autorità governative per rimuovere la pubblicazione di contenuti “negativi” (intendendosi per tali non solo quelli aventi ad esempio natura pornografica o diffamatoria, ma anche compresi quelli che “violano norme sociali o ritenuti immorali”). Ciò ha provocato un incremento del contenzioso giudiziario in virtù dell’intensificazione di reiterate azioni legali intraprese per paralizzare il flusso comunicativo veicolato online con l’effetto di generare un “ambiente di autocensura” in grado di limitare le voci dissenzienti di giornalisti, attivisti e oppositori politici esposti al rischio di essere incriminati, tra l’altro, per atti di incitamento all’odio online per il solo fatto di esprimere idee divergenti rispetto al “mainstream” ufficiale. Stando infatti alle parole dello studio, infatti, “gli utenti sono spesso soggetti a sanzioni civili e penali per attività online legittime”, così come “i giornalisti online sono stati accusati, detenuti e condannati per i loro servizi” oltre a subire  “regolarmente molestie e intimidazioni come ritorsione per le loro attività online”.

Alla luce del report di “FreedomHouse”, “la manipolazione coordinata dei contenuti online da parte del governo, dei suoi alleati e di altri attori politici ha distorto il panorama dell’informazione. I contenuti manipolati e la disinformazione, che si sono diffusi online dalle elezioni presidenziali del 2014, continuano a proliferare, in particolare durante i momenti di tensione politica o di emergenza, come le proteste e la pandemia di COVID-19”. Una delle principali cause delle fake news è rappresentata dalla crescita esponenziale di bot automatizzati e utenti (cd. “cicalini”) reclutati per pubblicare commenti a “pagamento” che inquinano il dibattito pubblico, veicolando informazioni fuorvianti, o comunque a senso unico, funzionali a “plasmare l’opinione pubblica”.

Infine, il sistema dei mass media risulta poco affidabile, per quanto “diversificato” a causa di un problema di concentrazione di proprietà dell’industria editoriale che favorisce la collusione tra politica e informazione, contribuendo alla diffusione di notizie faziose provenienti da fonti che, abdicando al proprio ruolo di credibilità comunicativa “super partes”, diventano vere e proprie “estensioni di alcuni partiti politici”. Del pari, “la sorveglianza governativa delle attività online limita il diritto alla privacy” sempre più eroso dagli interventi normativi di revisione realizzati su impulso del governo indonesiano.

L’India

Di recente, anche in India è stata aggiornata la legislazione nazionale per imporre il blocco generalizzazione degli account registrati all’interno delle piattaforme telematiche, in attuazione delle stringenti prescrizioni introdotte dalle nuove leggi che, rispetto alla previgente disciplina del 2011, aggravano il regime di responsabilità dei gestori delle piattaforme telematiche, ponendo a loro carico l’obbligo di immediata rimozione dei contenuti incriminati, unitamente al compito di filtrare i contenuti illeciti veicolati online e di identificare i relativi autori, al punto da provocare, come dura reazione di protesta, l’avvio della causa intentata da Twitter contro il governo indiano per opporsi alla nuova stringente regolamentazione introdotta in materia.

In Occidente

Se in Oriente dilaga il “lato oscuro” della Rete, di certo lo stato di salute di Internet non brilla sul versante occidentale del mondo.

Germania

Ad esempio, sta facendo discutere la recente legge di modifica del Network Enforcement Act, emanata in Germania per reprimere l’incitamento all’odio online e combattere le fake news condivise tramite i social media, che prevede l’ampliamento dei poteri di sorveglianza attribuiti alle autorità competenti sul flusso comunicativo veicolato online, ponendo a carico degli operatori telematici l’obbligo di registrare i dati degli utenti, di adottare un sistema di gestione efficace dei reclami e di rimuovere i contenuti illeciti, a pena di ingenti sanzioni irrogate in caso di mancata ottemperanza agli obblighi prescritti. Si tratta di un intervento normativo, comunque limitato ai soli gestori di piattaforme con oltre 2 milioni di utenti iscritti, che potrebbe cagionare un grave “vulnus” alla libertà di espressione costituzionalmente tutelata, incidendo sull’esercizio effettivo dei diritti configurabili online pregiudicati a causa di un’eccessiva espansione della censura virtuale della Rete.

