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La morte nell’era dei “dati eterni”: che ne sarà del nostro corpo digitale

A breve, secondo la BBC, su Facebook, ci saranno più morti che vivi: il sorpasso dovrebbe avvenire verso il 2065. Ecco perchè il fenomeno della cosiddetta morte digitale e, soprattutto, della gestione della sua eredità sia diventato argomento d’interesse centrale per gli studiosi

Pubblicato il 17 Mag 2017

Giovanni Ziccardi

Information Society Law Center, Università degli Studi di Milano

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La tecnologia, com’è noto, ha cambiato ogni aspetto della persona umana: il modo di dialogare, di parlare, di scrivere, gli affetti, la sessualità, la politica, le relazioni personali. Non vi è quindi da stupirsi che stia mutando sensibilmente anche il lato della morte e della commemorazione del lutto, della presenza di profili di defunti sui social network e la connessa commemorazione del lutto.

Nel mio saggio “Il Libro Digitale dei Morti” (UTET, 2017) ho iniziato l’analisi partendo dall’annuncio più clamoroso, che è stato dato il 13 marzo 2016 dalla BBC. Sulle pagine del sito web dell’emittente radiotelevisiva britannica, in un tipico e asciutto stile inglese, è apparso infatti il seguente presagio: “A breve, su Facebook, ci saranno più morti che vivi. Il social network per eccellenza ha già preso le sembianze di un cimitero digitale, in costante e inarrestabile crescita”.

“Più morti che vivi” e “cimitero digitale”, quindi. Sono espressioni forti, e non certo rassicuranti, per descrivere, pur con enfasi giornalistica, ciò che sarà di Facebook e degli altri social network nel prossimo futuro.

La bacheca più scintillante che esista, quel luogo/non luogo frequentato dalla maggior parte dei cittadini digitali, capace di superare i confini di Paesi e Continenti (con una popolazione di oltre 1,65 miliardi di utenti) e che viene naturale collegare, nel quotidiano, alla vita, alle amicizie, al pensiero espresso senza filtri, ai “mi piace”, alla gioia, alla comunicazione, all’odio, alla pubblicità, ai selfie e alle relazioni sociali, ebbene, secondo la BBC, questa “Las Vegas virtuale” si starebbe trasformando sempre di più in un luogo di morte. Inesorabilmente. Tanto che alcuni hanno già coniato l’espressione morte digitale: un genere di morte che si unirebbe e si aggiungerebbe all’idea, a tutti ben nota, di morte fisica.

Saremmo così in presenza di tre tipi di fenomeni connessi alla società dell’informazione:

  1. la morte fisica, così come la conosciamo,
  2. la morte digitale, ossia la morte dell’aspetto digitale o della presenza dell’essere umano in un servizio informatico o su un social network, e
  3. gli effetti della morte fisica sui beni digitali. Tre aspetti che devono essere mantenuti ben distinti ma che spesso si intersecano con modalità innovative e interessanti.

Immediatamente dopo l’annuncio della BBC è iniziata la corsa alle cifre, ai trend e alle elaborazioni statistiche: come se fosse possibile misurare con precisione la presenza – e, soprattutto, la dipartita – dell’essere umano nell’ambiente digitale.

Alcuni studiosi hanno calcolato in oltre trenta milioni quei profili online che apparterrebbero già a persone scomparse: si sta procedendo, dicono, a un ritmo di 8.000 decessi digitali al giorno. Quasi un milione di questi morti digitali sarebbero residenti negli Stati Uniti d’America, la terra d’origine dei più importanti social network moderni. Non solo: nel 2065 – o, al massimo, nel 2095 – si registrerà il tanto temuto sorpasso: ci saranno più account di utenti morti che vivi.

Anche in Italia qualcuno si è lanciato in previsioni che, è proprio il caso di dirlo, lasciano il tempo che trovano: si registrerebbero 240.000 morti digitali in un anno, con un trend di 650 bacheche abbandonate a loro stesse ogni giorno, su un parco utenti che ammonterebbe a circa 24 milioni di nostri connazionali.

