hate speech

Social, così manipolare le emozioni è diventato un business

La manipolazione diventa sempre più uno strumento al servizio di chi detiene potere nella comunicazione mediale ed è in grado di utilizzarlo, sfruttando i processi virali connaturati nella struttura di rete per diffondere odio e intolleranza facendo leva sul contagio emotivo. Vediamo quali strumenti possono fare da argine

Pubblicato il 01 Ott 2019

Daria Grimaldi

docente di psicologia sociale delle comunicazioni di massa, Università di Napoli Federico II

social media

Sdoganato nella comunicazione politica, l’uso aggressivo della comunicazione social ha incoraggiato un altrettanto scurrile e violento linguaggio della massa, e non solo online. Ma a differenza di chi è in grado di gestire e usare il fenomeno in senso manipolatorio, la gran parte delle persone non è consapevole dei meccanismi e delle dinamiche che sottendono le proprie scelte nel mondo digitale o ne sottovaluta l’impatto.

Competenze comunicative e cultura del linguaggio diventano allora baluardi per arginare una comunicazione sempre più spesso orientata all’odio e all’intolleranza.

Cosa succede quando clicchiamo “mi piace”

Pochi, tra gli utenti social, ad esempio, sono consapevoli che con un semplice click si innescano due principali effetti: uno che riguarda il contenuto, l’altro noi stessi.

Seguendo pubblicazioni, like e le condivisioni di una persona appena aggiunta su Facebook, solo da quello che mi compariva sulla bacheca e senza accedere al suo profilo, in un solo giorno ho scoperto: dove viveva, che era mamma, che era impiegata, dove era stata in vacanza, che si era iscritta in palestra pochi giorni prima ed aveva discutibilissimi gusti musicali. Se avessi continuato ad osservare nei giorni successivi avrei probabilmente saputo molto altro.

In effetti, capita spesso a molti di noi di cliccare “mi piace” su Facebook o altri social senza prestare poi così troppa attenzione al contenuto. Ancor di meno ci capita di riflettere che con quel gesto così semplice, non solo stiamo incrementando la visibilità di quel post ma stiamo condividendo qualcosa di noi, offriamo informazioni su di noi.

D’altronde, è proprio la semplicità con cui partecipiamo alla comunità social che ne decreta quotidianamente il successo: quel disimpegno con cui possiamo impegnarci in una partecipazione collettiva senza però avere razionalmente contezza delle implicazioni dei nostri gesti.

Ma la domanda è: perché clicchiamo like, condividiamo e commentiamo proprio alcuni contenuti e non altri?

Ogni minuto su Facebook compaiono 41mila post e vengono cliccati 1,8 milioni di like, si caricano circa 72 ore di video su YouTube e mentre vengono pubblicati 278mila cinguettii su Twitter, su Instagram si condividono 3600 foto a cui si aggiungono i circa 8500 cuoricini al secondo.[1] Come facciamo, in questo marasma comunicativo, a selezionare quello che ci interessa, a decidere dove partecipare attivamente o a chi rispondere?

Le emozioni nel linguaggio dei social

Al di là dei processi di conformismo e desiderabilità sociale che giocano un ruolo cruciale, con molte probabilità, il criterio che vince, che attira la nostra attenzione nel minor tempo possibile e ci spinge ad agire (fare like e condividere) è solo uno: l’emozione.

Nel linguaggio dei social network le emozioni diventano la cifra dominante: decidono se faremo like o se ignoreremo un contenuto, se parteciperemo attivamente ad una conversazione o la osserveremo solo dietro le quinte, se condivideremo un post o lo lasceremo scorrere nel nostro news feed.

Erroneamente, siamo convinti di utilizzare la nostra razionalità per selezionare i contenuti e commentarli, siamo certi che dietro i nostri comportamenti ci siano motivazioni logiche ed una accurata e ragionevole selezione dietro le nostre azioni. In realtà questa convinzione è semplicemente un bias cognitivo (Overconfidence Bias), la diffusa tendenza a riporre eccessiva fiducia nelle proprie scelte.

Come evidenziato già da Herbert Simon (1955), durante il processo decisionale la razionalità di un individuo è limitata da vari fattori: dalle informazioni che possiede, dai limiti cognitivi e dalla quantità finita di tempo di cui dispone. Partendo proprio da quest’ultimo punto, è evidente che la frenesia delle comunicazioni sui social network riduca drasticamente il tempo per decidere se un certo contenuto merita la nostra attenzione o meno. In più, da una parte, la velocità con cui le notizie diventano obsolete in rete ci porta a non approfondire i contenuti che compaiono sul nostro news feed, dall’altra, l’informazionale induce un carico cognitivo che il nostro cervello non è in grado di gestire.

