Consumi culturali

“Riproduci qualcosa” di Netflix: il paradosso di vivere on demand e non sapere cosa scegliere

La nuova funzione “riproduci qualcosa” di Netflix rende ancor più palese la cessione di sovranità alle piattaforme online. Nel mare magnum delle proposte culturali, ci accorgiamo che la scelta si paga con lo sforzo e lo sforzo è un lusso che richiede risorse fisiche, intellettive, relazionali di cui non tutti disponiamo

Pubblicato il 27 Mag 2021

Sabino Di Chio

Docente di Media e Consumi Culturali, Università degli Studi di Bari

big tech schermi digitale

Vivere on demand e non sapere cosa chiedere. Il paradosso è noto a chi frequenta i servizi digitali e nasce dal corto circuito tra offerta illimitata e limiti oggettivi di chi deve scegliere, combattendo con indecisione, noia o il sonno “vero competitor” di ogni piattaforma nelle parole del fondatore di Netflix, Reed Hastings[1].

È proprio Netflix a riportare il tema alla ribalta con il recente aggiornamento della user experience televisiva che inserisce l’opzione “riproduci qualcosa”, utile per diminuire l’horror vacui che evidentemente assale più di un utente alla vista del catalogo[2]. Chi c’era nei ’90 ricorderà un simile smarrimento tra i corridoi di Blockbuster nello scegliere una cassetta che idealmente avrebbe dovuto allietare la serata invece poi trascorsa in videoteca. E chi c’era nei 2000 ha più volte ringraziato la riproduzione casuale degli iPod in grado di risolvere l’impasse al motto di “life is random”[3].

Contro gli algoritmi che ci manipolano, l’educazione psicosociale degli utenti

Libertà di scelta e decision fatigue

Sorprende ritrovare la riproduzione casuale, però, in un tempio del consumo culturale contemporaneo come Netflix che del dare il controllo all’abbonato ha fatto una bandiera: vacilla il dogma della libertà di scelta, che ha dominato incontrastato i consumi culturali (e non solo) negli ultimi vent’anni?

La libertà ha un costo e un quindicennio vissuto sulle piattaforme ne ha mostrato il prezzo. La scelta si paga con lo sforzo e lo sforzo è un lusso. Per permetterselo non servono soldi ma risorse fisiche, intellettive, relazionali che diano forza alle convinzioni. Non tutti, però, ne dispongono in abbondanza e nessuno all’infinito. Lo ha spiegato qualche anno fa la sociologa slovena Renata Salecl (La tirannia della scelta, Laterza, 2010) quanto sia illusoria questa libertà. Abbiamo il dovere di comporre il palinsesto della nostra vita e delle nostre serate nell’esaudire i nostri desideri per sorprenderci troppo spesso privi della materia prima. Gli psicologi parlano di decision fatigue: la qualità decisionale sembra deteriorarsi dopo una lunga sessione di scelte. E in fondo la tecnologia non ha fatto altro che allineare l’offerta culturale alla sensibilità tardo moderna centrata sulla successione infinita delle scelte. L’individuo gestisce la sua identità fuori da ogni vincolo tradizionale, ricorda Bauman[4], come costruzione e selezione fra opzioni alternative. Questo è vero dalle appartenenze politico/religiose all’uso del corpo, dai trattamenti sanitari (si pensi all’atteggiamento diffuso sui vaccini) alla composizione familiare, figuriamoci per i consumi culturali che le identità contribuiscono a plasmare e consolare con l’immersione in un bacino di immagini e modelli di comportamento. L’offerta informativa è abbondante, ogni autorità consolidata è delegittimata nel ruolo di riduttore di complessità, il tempo per valutare le opzioni si contrae nel collasso della distinzione pubblico/privato: non resta molta energia davanti agli schermi per continuare ad inforcare bivi anche nei momenti di relax.

