il quadro

Perché ci siamo ammalati di “big tech” e la cura è ancora lontana

I nodi del nostro rapporto con Google, Amazon, Facebook e Apple sembrano sempre più venire al pettine. Ultima pietra dello scandalo, la “tassa” del 30% negli store. Ma come sempre è solo uno sintomo di una malattia più grave e più radicata. Facciamo il punto dello scontro e delle soluzioni normative allo studio

Pubblicato il 24 Ago 2020

Federica Maria Rita Livelli

Business Continuity & Risk Management Consultant, BCI Cyber Resilience Committee Member, CLUSIT Scientific Committee Member, FERMA Digital Committee, ENIA Scientific Committee Member

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Se fosse una malattia, diremmo che non passa giorno in cui i sintomi non si aggravino. E si mostrino con un’evidenza sempre più difficile da ignorare.

La malattia del nostro rapporto – di noi utenti, delle nostre società e governi – con le big tech.

Editori vs Fortnite

Le ultime vicende note: Apple e Google hanno eliminato Fortnite dagli app store iOS dopo che Epic Games – gli sviluppatori di Fortnite – con un semplice aggiornamento hanno dato la possibilità agli utenti di effettuare acquisti in-app, scavalcando la Big Tech ed evitandone la tassazione del 30%.

In particolare, molto forte la posizione di Epic Games nei confronti di Apple: è stato lanciato l’hashtag #freeFornite, unitamente ad un video. Interessante notare come tale video rimanda alla stessa pubblicità di Apple “1984” dove, al posto del Grande Fratello (IBM), viene sostituita Apple e si conclude con il messaggio: “Epic Games ha sfidato il monopolio di App Store. In Risposta, Apple sta bloccando Fornite su migliaia di dispositivi. Unisciti alla battaglia per impedire che il 2020 diventi il “1984”.

Di fatto viene contestato ad Apple di essere diventata ciò che una volta contestava, ovvero di controllare i mercati, la concorrenza ed imporre restrizioni inaccettabili e illegali per monopolizzare anche il mercato mobile, impedendo agli sviluppatori di software di raggiungere più di 1 miliardo di utenti attraverso i loro dispositivi mobili a meno che non passino attraverso un unico negozio controllato da Apple.

Google è pure contestata, ma almeno a differenza di Apple consente l’installazione di app tramite canali diversi dallo store ufficiale.

Ma anche gli editori di giornali sono sul piede di guerra e si uniscono a Fornite nel criticare i prezzi e le percentuali applicate da Apple nell’App store.

E’ di questi giorni l’invio di una lettera ad Apple da parte di Digital Content Next – di cui fanno parte editori di testate quali The New Your Times e The Washington Post – che chiede l’abbassamento delle commissioni del 30% per tutti gli abbonamenti sottoscritti all’interno delle app. Di fatto, a fronte della situazione contingente di crollo degli introiti pubblicitari, per coprire tali costi applicati da Apple, i vari gruppi editoriali si vedono costretti ad aumentare il costo degli abbonamenti dal momento che non traggono alcun profitto dallo scaricamento di app dai loro siti.

Tuttavia, è doveroso far notare che questa richiesta di contestazione da parte degli editori rimanda, in realtà, all’udienza del mese di luglio scorso presso la Commissione Antitrust USA. In quell’occasione Apple ha sostenuto che la commissione del 30% sui guadagni derivanti da prodotti e servizi digitali venduti tramite le proprie infrastrutture non è applicata ugualmente a tutti. Infatti, Amazon nel 2016 è riuscita ad ottenere di pagare il 15% di commissioni sugli abbonamenti ad Amazon Prime Video, permettendo alla società di risparmiare su ciascun singolo abbonamento.

Fino ad oggi tale “privilegio” risultava sconosciuto e costituisce un’unica eccezione ad una regola che Apple ha sempre raccontato essere ferrea: una situazione che non poteva comunque passare inosservata agli editori di Digital Content Next, che ne hanno fatto il fulcro della loro lettera ad Apple.

Situazione normativa per limitare il potere delle GAFA (Google, Apple, Facebook, Amazon)

Come annunciato da David Cicilline – capo del USA House Antitrust Sub-committee – il rapporto post-confronto GAFA e le relative raccomandazioni del Governo USA saranno pubblicati entro la fine d’agosto e l’inizio di settembre.

