Di fronte a un sistema pubblico impreparato alle sfide dell’era digitale, ad autorità nazionali dotate di armi obsolete, a procedure di selezione del personale della PA ferme al secolo scorso, a una narrazione costantemente sintonizzata sul tema della crisi economica, i giganti del web sembrano non conoscere battute d’arresto, anzi. I big tech occupano sempre più le posizioni che gli attori istituzionali lasciano vacanti.
Ne è un esempio la notizia dell’imminente avvio di corsi specialistici promossi da Google per sviluppare, mediante il conseguimento di “Google Career Certificates”, le competenze digitali richieste dal mercato del lavoro e incrementare le opportunità professionali legate al mondo del digitale, così svolgendo una fondamentale funzione formativa anche in una prospettiva efficace di “terza missione”, tradizionalmente affidata al sistema scolastico e universitario.
Uno scenario che invita tutti a riflettere e che ci pone davanti a sfide di non facile soluzione.
Chi pagherà il costo sociale di uno Stato impreparato al digitale
Probabilmente tra qualche decennio ricorderemo questo periodo come un precario momento storico di transizione destabilizzatrice antecedente l’avvento definitivo di un’inedita era “tecnologica” fondata sul primato di una nuova società “digitale” che – forse – farà anche del tutto a meno dello Stato, nel ruolo istituzionale di stabile organizzazione preposta a rappresentare gli interessi generali di una collettività, come principale attore politico dei tradizionali processi decisionali, tenuto conto della progressiva concentrazione di potere in capo ai “Big Player ICT”, in grado di implementare costantemente le proprie prospettive di crescita economica, con una capacità di visione strategica di futuro non più riscontrabile nell’ambito degli ormai desueti circuiti operativi che caratterizzano gli obsoleti apparati statali sempre più inadeguati e impreparati ad affrontare le sfide dettate dai ritmi evolutivi dell’innovazione.
I “Colossi della rete”, infatti, sembrano già ora proiettati in un futuro imminente di cambiamenti epocali destinati a trasformare la società nel suo complesso, grazie a una costante e produttiva programmazione di servizi e strumenti che, oltre a confermare indiscusse abilità imprenditoriali orientate alla massimizzazione del profitto, manifestano anche rilevanti implicazioni “politiche”, desumibili da un’idea precisa e chiara su come costruire e implementare un nuovo modello sociale di interrelazioni umane al passo con lo sviluppo pervasivo delle tecnologie.
Di fronte all’inarrestabile predominio delle imprese tecnologiche dominanti, al netto di ciò che resta degli ultimi esigui spazi di leadership tecnologica rivendicata da pochi attori statali in grado di resistere – forse ancora per poco – all’impatto delle nuove “regole del gioco” sulla nuova “governance digitale”, si assiste all’inesorabile declino delle autorità nazionali che, come “stanchi giganti di carne e d’acciaio”, si sforzano di applicare soluzioni obsolete del passato per tentare di risolvere invano i problemi del presente senza avere una minima idea di futuro sull’evoluzione della società e sulle nuove esigenze che emergeranno nei prossimi decenni, con il risultato di condannare intere generazioni a sopportare il “costo sociale” di inaccettabili inefficienze destinate a precludere opportunità di crescita professionale e benessere sociale senza un indispensabile cambio di paradigma ormai invocato come aspettativa disattesa nell’avvio di un processo di innovazione ristagnata in una statica e atrofizzata dimensione digitale da “anno zero” paralizzante.
Post covid: un’occasione di rilancio mancata?
Il post pandemia “Covid-19” avrebbe potuto rappresentare, ad esempio per l’Italia, l’inizio effettivo di un vero processo di cambiamento generale, anche indotto dalla necessaria (ri)organizzare in modalità digitale della stragrande attività delle attività quotidiane, come fattore trainante per la riconversione tecnologica del sistema.
Invece, la concreta prassi descrive un disastro, peraltro annunciato, destinato ad aggravarsi. Non solo aumenta il deficit cognitivo di analfabetizzazione digitale, secondo quanto emerge dall’ultima edizione del DESI 2020” che colloca il nostro Paese, dopo anni di arretramento “recidivo”, all’ultimo posto della classifica europea per carente cultura digitale di base della popolazione italiana (con ulteriori conferme del trend negativo formalizzate dal Rapporto annuale ISTAT 2020, in cui si evidenzia la preoccupante diffusione del divario digitale, come freno dello sviluppo economico e moltiplicare di discriminazioni da cui discendono gravi fenomeni di esclusione sociale tra “cittadini di serie A” e “cittadini di serie B”).
