gli studi

L’altra “faccina” della disinformazione: il ruolo delle emoji nella diffusione di fake news

Le emoji sono più comuni nell’informazione falsa che nella legittima. Inoltre, la disinformazione, quando diffusa enfatizzando il testo con delle emoji, piace e viene quindi anche diffusa di più. Due studi empirici ci dicono di più su come le emojis influenzino la circolazione di fake news

Pubblicato il 06 Ago 2021

Laura Brandimarte

Assistant Professor of Management Information Systems, University of Arizona

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Negli ultimi anni si è discusso e scritto molto di disinformazione, ovvero della intenzionale diffusione di informazioni testuali inaccurate o totalmente false fatta spesso per scopi commerciali, ideologici o politici.

Poco sappiamo però sul ruolo di caratteristiche non testuali che potrebbero influenzare la diffusione di disinformazione, tra cui le emojis o emoticons, ovvero le piccole immagini che vengono spesso utilizzate per trasmettere un coinvolgimento emotivo altrimenti difficile da far trasparire in uno scritto.

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Emojis e diffusione della (dis)informazione: gli studi

Per cercare di capire come le emojis influenzino la circolazione di informazione abbiamo condotto due studi empirici: uno analizzando dati su tweet identificati come contenenti disinformazione e un altro costituito da un esperimento con tweet contenenti informazione sia legittima che falsa.

Partiamo dal primo studio. Siamo partiti da una nota piattaforma di individuazione di disinformazione, snopes.com, e abbiamo individuato una lista di 3.615 tweet identificati dalla piattaforma come contenenti informazioni vere, false o un mix di entrambe. Abbiamo quindi salvato le necessarie caratteristiche di tali tweets: testo (completo di emoji, se presenti) e numero delle volte in cui ciascun tweet ha ricevuto un’interazione (“Mi piace” o Retweet). Infine, abbiamo suddiviso i tweet in due gruppi: quelli con e (in grande maggioranza, il 91,5%) senza emoji. Anzitutto, abbiamo notato che i Tweets contenenti almeno una emoji hanno avuto una diffusione più ampia rispetto a quelli senza, con un 128% in più di retweets e un 142% in più di “Mi piace.” Inoltre, altro dato interessante è che, tra i tweets contenenti almeno una emoji, quasi la metà (il 49%) contengono disinformazione, un terzo (33%) informazione vera e il rimanente 18% un mix di entrambe. Altra statistica interessante è che le emoji più comuni utilizzate in tweets di disinformazione sono quelle che dipingono risate fragorose, applausi o bandiere.

In base a questo primo studio, sembrerebbe esserci dunque una maggiore probabilità che, in presenza di una emoji, un Tweet contenga disinformazione piuttosto che informazioni vere.

Tweet con emoji e senza: quali si diffondono di più?

Poiché si tratta solo di una correlazione, per capire se l’effetto è causale, e cioè se una emoji rende davvero un tweet più virale, abbiamo condotto un esperimento. Tramite una piattaforma piuttosto diffusa tra gli accademici (Prolific), abbiamo invitato 100 persone, tutte di residenza statunitense e attive su Twitter, a partecipare al nostro studio. Abbiamo mostrato a ciascuno 4 diversi tweets, 2 contenenti informazione falsa e 2 legittima. Abbiamo creato 3 versioni per ciascun tweet: nella condizione di controllo non abbiamo inserito alcuna emoji; nella condizione che possiamo chiamare di “sostituzione,” abbiamo sostituito una parola con una emoji; infine, nella condizione che chiamiamo di “enfasi” abbiamo aggiunto accanto a una parola la corrispondente emoji. A ciascun partecipante è stata mostrata, in modo casuale, solo una versione per ciascuno dei 4 tweets. Questo schema ci ha consentito di testare due ipotesi: la prima è che la presenza di una emoji renda un tweet più diffuso rispetto allo stesso identico tweet senza emoji.

La seconda è che il meccanismo per cui ciò avviene è, almeno in parte, determinato dalla funzione dell’emoji: sostituendo una parola con una emoji, si può rendere un testo meno comprensibile, obbligando il lettore a sforzarsi a interpretarlo e rendendolo così meno gradito. Al contrario, semplicemente aggiungendo una emoji a del testo, ci si limita ad associare un contenuto emotivo ad un testo scritto, che potrebbe renderlo più piacevole.

I risultati ottenuti sono piuttosto interessanti: quando una emoji sostituisce una parola, un tweet piace meno del suo corrispettivo senza emoji, mentre quando una emoji enfatizza (viene aggiunta ad) una parola, un tweet piace di più rispetto al suo corrispettivo senza emoji. Non si sono invece registrati effetti sul numero di retweets. Ciò che più conta, tuttavia, è che questi risultati valgono solo se il tweet contiene disinformazione: nessun effetto risulta statisticamente significativo se il tweet contiene informazione vera.

Una breve nota riguardo all’utilizzo del numero di “Mi piace” come indicatore di diffusione di informazione. L’algoritmo di Twitter mostra a chi ci segue (i nostri “followers”) sia i nostri Tweets e retweets, sia i Tweets per cui abbiamo mostrato interesse clickando sul tasto “Mi piace,” rendendo così tale azione un effettivo strumento di diffusione del Tweet tanto quanto lo è un’azione di redistribuzione diretta come il retweet. Nei contenuti virali, infatti, c’è alta correlazione tra le due misure: moltissimi retweets e moltissimi “Mi piace.” In effetti, il “Mi piace” potrebbe essere considerato una misura anche migliore di diffusione dell’informazione, perché in alcuni casi rappresenta una sponsorizzazione o un sostegno indiretto al contenuto, attenuato rispetto al retweet, e quindi più facilmente e comunemente impiegato dagli utenti di twitter.

Conclusioni

Cosa possiamo dunque concludere da questi studi riguardo all’impatto delle emoji nella diffusione di disinformazione online? Anzitutto, le emoji sono più comuni nell’informazione falsa che nella legittima. Inoltre, la disinformazione, quando diffusa enfatizzando il testo con delle emoji, piace e viene quindi anche diffusa di più.

Ciò suggerisce che chi vuole diffondere disinformazione potrebbe usare le emoji in maniera strategica per manipolare il coinvolgimento emotivo dei lettori, che funge da catalizzatore per la diffusione dell’informazione. Un’ultima considerazione va dedicata all’effetto delle emoji nella diffusione delle informazioni autonomamente effettuata da algoritmi.

I nostri studi si basano sulle reazioni delle persone alle emoji, ma non sappiamo come si comportano gli algoritmi che selezionano contenuti da diffondere. Potrebbero, ad esempio, selezionare disinformazione contenente emoji con maggiore probabilità, visto che il criterio generale utilizzato è la massimizzazione delle interazioni. Allo stesso modo, non sappiamo come questo fenomeno, che potremmo chiamare “effetto emoji” potrebbe influire sull’affidabilità degli algoritmi utilizzati per individuare disinformazione.

Non è chiaro se e come tali algoritmi utilizzino le emoji per stabilire se un contenuto sia falso o legittimo, e ciò potrebbe rappresentare un vantaggio per utenti malevoli che vogliano strategicamente evadere la sorveglianza automatizzata e diffondere disinformazione in maniera più efficace.

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