Ora, pur interpretando questi numeri con molta cautela e con un approccio meno catastrofista, è innegabile che il fenomeno della cosiddetta morte digitale e, soprattutto, della gestione della sua eredità sia diventato argomento d’interesse centrale per gli studiosi dei più importanti fenomeni connessi alla società dell’informazione.

È un tema che potrebbe sembrare molto settoriale e facile da sviluppare, se non addirittura d’importanza marginale. Riguarderebbe, in fondo, solo dati e profili che competono per sopravvivere ai loro referenti umani.

In realtà, a ben guardare, si tratta di un ambito che tocca importantissimi temi sociali, tecnologici, storici, religiosi e filosofici, sino ad arrivare a delineare all’orizzonte una nuova idea di comprensione e gestione della morte ripensata ed adattata per l’era digitale e per le numerose identità virtuali, o corpi elettronici, dell’individuo.

È, poi, un settore in grado di sollevare problemi pratici, quesiti tecnologici, di hacking e di sicurezza informatica e controversie legali che sono già di grandissima attualità.

Muovendo dalla semplice, e un po’ banale, idea del destino di un profilo sui social network, possono prendere forma questioni ben più importanti che sono in grado di tracciare alcune linee essenziali della storia moderna e del rapporto, sempre più complesso, tra le tecnologie e l’essere umano.

Il più importante elemento di analisi da cui mi sembra opportuno muovere riguarda la comprensione – che sia la più lucida possibile – di che cosa ne sarà dei nostri dati digitali dopo la morte.

Tale riflessione comporta anche un’attenzione a quale sarà il destino di tutte le nostre persone/identità digitali/alter ego virtuali/corpi elettronici che hanno preso forma nel corso di anni di attività online e, soprattutto, a quali saranno le persone che potranno disporne e che, in ultima istanza, potranno prendere delle decisioni sul modo in cui trattare i nostri beni.

Le domande che sorgono spontanee, su questo primo punto, sono numerose.

I multiformi contenuti dei profili sui social network, dei blog e delle caselle di posta elettronica, ad esempio, resteranno per sempre visibili a tutti e, quindi, supereranno anche la morta fisica dell’utente, rimanendo eterni?

E rimarranno eterni fissi o eterni in movimento? In altre parole: saranno congelati e cristallizzati al momento esatto del decesso dell’utente, come incisioni su pietra, o potranno essere aggiornati costantemente da parenti o amici e rimanere, in un certo senso, vivi?

Al contrario, se uno non volesse rimanere eterno, avrà la possibilità di eliminare tutti i dati e le sue tracce digitali per sempre? Di far sì, in altre parole, che le informazioni muoiano insieme a lui? E, magari, di poterlo fare in maniera automatizzata – ad esempio come conseguenza diretta della morte fisica – nel caso, per ipotesi, si registrasse un periodo più o meno lungo di inattività, cancellando i dati definitivamente o mantenendoli in rete ma impedendo l’accesso da parte di chiunque?

Dobbiamo accettare il fatto e rassegnarci, per certi versi, all’idea che siamo ormai in un’epoca di dati eterni, che sopravvivono senza difficoltà anche alla morte dell’individuo o, al contrario, abbiamo ancora dei margini di possibilità per, ad esempio, predisporre processi di autodistruzione dei dati quale ultima forma di tutela della privacy e dei nostri segreti?

Si noti che il ridurre la questione della morte digitale – e della relativa eredità – a un problema di gestione di profili, account, ricordi, video o immagini e alla cura di qualche status o galleria di selfie è a dir poco riduttivo. Oggi i dati in rete – e spesso sono online da decenni, e si sono pian piano accumulati nel corso del tempo – sono in grado di creare un alter ego che ha sempre di più assunto la forma di un corpo elettronico e che cresce e si sviluppa di pari passo con le attività.