Libertà di scelta e rischio omologazione

Eppure, le connessioni non ammettono gerarchie, ognuno è terminale di un’infinità di contenuti smaterializzati da fruire in piena autonomia: nessuno può imporre orari, durate, temi. Nell’abbondanza si scava in solitudine un percorso cucito addosso ai propri gusti e routine. La scelta è certo uno strumento di emancipazione che sottrae all’oppressione degli intermediari culturali, che nei legacy media selezionavano i contenuti, li valutavano e poi li confezionavano immaginando un “pubblico” massa indistinta, da aggregare puntando sulla banalità dei minimi comuni denominatori a cui ancorare quintali di pubblicità. Esplosa la gabbia dell’omologazione, però, cosa è rimasto ad orientare le scelte?

C’è il passaparola dei contatti, che fanno dei consumi culturali una forma di collante comunitario. Anche le cerchie però non sono infinite e il serbatoio dei consigli si esaurisce presto, restituendo il sapore posticcio della conferma delle proprie attitudini riflessa in quelle simili di chi frequentiamo. Per non soffermarsi sull’effetto collaterale della coda lunga di Chris Anderson, la frammentazione del pubblico in nicchie non più in grado di pensarsi come contemporanee e di riflettere insieme attraverso l’arte e l’intrattenimento sui dilemmi del presente, un aspetto che dirada ancora di più i criteri di scelta restringendoli allo stretto novero delle inclinazioni personali.

Dopo il passaparola, c’è l’architettura del catalogo. La prima forma di suggerimento sono le classifiche. La digitalizzazione semplifica la classificazione dei brani più ascoltati, dei video più visti, dei trend topic. È una proposta classica che di certo non mantiene la promessa di liberarsi dall’omologazione anzi la rafforza: come ricordano Brynjolfsson e McAfee (La nuova rivoluzione delle macchine, Feltrinelli, 2014), le top ten sono un formidabile veicolo di polarizzazione dei mercati attraverso la perpetuazione dei vantaggi di pochi vincitori su una pletora di anonimi perdenti.

Infine, ci sono le raccomandazioni della piattaforma, in altre parole la sorveglianza. Netflix, ad esempio, segue con attenzione i dati biografici e il comportamento degli utenti, misura quanto tempo si passa sugli episodi, quante pause si fanno, quanti abbandoni nel bel mezzo di una serie, quanti fast forward contro la noia. I dati sono trasformati poi in correlazioni statistiche per il confezionamento dei contenuti, prima, e dei suggerimenti, poi. L’obiettivo è rendere calcolabile il gusto per poterlo prevedere e soddisfare in obbedienza all’ideale che recita “ogni cosa è un suggerimento”. L’effetto finale è gradevole per il mix di qualità e intimità che l’offerta Netflix sa creare ma, anche in questo caso, l’omologazione non sembra sparire dietro una personalizzazione che Ed Finn (Che cosa vogliono gli algoritmi, Einaudi, 2017) definisce “corrotta” perché presenta come cuciti su misura prodotti di massa progettati per creare fan e mantenerli fedeli alla sottoscrizione dell’abbonamento.

Senza una forza di volontà ferrea, dunque, le sirene dell’omologazione si rafforzano su piattaforme streaming che esercitano una mediazione totalitaria non così distante da quella degli apparati novecenteschi, con due fattori aggravanti: la frammentazione dell’opinione pubblica e la subalternità del prodotto artistico allo sguardo insistente sulle abitudini di consumo a fini di marketing.

La nuova funzione “riproduci qualcosa” che sforna proposte tarate sulla stessa base dati che contribuisce alla composizione estetica del catalogo, in questo scenario non appare dunque un’anomala cessione di sovranità dell’utente ma un atto di trasparenza. Quella cessione, a ben vedere, avviene all’atto stesso dell’iscrizione con il pieno consenso di entrambe le parti affinché la piattaforma, lasciandoci l’illusione della libertà, prenda il controllo col suo potere discreto e nascosto e ci esoneri della responsabilità di una scelta che non vogliamo più sopportare. Il play something ha il merito di renderlo soltanto un po’ più evidente.

  1. https://www.theguardian.com/technology/2017/apr/18/netflix-competitor-sleep-uber-facebook
  2. https://www.vulture.com/article/netflix-play-something-decision-fatigue.html#comments
  3. https://www.youtube.com/watch?v=0d8aVzQY4Zo
  4. Intervista sull’identità, Laterza, 2009 (a cura di Benedetto Vecchi)

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