Da qui la ragione per cui la nostra partecipazione online sia difficilmente così razionale come crediamo.

Già normalmente gli esseri umani utilizzano le euristiche per prendere decisioni in tempi rapidi, avvalendosi di queste scorciatoie mentali che si attivano inconsapevolmente e sotto la guida delle emozioni.[2]

In rete questo processo aumenta esponenzialmente per via della numerosità di comunicazioni a cui siamo esposti e con le quali vogliamo interagire velocemente per sentirci parte attiva della comunità.

Parliamo soprattutto di emozioni primarie che per valenza si orientano su un continuum di piacere e dispiacere: modulano le nostre azioni mobilizzando risorse attentive che orientano il comportamento verso lo stimolo o lontano da esso e contestualmente riducendo la capacità di spostare l’attenzione da ciò che ha attivato l’esperienza emotiva. Per intenderci, se qualcosa genera in noi una reazione, saremo orientati in due direzioni opposte – avvicinamento o fuga – che condividono di per sé la spinta all’azione e non riusciremo a restare indifferenti.[3]

In questo senso diviene fondamentale individuare il ruolo dell’orienting da parte di alcuni stimoli in grado di elicitare un’emozione nei primi istanti d’esposizione.

Sui social quello che ci colpisce sul piano affettivo, nel bene o nel male, ci porta a voler mostrare il nostro apprezzamento o disappunto facendo like, condividendo o commentando immediatamente. L’urgenza della comunicazione amplifica la risposta emozionale, ma tutto in un processo che si verifica inconsapevolmente: l’appraisal (la valutazione della emozione) è una dinamica inconscia che va distinta dalla razionalizzazione.

La differenza tra elaborazioni affettive e cognitive è che le prime hanno lo scopo di valutare l’importanza dello stimolo (mi interessa o non mi interessa), mentre le seconde intendono ottenere una buona rappresentazione dello stesso (perché mi interessa o meno). Raramente la nostra partecipazione attiva online coinvolge elaborazioni sistematiche, ma – come detto – si avvale di quelle euristiche che permettono di lavorare su una rappresentazione semplificata, probabile e più rapida, per quanto non necessariamente attendibile.

Il meccanismo dell’emozione è immediato e polarizzato e va nettamente distinto sia dal meccanismo del sentimento, che fornisce un’idea più organizzata delle reazioni che da quello della cognizione. Quello che accade online è che la maggior parte delle volte non maturano i momenti successivi e la reazione si ferma alla risposta emozionale.

Le “reaction” sono per definizione immediate, emotive, non razionali e polarizzate; per dirlo in una parola sono “semplici”, per quanto producano effetti complessi.

Tra questi indubbiamente non si può sottovalutare il potere del contagio.[4]

Contagio emotivo e manipolazione

Le emozioni che si esprimono e si condividono sui social media possono influire sugli stati emotivi dei propri interlocutori come un vero e proprio virus sociale. Semplicemente leggendo uno status o vedendo un contenuto fortemente connotato emotivamente, possiamo modificare il nostro umore orientandolo inconsapevolmente nello stesso verso. [5]

Di fatto non è casuale che i social ci invitino a condividere le nostre emozioni, apparentemente per animare il senso di comunità, concretamente impiegando per i propri scopi queste informazioni, con il nostro – spesso inconsapevole – benestare. Basti pensare che le applicazioni analitiche dei Big Data sono in grado di ricavare solo dai nostri “like” un quadro sufficientemente completo dei nostri interessi: monitorando la partecipazione profilano il comportamento in modo da offrire al proprio pubblico contenuti sempre più in linea con i personalissimi “desiderata”. Questo, da una parte, aumenta per gli utenti la piacevolezza dell’esperienza online su quel network, dall’altra permette agli inserzionisti di avere target mirati a cui offrire i propri prodotti. [6]

Nel celebre studio pubblicato su PNAS, condotto con l’Università della California e la Cornell, emerge con evidenza sperimentale il ruolo e l’uso del fenomeno del “contagio emotivo” sui social media, soprattutto per ciò che riguarda i contenuti ad alto impatto emotivo, come foto e video, che sembrano avere una maggiore caratterizzazione alla diffusione virale.[7]

Ciò che fa riflettere è che lo stato d’animo acquisito online, essendo indotto dal contagio è indiretto, ovvero spesso matura e genera effetti inconsapevolmente.

