Dopo 20 anni di guerra, la caduta di Kabul è precipitata addosso alla popolazione in un fine settimana. Il vuoto lasciato dagli americani e dagli occidentali, prima ancora della data finale concordata, è stato riempito dall’impegno volontario e dagli sforzi individuali, sostenuti e organizzati prevalentemente attraverso Google Forms, WhatsApp e i social media privati. Ma questo sforzo e questo impegno non sono privi di rischi per gli utilizzatori e pongono nuove responsabilità ai gestori delle grandi piattaforme web.
E quel che appare sempre più evidente è che la corsa dei talebani non era finalizzata soltanto a far cadere subito il governo, dissolvere l’esercito e far sloggiare le truppe straniere prima della scadenza. La stessa corsa contro il tempo mirava infatti a impadronirsi del maggior numero di informazioni non lasciando modo di renderle inaccessibili.
Esaminiamo allora la difficile situazione afghana anche dal punto di vista delle tecnologie e delle nuove sfide per le big tech.
I Talebani, i social e il digitale: quale lezione per l’occidente
Una catena di errori
Se il presidente Usa Joe Biden non è il solo responsabile del ritiro dall’Afghanistan, deciso e posto in agenda dall’amministrazione Trump, certamente è solo suo il demerito di non avere preparato il ritiro e di non aver evitato la dissoluzione anticipata dell’esercito e del governo afghano con il caos e le vittime attuali e potenziali che ne sono derivati.
Il generale David Petraeus, ex direttore della CIA ed ex comandante delle forze della Coalizione in Afghanistan, aveva posto sull’avviso la nuova amministrazione a dicembre del 2020 nel commentare l’accordo di Doha siglato da Trump con i talebani: “La veemente insistenza dei talebani sulla necessità di ritiro di tutte le truppe statunitensi dall’Afghanistan lascia fortemente intravedere che lo scopo dei colloqui di pace non sia tanto quello di trasformare le relazioni dei talebani con gli Stati Uniti, ma di allontanare le forze così da poter rovesciare il governo afghano senza ostacoli.
Invece di gettare le basi per un compromesso intra-afghano, già di per sé molto difficile, l’accordo sembra implicitamente anticipare la ‘fine del gioco’ così come gli stessi insorti hanno costantemente perseguito dal 2001: una riconquista talebana del potere”[1]. Tutte e due le amministrazioni sono responsabili del caos nell’aeroporto di Kabul, quella di Biden è responsabile della caduta nelle mani del nuovo regime di armi, munizioni, apparecchiature elettroniche, data base, strumentazioni per la raccolta e l’identificazione con misuratori biometrici[2]. Il problema non è tanto la strumentazione tecnica di rilevazione e controllo, ma il database accumulato sulla popolazione afghana e non solo, da parte dell’esercito americano. La criticità è assai grave e più ampia sarà la sua portata potenziale in futuro.
Il “lascito involontario” di tecnologie e dati
Vi è la certezza di un più ampio e potenzialmente drammatico “lascito” dovuto al precipitoso ritiro delle truppe occidentali che ha arricchito il bottino tecnologico e di informazioni militari, politiche, di sicurezza personali e istituzionali che potrà essere usato dal nuovo regime.
Il Segretario generale dell’ONU Antonio Guterres il 17 agosto ha denunciato il rischio di violazioni dei diritti umani di donne e ragazze, mentre Amnesty International metteva in guardia del rischio che migliaia di afghani, accademici giornalisti e attivisti, possano essere sotto tiro della ritorsione talebana. Dopo anni di investimenti per digitalizzare il Paese, introducendo carte di identità elettroniche e controlli biometrici per il voto, la massa di dati potenzialmente a disposizione è assai rilevante.
Il gruppo americano di tutela dei diritti umani Human Rights First ha pubblicato un manuale, reso già disponibile per Hong Kong lo scorso anno, per dare istruzioni su come distruggere la propria storia digitale e come evadere i controlli biometrici. “Sappiamo che i talebani avranno accesso a vari data base in Afghanistan, con le impronte digitali e i dati biometrici comprese le scansioni dell’iride e il riconoscimento facciale.”[3]
Facebook continua la sua politica di bandire i contenuti talebani dalla piattaforma e ha preso misure di tutela per gli utenti afghani: “Abbiamo lanciato uno strumento ‘one click’ per le persone che vogliono chiudere immediatamente il proprio account”, ha twittato Nathaniel Gleicher, responsabile della sicurezza dell’azienda, “e abbiamo rimosso la possibilità di vedere e ricercare la lista dei ‘Friends’ per gli account in Afghanistan per proteggerli dal tentativo di prenderli di mira”.
Twitter ha dichiarato che la sicurezza delle persone è la sua prima preoccupazione e che vigilerà sia sulle richieste di aiuto che pervengono dalla piattaforma e monitorerà i contenuti relativi ai talebani. Ricordiamo che Twitter, che pure adotta regole contro la promozione di violenza e terrorismo, è stata accusata -nella fase della riconquista del potere a Kabul- di offrire un supporto indiretto ai talebani che utilizzano la piattaforma per tenere aggiornati le centinaia di migliaia di followers.