È indubbio che lo storico confronto del 29 luglio ha aperto al Governo USA la strada rispetto a diverse evoluzioni, quali: la possibilità di accusare una qualsiasi delle GAFA di comportamento anticoncorrenziale, oppure di proporre l’aggiornamento delle leggi federali antitrust od anche di considerare entrambe le ipotesi. Quest’ultima – secondo indiscrezioni trapelate dalla Commissione Antitrust – sarà la scelta più probabile soprattutto considerando il fatto che Facebook ha ammesso di aver acquistato un concorrente per le quote di mercato (un’infrazione della legge secondo l’attuale normativa antitrust) ed è risultato a tutti evidente il predominio di Google in ambito pubblicitario.

La situazione è tale che risulta evidente la necessità di promulgare leggi atte a regolamentare il settore “digitale” e soddisfare, in questo modo, i gruppi che operano a difesa delle libertà civili (es. American Economic Liberties Project, Open Markets Institute, Demand Progress e The Institute for Local Self-Reliance), i quali richiedono misure severe nei confronti delle Big Tech, fino a giungere a definire chiaramente quante quote di mercato le stesse possano detenere. Probabilmente, dovremo attendere l’esito delle elezioni Usa del prossimo novembre per sapere se una nuova legislazione antitrust potrà essere promulgata e ciò sarà possibile solo nel caso in cui i Democratici vincessero sia alla Casa Bianca sia al Senato.

Una cosa è certa: sia gli USA sia la Comunità Europea hanno preso coscienza delle dimensioni e del modus operandi di queste aziende (compresi i loro sistemi di comunicazione, il flusso di informazioni e il commercio) e della loro influenza sulle società democratiche a tal punto da considerare nei prossimi mesi di varare una serie di ulteriori leggi e regolamentazioni per limitarne il potere incontrastato.

In particolare, la Comunità Europea sta prendendo sempre più di mira le GAFA dato che le leggi antitrust degli ultimi anni e le pesanti multe ad esse inflitte non sembrano aver indotto le società a adottare comportamenti più corretti. Sono in cantiere una serie di proposte di leggi e regolamentazioni europee che, se emanate, potrebbero indurre ad una profonda revisione dell’economia digitale in Europa riuscendo finalmente a regolamentare le GAFA, così come verificatosi in passato per le società di telecomunicazioni e della finanza. Inoltre, c’è chi sostiene che la Comunità Europea non dovrebbe limitarsi a regolamentare le GAFA, bensì dovrebbe un leader nell’innovazione tecnologica, nel tentativo di contrastarle.

In quest’ottica vanno interpretate le iniziative autonome di vari paesi europei: Gran Bretagna che sta varando una legge per costringere Facebook a far funzionare più facilmente i propri servizi anche sui social network rivali e indurre Google a condividere alcuni dati di ricerca con concorrenti più piccoli; Germania che sta valutando di introdurre una normativa che permetta di impedire – in sede di indagine antitrust – alcune pratiche commerciali delle GAFA.

La presidente della Comunità Europea, Ursula von Der Leyen, a fine gennaio, ha pubblicato le linee guida 2019-2024 definendo tra gli obiettivi quello di garantire un’Europa “adatta all’era digitale”. Si conferma in esse l’impegno nella stesura di norme per i servizi digitali (i.e. Digital Service Act), per l’Intelligenza Artificiale (i.e. “White Paper on Artificial Intelligence: a European approach to excellence and trust”), per la governance dei dati, per la revisione delle norme sulla concorrenza e per nuove norme sulla tassazione.

A European strategy for data

Nel documento “A European strategy for data” – presentato a febbraio 2020 – La Comunità Europea ha confermato, inoltre, la propria volontà di diventare un attore attivo nel facilitare l’uso e la monetizzazione dei dati personali dei suoi cittadini. Trattasi di una serie di misure politiche e di investimenti, che comporterà un cambiamento radicale, passando dalla protezione della privacy individuale alla promozione della condivisione dei dati come dovere civico. Nello specifico, si prefigge di creare un mercato paneuropeo per i dati personali attraverso un meccanismo chiamato Data Trust che gestirà i dati delle persone per loro conto, avrà doveri fiduciari nei confronti dei propri clienti e dovrebbe essere varato entro il 2022: un vero e proprio pool di informazioni personali e non personali che dovrebbe diventare uno sportello unico per aziende e governi che desiderano accedere alle informazioni dei cittadini.

