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Come la Cina manipola i social: una strategia politica

Oltre all’invasiva supervisione di censura politica, la Cina starebbe utilizzando sempre più raffinate strategie di “inquinamento” comunicativo, utilizzate per veicolare disinformazione destinata a rafforzare la propaganda politica favorevole al regime. I pericoli

Pubblicato il 16 Feb 2022

Angelo Alù

studioso di processi di innovazione tecnologica e digitale

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Rispetto alle insidie individuabili online, senza dubbio la manipolazione dell’opinione pubblica sui social media costituisce una delle principali minacce in grado di compromettere la stabilità degli ordinamenti democratici.

Si tratta di un vero e proprio “inquinamento” comunicativo spesso pianificato dai regimi in carica e/o dai partiti politici che controllano la sfera pubblica, talvolta anche con il supporto di aziende private che forniscono servizi di assistenza funzionali a soddisfare le pretese esigenze di propaganda, dagli effetti ancora più amplificati durante il periodo della pandemia COVID-19.

Cina, la libertà di parola online è sempre più compromessa: gli ultimi casi

La Cina e la degenerazione comunicativa della Rete

Negli ultimi anni, come rileva il rapporto Freedom on the Net, il contesto cinese, ad esempio, può essere considerato uno dei casi più controversi di degenerazione comunicativa dello spazio virtuale della Rete, ove proliferano campagne di disinformazione dirette a diffondere, per finalità politiche, fake news, con conseguente alterazione della percezione dell’opinione pubblica.

Il governo di Pechino starebbe cercando di influenzare i media e gli spazi di informazione mediante una serie diversificata di strumenti predisposti per raggiungere tali obiettivi, che peraltro dimostrano un’abile capacità di elaborare strategie comunicative in grado di massimizzare l’efficacia delle campagne manipolative realizzate.

Non solo, quindi, si assiste al perfezionamento delle classiche pesanti restrizioni di censura che mirano a realizzare il tipico “bavaglio” informativo per soffocare il dissenso interno e filtrare le voci indipendenti di giornalisti ed attivisti interessati a diffondere opinioni divergenti rispetto alla narrazione “ufficiale” del “mainstream” istituzionale a senso unico, ma soprattutto diventano sempre più raffinate le strategie di “inquinamento” comunicativo utilizzate per veicolare disinformazione strumentalmente destinata a rafforzare la propaganda politica favorevole al regime.

Uno studio, ad esempio, ha documentato quasi 30.000 account Twitter che hanno amplificato i post di diplomatici cinesi o media statali, con un impatto di viralizzazione attestante ad un range di circa 200.000 volte, prima di essere sospesi dalla piattaforma per violazione delle regole che vietano la manipolazione, mentre i rapporti trimestrali di Google sulle rimozioni di contenuti multimediali pubblicati all’interno della piattaforma YouTube, rilevano la cancellazione di un totale complessivo di canali superiore a 10.000 per aver intrapreso “operazioni di influenza coordinate e/o legate alla Cina”, come peraltro conferma un’ulteriore report a cura di ProPublica.

Secondo un’inchiesta del “The New York Times”, il governo cinese avrebbe deliberatamente “inondato” le piattaforme social con account falsi per aumentare, ricorrendo ad una campagna massiccia di post automatici generati da bot, il numero di finti profili, dalle sembianze di presunti “follower” in apparenza reali come convinti sostenitori del regime, anche con l’intento di “ripulire” formalmente la propria immagine (compromessa dai sospetti internazionali di violazione dei diritti umani soprattutto a discapito delle minoranze) e, al contempo, controllare, con impercettibili tecniche di supervisione, gli avversari politici oppositori, scrupolosamente monitorati dal prodigioso sistema “Great Firewall”.

Una vera e propria strategia dietro la manipolazione dei social

Si tratterebbe di una vera e propria strategia gestita direttamente dai funzionari inquadrati all’interno della solida burocrazia cinese, supportata da aziende specializzate nell’elaborazione di campagne marketing per i social network, al fine di promuovere contenuti di propaganda politica da veicolare online e influenzare l’opinione pubblica.

Tra le varie tattiche di manipolazione vi sarebbe anche la ricerca di influencer di social media di lingua cinese con elevati seguiti internazionali, cui verrebbe offerto di acquistare i propri account o pagarli per pubblicare determinate informazioni concordate.

Sembra, addirittura, che il governo cinese abbia richiesto, tra i vari impegni contrattuali, a ciascun operatore coinvolto nella pianificazione di tali attività, persino mediante formule di abbonamento mensile per la fruizione di servizi di manipolazione dei contenuti, di creare e “animare” circa 300 account al mese, anche di provenienza estera, da utilizzare come “esercito” di profili social falsi per “inquinare” sistematicamente la comunicazione online, con il risultato di “dopare” le informazioni diffuse, a causa del duplice effetto manipolatorio di aggredire gli utenti “ostili” identificati nella condivisione di contenuti critici verso il governo in modo da paralizzarne ex ante la viralizzazione di sostegno, e contemporaneamente incrementare in senso unidirezionale l’engagement del traffico pro-regime favorevole alle relative politiche.

Nel novero delle campagne “celebrative” rientrerebbero anche le strategie comunicative volte ad elogiare la Cina, come forma di accreditamento internazionale, per aver fornito, ad esempio, aiuti durante la pandemia di COVID-19, amplificando al contempo le critiche all’Unione Europea per non aver fatto lo stesso, come azione di delegittimazione e disturbo che sembra intrapresa in via sistemica anche all’interno di altri paesi, ove risulterebbero riferibili ad account collegati alla Cina contenuti veicolati con la finalità di generare sfiducia e destabilizzare l’ordine interno nazionale, unitamente al procacciamento di editori incaricati di pubblicare contenuti negativi e spregevoli nei confronti di minoranze perseguite in Cina.

Parimenti diffusa risulterebbe anche la realizzazione di servizi di videomaking per diffondere contenuti multimediali originali, ritenuti ancora più “performanti” nella capacità di plasmare l’opinione pubblica.

Motivata da esigenze di salvaguardia dell’ordine e della sicurezza pubblica a presidio di interessi generali dello Stato, il modello autoritario dell’Internet cinese consente notoriamente alle forze di polizia, preposte ai relativi controlli, di monitorare in maniera capillare gli utenti che esprimono opinioni politiche, non solo registrati su piattaforme telematiche locali (come, ad esempio, la  piattaforma di social media WeChat potenzialmente utilizzata anche per la disinformazione politica), ma anche se si tratta di attivisti che vivono all’estero: la scoperta delle relative identità permette comunque ai burocrati del regime di esercitare, con notevole forza dissuasiva, forme varie di minacce nei confronti dei familiari residenti in Cina per costringere gli autori dei post incriminati a cancellare i contenuti o addirittura direttamente a rimuovere i propri account.

Rispetto all’invasiva supervisione di censura politica, si aggiungono, quindi, anche account e bot automatici utilizzati per rafforzare le campagne di comunicazione “istituzionale” grazie all’incremento del numero di “mi piace” e del livello di condivisione ai post dei media governativi e statali, sfruttando la visibilità generata dagli algoritmi di indicizzazione, in funzione delle strumentali finalità di propaganda perseguite.

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