Linkedin ha dichiarato di monitorare gli sviluppi e di eliminare tutti i contenuti che non rispondono alle regole della comunità professionale, ma ha anche preso provvedimenti per celare le connessioni di coloro che stanno nel Paese.
La corsa dei talebani
La corsa dei talebani non è stata improvvisata. All’inizio della guerra imbracciavano armi convenzionali semplici come il Kalashnikov, ma ora hanno adottato internet e la telefonia cellulare per controllare le operazioni e per condurre una strategia di comunicazione e di influenza. Mentre la dotazione degli occidentali non è cambiata molto durante la guerra, quella dei talebani ha fatti piccoli, ma efficaci passi cambiando completamente la loro strategia. Tra il 1996 e il 2001 il gruppo era chiuso e lasciava riconoscere solo il volto del Mullah Omar. Ora ha sviluppato una comunicazione efficace all’interno e all’esterno del paese. Le bombe IED, che un tempo esplodevano a contatto diretto, ora sono state modificate per essere attivate dai cellulari: sono le armi che hanno fatto maggiori vittime tra gli alleati. Le loro esplosioni venivano filmate e inviate sui molti social network, in particolare Twitter, per animare la resistenza e reclutare nuovi adepti. Aggiustamenti di tiro si sono avuti anche nella comunicazione: sopprimendo i riferimenti al sostegno offerto loro dall’ISI, il temuto servizio segreto pachistano che appoggia i talebani, i talebani hanno voluto creare un’immagine eroica e indipendente del movimento. Le nuove tecnologie degli occidentali sono state usate prevalentemente non per vincere, ma per limitare le perdite. Intanto, l’esercito afghano si destreggiava tra due dimensioni, quella tecnologica americana e quella della guerriglia terroristica, ma si scontrava con una sorda, inconfessata non disponibilità da parte occidentale di trasferire in modo sistematico le nuove tecnologie agli afghani[4].
Nuove sfide per le Big Tech
Delle nuove responsabilità in capo alle Big Tech è testimonianza la dichiarazione di Facebook: “lavoriamo in stretto contatto con le controparti del settore, della società civile e con il governo per offrire qualunque sostegno possibile per proteggere le persone”.[5]
Qualche osservatore vede questa nuova responsabilità delle piattaforme come l’emergere di un loro nuovo ruolo in materia di politica estera, come se le piattaforme si confrontassero ormai alla pari con gli stati[6]. Molte azioni contro i siti e le comunicazioni web dei talebani sono accadute nei momenti successivi alla caduta del governo afghano ad opera prevalentemente delle piattaforme stesse che li ospitano.[7] Ma bisogna intendersi sulle parole. Ogni multinazionale, non solo tecnologica, ma anche petrolifera, infrastrutturale, commerciale, finanziaria, si è sempre dotata di politiche estere, ossia di conoscenze e professionisti in grado di far avanzare e proteggere i propri interessi, con gli strumenti legali necessari nei diversi contesti in cui l’azienda opera. La politica estera di uno Stato, invece, è la strategia di tutela dei propri interessi nei confronti degli altri paesi, con i mezzi degli accordi e con la deterrenza delle forze armate. Le multinazionali non hanno questa deterrenza.
Oggi in Afghanistan, tuttavia, esse sono chiamate a svolgere ruoli, in difesa dei propri utenti, che assomigliano assai più alla tutela che uno Stato deve assicurare ai propri cittadini piuttosto che alla cura dei propri consumatori. La posizione dei gestori di piattaforme web cambia in modo significativo con l’avvento al potere dei talebani: se quel governo dovesse affidarsi a pratiche terroristiche, la minaccia potrebbe riguardare non solo i cittadini afgani oppositori del regime o i nemici internazionali. La minaccia potrebbe essere rivolta contro alcune piattaforme web considerate ostili.
Dove schierare le proprie difese da parte delle piattaforme web se non sulla rete?
Sulla cyberwar, oggi strisciante a opera prevalentemente di governi o organizzazioni legate ai governi e ai servizi segreti, potremo assistere a un salto di qualità inatteso.
Note
- ) Claudio Bertolotti, Generale David Petraeus: senza truppe straniere i talebani potrebbero roivesciare il governo afghano (L’intervista), 9 dicembre 2020, Start Insight. ↑
- ) Ken Kippenstein, Sara Sirota, The Taliban have seized U.S. military biometrics devices, The Intercept, August 18, 2021. ↑
- ) Rina Chandran, Afghans scramble to delete digital history, evade biometrics, Reuters, August 17, 2021. ↑
- ) Christopher Ankersen, Mike Martin, The Taliban, not the West, won Afghanistan’s technological war, MIT Technology Review, August 23, 2021. ↑
- ) BBC, Facebook moves to protect Afghan users’ accounts amid Taliban takeover, 20 8 2021. ↑
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- ) April Glaser, Kenin Collier, Cyrus Farivar, Some Taliban websites go offline amid broader tech crackdown, NBC News, August 3, 2021 ↑