Ciò comporterà che le GAFA non potranno più memorizzare i dati degli europei o spostarli al di fuori dell’area e che sarà loro richiesto di accedervi tramite i Data Trust. I cittadini raccoglieranno “dividendi per i dati”, che potrebbero includere pagamenti monetari o non monetari da società che utilizzano i loro dati personali. In questo modo i Data Trust faranno riferimento a circa 500 milioni di cittadini europei che diventeranno fonti di dati, dando origine al più grande mercato di dati del mondo.  Inoltre, i dati – sia creati dai cittadini europei sia generati su di essi – saranno conservati in server pubblici e gestiti dai Data Trust. Si ipotizza che tali Data Trust potranno supportare le imprese e i governi europei, potranno riutilizzare ed estrarre valore dalle enormi quantità di dati prodotti in tutta l’area europea e, al contempo, permettere ai loro cittadini di beneficiare delle stesse proprie informazioni. La documentazione del progetto, tuttavia, al momento, non fornisce informazioni chiare sui compensi da destinarsi ai singoli individui.

Vale la pena sottolineare come la separazione delle informazioni personali dall’infrastruttura delle piattaforme costituirebbe un importante avanzamento nella politica di contenimento del potere di monopolio delle GAFA in termini di gestione dei dati e, al contempo, si rivelerebbe come una modalità più equa per acquisire e distribuire il vero valore dei dati personali.

Il futuro dell’Europa si regge sui dati. Pizzetti: “Così l’UE ha cambiato approccio”

 

In conclusione: se i dati “governano il mondo”

Già nel 2011 Parag Khanna – politologo indio-americano, direttore della Global Governance Initiative e consigliere di Barak Obama –  sosteneva che “attori non statali” sarebbero diventati “più potenti degli Stati nazionali”: una profezia divenuta realtà con la crescita delle GAFA, capaci ormai di influenzare la politica, l’economia e le società a un livello transnazionale  tale da indurre i vari Stati a gestire  sempre più spesso problematiche di sicurezza, di salvaguardia della privacy dei cittadini e del benessere delle aziende nazionali, sempre più minacciate dalla concorrenza di queste società digitali. SI potrebbe arrivare ad evitare fornitori esteri per lo sviluppo di tecnologie e infrastrutture critiche (vedi caso Huawei), oppure ad approvare norme stringenti sulla raccolta e l’utilizzo dei dati personali oltre ad innalzare barriere economiche “protezionistiche”, rischiando di ergere muri e restrizioni di vario tipo capaci perversamente di ostacolare l’innovazione del Paese.

Sarebbe auspicabile che i Paesi riuscissero a gestire i due lati della medaglia, ovvero, da un lato evitare i rischi dell’under-enforcement della legge antitrust nei mercati digitali e dall’altro lato, evitare di creare casi di over-enforcement a discapito di quelle piattaforme digitali che intraprendono investimenti consistenti per innovare e per promuovere rapidamente il benessere dei consumatori. Indubbiamente questo obiettivo non è facile da raggiungere, dato che, come ben sappiamo, regole troppo stringenti e standard troppo elevati in termini di gestione dei dati ed il monitoraggio dei contenuti pubblicati sulle piattaforme, potrebbero paradossalmente avere l’effetto di rendere le GAFA ancora più forti, invece di stimolare la concorrenza: infatti il rispetto di queste regole risulterebbe talmente costoso che, alla fine, solo le aziende più grandi potrebbero permetterselo.  Pertanto, non ci resta che essere consapevoli che, oggi, le fondamenta della democrazia e dello spazio pubblico sono minacciate alla radice da una nuova forma di potere: quello algoritmico. Siamo di fronte ad una “algocrazia” e ad un capitalismo di sorveglianza: dinanzi a ciò non ci resta che prendere consapevolezza della nostra incapacità di far valere l’origine “libertaria” delle tecniche computazionali rispetto ai cosiddetti “istinti predatori e proprietari” delle GAFA, che estraggono valore dai nostri dati invece che crearlo e che, attraverso gli algoritmi, estendono il proprio dominio del calcolo alla società, rendendo gli stessi algoritmi inaccessibili, autoritari e categorici.

Mi piace ricordare quanto afferma Simon McCarthy-Jones – professore associato di Psicologia clinica e Neuropsicologia al Trinity College di Dublino – ovvero che chiunque utilizzi i nostri dati, per creare conoscenza su di noi, dovrebbe, per legge, restituirci tale conoscenza. Pertanto, secondo l’accademico, è necessario vigilare sull’AI a fronte del potere che essa esercita su ciò che sa di noi stessi e ricordarci che qualsiasi dato su di noi gestito da altri si traduce in potere su di noi, mentre un dato su di noi che viene gestito da noi si converte in potere per noi.

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