Su questo punto, ad esempio, Stefano Rodotà è sempre molto lucido. Si legga questo passaggio, tratto dal suo saggio Il diritto di avere diritti: “Anche se è eccessivo, e persino pericoloso, dire che “noi siamo i nostri dati”, è tuttavia vero che la nostra rappresentazione sociale è sempre più affidata a informazioni sparse in una molteplicità di banche dati, e ai “profili” che su questa base vengono costruiti, alle simulazioni che permettono. Siamo sempre più conosciuti da soggetti pubblici e privati attraverso i dati che ci riguardano, in forme che possono incidere sull’eguaglianza, sulla libertà di comunicazione, di espressione o di circolazione, sul diritto alla salute, sulla condizione di lavoratore, sull’accesso al credito e alle assicurazioni, e via elencando. Divenute entità disincarnate, le persone hanno sempre di più bisogno di una tutela del loro “corpo elettronico””.

Esisterebbe, quindi, un’idea di eredità digitale non semplicemente connessa ai dati singoli ma anche a quanto una persona lascia di sé complessivamente nel mondo digitale. Un insieme di presenza e di informazioni che può essere estremamente articolato soprattutto se arricchito e fatto evolvere dalla tecnologia stessa, e se rifinito da un’attività di profilazione, dalla correlazione di informazioni, dalla generazione automatica di nuovi aspetti e abitudini della persona online. Un patrimonio digitale, in sintesi, che non ha precedenti nella storia dell’umanità. Sia per dimensioni, sia per dinamicità.

Non siamo, infatti, di fronte a una vera e propria “persona virtuale” contrapposta a quella reale, specifica meglio Rodotà, ma a un inedito intreccio “che ci restituisce la persona concreta quale risulta dal suo attuale modo d’essere nel mondo, in una dimensione nella quale la rete gioca un ruolo di cui devono essere considerate le peculiarità. Lo schermo, sul quale la persona proietta la sua vita, non è più soltanto quello del personal computer, si è enormemente dilatato, tende a coincidere con l’intero spazio della rete”.

Già questo primo dilemma che ho esposto – i dati digitali sono destinati a vivere per sempre, o si sarà in grado di dare loro, se si vuole, una morte digitale? – è perfetto per generare, a cascata, ulteriori nodi interpretativi molto affascinanti.

Si pensi, ad esempio, a come sono cambiate, con l’avvento delle reti digitali e dei social network, le modalità di gestione del dolore, del lutto e della commemorazione dei defunti, due temi nobili (e classici) della tradizione che sono stati attraversati da una vera e propria rivoluzione tecnologica.

I lati positivi sono immediatamente evidenti: mai come oggi le più diffuse tecnologie digitali sono in grado di aiutare i parenti e gli amici a perpetuare il ricordo di una persona cara tramite nuovi ed evoluti strumenti. Strumenti mai presenti, prima, nella storia dell’umanità e che, in molte occasioni, si affiancano a comportamenti tradizionali antichi come l’uomo ma che, al contempo, sfruttano al meglio le capacità di amplificazione, di connessione e di persistenza delle informazioni garantite dalle nuove tecnologie.

Infine, non meno importante, può assumere rilievo l’aspetto strettamente patrimoniale. La presenza costante in rete genera, oggi, economia e acquisti di beni e di servizi: quali sono i metodi migliori per gestire in concreto un patrimonio informativo che ogni giorno aumenta e che, nella vita di una persona, arriva ad assumere quasi sempre un valore economico (o emozionale) ingente? Si pensi, ad esempio, a una stima, seppur approssimativa, dei beni e servizi che un utente medio acquista in rete ogni anno. Questo è l’aspetto più vicino all’idea diffusa che si ha di eredità, sia da un punto di vista tradizionale, sia in un’ottica strettamente giuridica: un patrimonio di beni, accumulato nel tempo, che assume un valore non solo affettivo ma anche economico.

Morte, quindi, ma anche immortalità dei dati e un diritto all’oblio sempre più difficile da raggiungere tecnicamente sono i tre grandi temi che coinvolgeranno l’architettura informatica del futuro e che metteranno alla prova politici e legislatori nel tentativo di individuare soluzioni rispettose sia delle tecnologie sia dei diritti della persona.

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