Questo lascia spazio ad azioni pianificate, essendo possibile indurre le persone a provare determinate emozioni a loro insaputa. La manipolazione diventa uno strumento al servizio di chi detiene potere nella comunicazione mediale ed è in grado di utilizzarlo, sfruttando questi processi virali connaturati nella struttura di rete.

Un esempio, cronologicamente a noi vicino, è l’uso propagandistico della violenza verbale che si è andato sviluppando in rete da parte di alcuni esponenti e movimenti politici, che hanno utilizzato il contagio emotivo in senso manipolatorio per divulgare un tipo di comunicazione orientata all’odio ed all’intolleranza (hate speech). La modalità espressiva viene utilizzata strumentalmente per fare leva sulla paura ed alimentare quel senso di atomizzazione che attiva il desiderio di affidare ad un leader carismatico la risoluzione dei problemi.[8]

Oggi l’hate speech è un fenomeno sempre più diffuso online che sta rischiando di incrinare la storica fiducia nella democrazia della rete. Il suo diffondersi indubbiamente trova spazio proprio nelle dinamiche di contagio emotivo indotto dalle nuove narrazioni social.[9]

Gli ambienti online possiedono caratteristiche che incoraggiano il comportamento aggressivo, prolungandone ed amplificandone l’impatto.[10]

Anzitutto gioca un ruolo prioritario l’anonimato, che ha effetti disinibenti perché induce a percepire una sorta di “protezione” rispetto agli effetti del proprio comportamento e rende le persone più audaci di quanto non lo sarebbero di persona. Se si chiede ad un odiatore di argomentare il proprio contributo o confrontarsi con la persona offesa con ogni probabilità modificherà toni e posizioni.

A questo si aggiunge la distanza fisica, che permette di differire la comunicazione ed impedisce di monitorare l’impatto sull’interlocutore. Se offendo qualcuno online è più difficile che possa essere coinvolto in una reazione empatica: non lo guardo negli occhi e non vedo direttamente la sua reazione non verbale.

Ancora, l’amplificazione virale della dimensione dell’audience, anche attraverso condivisioni e ri-pubblicazioni, rende un messaggio violento più incisivo e pericoloso, generando un impatto emotivo decisamente più intenso. Si pensi al bullismo. Il fenomeno non è nato con la rete, ma è presente da sempre nelle dinamiche dei ragazzi o più in generale nell’atteggiamento di alcuni individui su altri considerati – a torto o a ragione – più deboli. Il problema, quando diventa cyber bullismo, è proprio l’effetto virale che rende impossibile sapere chi e quanti hanno assistito all’episodio o all’offesa.

A questo si aggiunge la permanenza del contenuto online, che impedisce una rimodulazione dei toni o una riduzione emotiva dell’impatto dovuta al passare del tempo. Toni violenti usati online restano eternamente tali, memento di un’aggressività che alimenta sempre gli stessi sentimenti, sia in chi viene contagiato che in chi viene colpito.

Infine, ma non meno rilevante, ad alimentare l’hate speech e la violenza di rete concorre l’uso di strumenti multimediali, che non solo facilitano estremamente la condivisione immediata e virale, ma sono per loro natura efficaci stimoli elicitanti di reazioni emotive. Una immagine ben strutturata o una videoregistrazione attirano sinteticamente l’attenzione online e con poche indicazioni verbali possono fomentare gli interlocutori. Si pensi alle immagini modificate o decontestualizzate a cui si aggiungono commenti fasulli, contenuti creati ad arte per alimentare in modo facile ed immediato odio in rete. Ad esempio, le foto dei migranti con cellulari a cui si aggiunge il commento sull’assurdità di fuggire dalla guerra con smartphone di ultima generazione. Fake news come queste sono realizzate per manipolare l’informazione di massa ed orientarne l’impatto emotivo in senso aggressivo.

Le parole sono importanti

Se già nelle classiche strategie persuasive l’emozione è una leva centrale, con l’affermarsi del linguaggio social le parole e le immagini mirano a colpire sempre di più l’istinto degli interlocutori, ad offrire un impatto emotivo dirompente che possa attirare l’attenzione nel mare magnum di informazioni circolanti.

Questo fenomeno ha acquisito una dimensione tale, soprattutto in politica, da prendere la forma di “emologismo” : frasi e formule che funzionano come emoticon o emoji. In sostanza, le emozioni si sostituiscono alle idee.[11]

Scevra di tecnicismi, popolare e non elitaria, la narrazione social viene resa sempre più semplice ed immediata, accuratamente orientata all’emotional sharing; costruita sull’impatto emotivo, ha come unico obiettivo quello di generare consenso e condivisione.