Oltre il danno, la beffa: piuttosto che procedere alla revisione generale delle procedure concorsuali per la selezione del personale della PA (superando l’approccio di reclutamento “novecentesco” basato sull’accertamento di contenuti nozionistici di stampo teorico-generalista, senza attribuire un “peso” specifico rilevante al possesso di competenze ICT, praticamente marginali nel giudizio di valutazione dei concorrenti), in combinato disposto con la riforma integrale del sistema educativo delle scuole e delle università, per formare (grazie all’offerta di percorsi innovativi fruibili in via generale, mediante una riqualificazione della forza lavoro basata sull’acquisizione di nuove abilità e competenze in linea con quanto descritto dal Report “The Future of Jobs 2018”), la futura “classe dirigente” di manager, professionisti e funzionari statali pienamente inclusi nel mercato del lavoro dei prossimi decenni, si continua a perdere tempo, tra “slogan” da “annuncite acuta” e presunti tentativi concreti che, nonostante la buona volontà, sprofondano nell’abisso “burocratico” delle macchinose procedure del settore pubblico in un contesto di perdurante instabilità politica, senza seguire una logica di pianificazione a lungo termine nell’adozione di prioritarie misure di intervento in materia di innovazione digitale.
In tale prospettiva, pur avendo frequentemente cambiato e provato svariati programmi sostenuti da diversi attori politici promotori e interpreti di multiformi coalizioni di governo che, con le più eterogenee formule di contaminazione, si sono alternati nel corso degli anni, il trend negativo è rimasto costante.
Le “alternative” dei big tech
Mentre ormai sembriamo esserci abituati (o forse rassegnati), in uno stato di cronica assuefazione per assenza di alternative, alla “narrazione” di una perenne crisi economica senza via di uscita, come filo conduttore di uno scenario cupo e drammatico, risalente al 2008, che ci viene periodicamente rievocato nel tentativo di fornire un alibi attenuante della mancata ripresa, per giustificare la crescita della disoccupazione, l’esistenza del grave deficit e la difficoltà di realizzare riforme strutturali in modo organico, prospettando già ora, a fronte di un’eventuale inerzia o inefficacia dei prossimi interventi da predisporre, l’imminente collasso del sistema generale a causa del rischio di una grave recessione economica paragonabile a quella del dopoguerra, anche in termini di crollo del PIL, in perfetta linea con la massiccia crescita dei ricavi prodotti dai “Colossi del web” negli ultimi mesi (al punto da rendere necessario persino il ricorso a ingenti piani di assunzione per il reclutamento di centinaia di migliaia di nuovi lavoratori), gli “Over the Top” dimostrano la capacità di generare crescenti profitti, anche in situazioni emergenziali (come la pandemia), grazie all’implementazione di servizi efficaci declinati al futuro, in regime di strapotere tecnologico, come manifestazione della rilevanza strategica dell’innovazione digitale ormai centrale nella vita quotidiana delle persone, prendendo atto, ancora una volta con lungimiranza, del cambiamento epocale che proietta l’umanità in una direzione di non ritorno al passato.
In questo scenario, non può non far riflettere la notizia dei “Google Career Certificates”, che nelle intenzioni del colosso di Mountain View potranno assicurare il proficuo inserimento professionale nel mercato del lavoro dei giovani in possesso di skills acquisite durante un percorso di apprendimento teorico-pratico destinato a concludersi con un’efficace e concreta incidenza sulle prospettive lavorative che potrebbe colmare il grave tasso di disoccupazione esistente, oltre a fornire soluzioni formative accessibili e inclusive di alta specializzazione fruibili anche da parte di chi, pur non essendo in grado di sostenere i costi legati ai tradizionali percorsi di studio, avrà la possibilità di frequentare programmi di apprendimento per trovare posti di lavoro nei settori più altamente remunerativi.
Di certo, occupando uno spazio strategico sempre più in crescita, destinato a incrementare la domanda di competenze digitali, in linea con quanto descritto dal Report “The Future of Jobs 2018” del World Economic Forum (secondo cui entro il 2022 cesseranno di esistere 75 milioni posti di lavoro, ma ne verranno creati altri 133 milioni, con un netto di + 58 milioni di nuove opportunità lavorative collegate al digitale), l’azienda di Mountain View dimostra la volontà di realizzare un’iniziativa ambiziosa che avrà ulteriori effetti di rigenerazione complessiva del sistema educativo dell’istruzione, secondo una precisa visione di futuro all’avanguardia con l’avvento della rivoluzione digitale.
C’era una volta lo Stato, oggi c’è Google…