Usa

Negli USA, invece, la Corte Suprema ha sospeso temporaneamente la legge cd. “House Bill” emanata dallo Stato del Texas, recante norme che, a fronte di un possibile contrasto con il valore precettivo del “Primo Emendamento” e in deroga a quanto previsto dalla Sezione 230 del Communications Decency Act, impedirebbero ai gestori dei social media con oltre 50 milioni di utenti mensili, di rimuovere discrezionalmente i contenuti pubblicati dagli utenti in base al loro “punto di vista” senza una preventiva segnalazione propedeutica, riservata alle competenti autorità statali, al fine di disporre la cancellazione delle informazioni incriminate nel rispetto di apposite procedure definite secondo specifici parametri resi noti mediante la diffusione di rapporti periodici.

I Governi si stringono sulla Rete

Di fronte a tale scenario, non sorprende che il progressivo perfezionamento di sistemi massivi di sorveglianza sia diffuso ben oltre il contesto cinese (certamente sempre più sofisticato nell’implementazione del suo modello alternativo a quella “occidentale”). Si riscontra, invero, nella concreta prassi una crescente tendenza tra gli Stati ad adottare meccanismi di blocco generalizzato dei contenuti virtuali per finalità politiche di stabilità dell’ordine pubblico “domestico” e internazionale, a presidio della propria sicurezza nazionale. In questo senso, le recenti normative menzionate risultano emblematiche di una precisa visione restrittiva della Rete, sebbene giustificata dalla necessità di salvaguardare la tutela di interessi generali prevalenti, da cui discendono pervasivi poteri di controllo configurabili persino in Paesi formalmente strutturati come “democrazie”.

Tutto ciò trova conferma nel report “Freedom House 2021”, secondo cui, in un contesto di graduale erosione della libertà su Internet già riscontrata da tempo e ancor più aggravata durante l’emergenza pandemica, “i governi di tutto lo spettro democratico hanno ripetutamente fatto ricorso a un’eccessiva sorveglianza, restrizioni discriminatorie alle libertà come movimento e riunione e all’applicazione arbitraria o violenta di tali restrizioni da parte della polizia e di attori non statali. Ondate di informazioni false e fuorvianti, generate deliberatamente dai leader politici in alcuni casi, hanno invaso i sistemi di comunicazione di molti paesi, oscurando dati affidabili e mettendo a repentaglio la vita. Mentre la maggior parte dei paesi con istituzioni democratiche più forti garantiva che qualsiasi restrizione alla libertà fosse necessaria e proporzionata alla minaccia rappresentata dal virus, un certo numero di loro coetanei perseguiva strategie goffe o male informate […] per reprimere l’opposizione e fortificare il loro potere”.

Piuttosto che rafforzare il libero accesso ad Internet, come caposaldo fondante di un sistema politico evoluto e moderno per garantire la fruizione inclusiva delle risorse distribuite nell’ambiente virtuale, sta prendendo forma una diversa concezione di sovranità digitale basata sul ricorso generale alla censura virtuale come tecnica protettiva di prevenzione ai pericolo che possono compromettere le infrastrutture nazionali più vulnerabili di ogni Paese.

Evidentemente, la visione tradizionale – e per certi versi oggi illusoria e recessiva – di una Rete aperta e interoperabile su scala globale è destinata ad un’inesorabile tramonto sino a venire definitivamente meno come conseguenza di un inevitabile processo di frammentazione di Internet adattata alle nuove esigenze “cyber-nazionalistiche” degli Stati orientati verso una progressiva “balcanizzazione” dell’ambiente digitale.

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