Per parlare “a tutti” la semplificazione è necessaria e per attirare l’attenzione la sintesi è irrinunciabile: i 140 caratteri diventano metaforicamente la misura della comprensione. Pare, oggi, sempre più che un ragionamento debba poter entrare in un tweet per essere efficace, ma per attirare l’attenzione e diffondersi in maniera virale deve inevitabilmente essere fortemente emozionale. Nel bene e nel male, poco importa.

L’aumentato tasso di aggressività social si è accompagnato ad un crescente uso di linguaggio rissoso anche nell’offline.

Se il crescente analfabetismo funzionale ne è causa ed effetto, la maggior parte degli utenti si lascia trasportare e contagiare, a prescindere dal proprio livello di istruzione o dalla propria indole: la maggior parte delle persone è ignara delle dinamiche implicite che sottendono le proprie scelte e la propria partecipazione online o ne sottovaluta l’impatto.

Quello che, in tal senso, preoccupa è l’utilizzo di questa dequalificazione comunicativa da parte di chi è assolutamente in grado di gestire ed usare il fenomeno in senso manipolatorio.

Per comprendere la rilevanza della questione ci deve far riflettere quanto la manipolazione della comunicazione sui social media sia sempre di più un business.

Nell’ultimo decennio i partiti politici, i governi e grandi aziende hanno investito risorse economiche per la ricerca, lo sviluppo e l’implementazione di operazioni psicologiche e la manipolazione dell’opinione pubblica sui social media – così come ci racconta lo scandalo di Cambridge Analitica. Il comun denominatore è l’uso del contagio emotivo come chiave per generare azioni (apparentemente) volontarie da parte degli utenti. [12]

Questo ci aiuta a sostenere che, pur senza cadere in posizioni apocalittiche, è evidente la necessità di lavorare su intelligenza emotiva e competenza comunicativa del singolo cittadino, attraverso la creazione e la valorizzazione di una cultura del linguaggio in rete (ma non solo), per agire in modo consapevole, aumentando il livello di responsabilità e controllo personale nelle interazioni digitali.

____________________________________________________________________

  1. Data ultima consultazione 16 settembre 2019
  2. Per approfondire: Amos Tversky, D. Kahneman (1974) – Judgment Under Uncertainty: Heuristics And Biases; Tversky, D. Kahneman (1983) – Extensional Versus Intuitive Reasoning: The Conjunction Fallacy In Probability Judgment.
  3. Per approfondire: Cacioppo, J. T., Klein, D. J., Berntson, G. G., & Hatfield, E. (1993). The psychophysiology of emotion. In M. Lewis & J. M. Haviland (Eds.), Handbook of emotions (pp. 119-142). New York, NY, US: Guilford Press. Öhman, A., & Soares, J. J. (1993). On the automatic nature of phobic fear: Conditioned electrodermal responses to masked fear-relevant stimuli. Journal of Abnormal Psychology, 102(1), 121-132.; Why worry? The cognitive function of anxiety. Mathews A. Behav Res Ther. 1990; 28(6):455-68. Williams, J. M. G., Watts, F. N., MacLeod, C., & Mathews, A. (1988). The Wiley series in clinical psychology. Cognitive psychology and emotional disorders. Oxford, England: John Wiley & Sons. Damasio A. (2003), Alla ricerca di Spinoza, Adelphi
  4. Ferrara E, Yang Z. (2015) Measuring Emotional Contagion in Social Media. PLoS ONE 10(11): e0142390.
  5. A.D.I. Kramer, J.E. Guillory, J.T. Hancock, Experimental evidence of massive-scale emotional contagion through social networks – PNAS 25 marzo 2014
  6. Colombo F. (2013) Il potere socievole. Bruno Mondadori
  7. Si leggano al riguardo: Penny L., Gli esperimenti totalitari di Facebook – Internazionale 11/7/2014; R.M. Bond, C.J. Fariss, J.J. Jones, A.D. I. Kramer, C. Marlow, J.E. Settle, J.H. Fowler, A 61-million-person experiment in social influence and political mobilization – Nature 12 settembre 2012
  8. Si veda in proposito: Grimaldi D. 2018 Propaganda digitale, così ci manipola: tecniche e strumenti
  9. Cohen-Almagor R. (2014), Countering hate on the Internet – A REJOINDER Annual Review of Law and Ethics, Vol. 22 (2014), pp. 431-443
  10. Wallace P. (2017) La psicologia di Internet, Raffaello Cortina editore
  11. Antonelli G., Corriere della sera, 5 febbraio 2017, La Lettura, p. 17
  12. Bradshaw S., Howard P. 2018 Challenging Truth and Trust: A Global Inventory of Organized Social Media Manipulation Computational Propaganda Research Project

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