Ecosistema dell'innovazione

I term sheet che una startup non deve firmare: com’è fatto il Venture Investing italiano e perché non funziona

Il nanismo dell’ecosistema startup italiano è dovuto anche alla scarsa cultura al Venture Investing. Spesso in Italia gli accordi che regolano le condizioni di investimento, i term sheet, sono complicati e a vantaggio degli investitori. Vediamone un esempio, per capire com’è fatto il Venture Investing italiano

Pubblicato il 08 Mar 2021

Giuseppe Balzano

Alternative Investment Manager and Entrepreneur

Per analizzare il Venture Investing italiano e comprenderne alcune delle sue caratteristiche, può essere utile utilizzare un esempio di term sheet, l’accordo che regola le condizioni di investimento.

L’ecosistema startup italiano è rimasto indietro, soprattutto rispetto ai cugini europei e, ancor di più, rispetto a quello americano. “Trovarsi indietro” è diventato quasi un assunto da cui partire, per tentare di scalare i numeri che mettono in difficoltà l’Italia in tutti i rapporti di settore.

Il Venture Investing non è un piccolo Private Equity

Perché le startup americane si rivolgono al mondo mentre quelle, pochissime, italiane, all’Italia?

Per analizzare una startup, non ci si può soffermare sulle metriche finanziarie, ma sulla loro evoluzione nel tempo. Ad una startup non si può assegnare un “Fair Value”, perché il valore risiede nell’obiettivo che si prefigge di raggiungere nel lungo periodo, una volta raggiunta la maturità; ad una startup non si possono porre vincoli stringenti già in fase di investimento Seed, perché risulterebbero grandi ostacoli da superare, con non poche difficoltà, durante la corsa ai round successivi, i più importanti.

Ma, in Italia, non è così: il “nanismo” di cui soffriamo non miete vittime esclusivamente tra gli imprenditori. Anche l’ecosistema Venture Capital italiano non ha ancora trovato una valida difesa rispetto ai bias derivanti da una forte impostazione finanziaria.

Gianmarco Carnovale, tra i pionieri dell’innovazione sulla scena romana, sostiene che spesso il Venture Investing italiano assomiglia ad un Private Equity in piccola scala, con operatori in cerca di EBITDA positivo, di IRR a singola cifra e inclini a valutazioni e strumenti per inquadrare qualunque startup in un modello tradizionalista, molto simile a quello delle PMI.

Il risultato, quando non porta al fallimento del progetto, è l’ottenimento di una piccola azienda italiana, con clientela italiana, con numeri italiani e valutazioni italiane.

Come (non) funziona il Venture Investing in Italia

Il Venture Capital dovrebbe essere un abilitatore e non un freno alla forte spinta all’innovazione degli imprenditori. Ma purtroppo non sempre accade, ed è evidente dal confronto delle testimonianze dei founders emigrati con chi prova a scalare con capitali italiani.

Per chi non è abituato all’ “Ecosistema Italia”, alcune situazioni e rapporti sono difficili da comprendere: il caso più eclatante è quello di un VC italiano che investe in un gruppo di ricercatori universitari, prima che questi fondino la società. Se di per sé, ciò non costituisce un buon inizio: il diritto ad investire per primi, in un imprecisato futuro, con un forte sconto e con una valutazione comunque già concordata e sottostimata, non può che abbattere anche gli animi più positivi. Che dire, inoltre, degli acceleratori di imprese a pagamento, degli incubatori il cui modello di business è basato sull’affitto di scrivanie e servizi, dei Business Angel che recuperano l’investimento effettuato fatturando delle consulenze, obbligatorie, alle startup stesse? Che dire delle moltissime figure professionali che entrano in cap table senza alcun investimento, bensì in cambio di un Business Plan standardizzato e di una manciata di consigli poco utili? Tutto ciò lascia l’amaro in bocca.

Il pericolo più grande per uno Startupper, però, arriva al momento del primo round seed istituzionale: il team si trova di fronte al primo term sheet e alla firma delle clausole a cui è subordinato l’investimento.

Venture Investing: un esempio di term sheet che non devi firmare

Di seguito, un esempio di un reale term sheet redatto da un Venture Capital italiano e consegnato ad una startup in fase di raccolta di un primo round seed. È doveroso precisare che le clausole che verranno proposte fanno parte di uno sproporzionato ed unico term sheet, che conta più di quaranta pagine, per un investimento in un round seed (da 150-200K). Il contratto ha una durata di sette anni dal giorno di registrazione, indice di un particolare “tenore” delle clausole inserite. Le clausole che seguono sono state parafrasate e rese più accessibili alla lettura.

  • Obbligo di avere una valutazione certificata da un terzo

Un consulente finanziario effettuerà una valutazione della società con Fair Market Value. Tale valutazione servirà a regolare tutti i rapporti tra l’investitore e il team in materia di investimento e disinvestimento dalla società (Clausole di liquidation, sconti, etc.). Il consulente è scelto dall’investitore, ma ovviamente la sua fattura viene pagata dalla società.

Questa clausola non è utile per diversi motivi: è pacifico pensare che il “consulente finanziario” scelto dall’investitore giocherà a suo favore nel corso della valutazione. Inoltre, il valore di una startup varia molto nel tempo, e legarla al solo momento dell’investimento risulta essere molto svantaggioso per il team. Ecco perché l’investimento Seed dovrebbe non disporre di valutazione definita, posticipata invece ad un round più maturo. In USA, vengono più spesso utilizzati i famosi SAFE di YCombinator.

  • Liquidation preference con tasso di interesse al 5%

In occorrenza di un qualsiasi evento di liquidazione (fallimento, vendita), una clausola di liquidation preference permette all’investitore di ricevere l’intero capitale investito prima degli altri soci. Solitamente viene richiesta una preferenza dell’1x, ovvero del 100% dell’ammontare investito.

In questo caso, prevedendo un tasso di interesse, l’investitore inserisce una clausola che permette di guadagnare dall’operazione, qualsiasi cosa accada. Infatti, si stabilisce il diritto di ricevere l’ammontare del proprio investimento aumentato di un 5% annuo. Inserire una clausola di liquidation preference non è errato, poiché è utile a proteggere l’investitore in caso il tutto non vada a buon fine. Una liquidation preference maggiore di 1, però, non trova alcuna giustificazione.

  • Diritto di co-vendita se si vende più del 5% della società

Nel caso in cui un socio di maggioranza stia vendendo le proprie quote ad un terzo, il diritto di co-vendita (o Tag-Along) è una clausola che consente al socio di minoranza di unirsi alla vendita alle stesse condizioni.

Un diritto di co-vendita che scatta a percentuali così basse, del 5%, segnala un investitore con poca fiducia negli attuali soci e nelle potenzialità del team e che, pertanto, richiede alla prima occasione utile di poter avere il diritto di vendere la propria quota.

  • Diritto di trascinamento se si vende più del 50% della società

Il diritto di trascinamento (o Drag-Along) consiste nell’avere l’opportunità di obbligare i soci di minoranza a vendere tutti insieme l’intero capitale della startup. In questa clausola specifica, dunque, se si vende più della metà del capitale sociale, l’investitore ha il diritto di trascinare tutti i soci della startup nella vendita dell’azienda ad un terzo. I soci non possono essere contrari e venderanno alle condizioni già contrattate.

Il diritto di trascinamento è una delle clausole più forti e significative che un investitore può richiedere. Se non è possibile evitarla, è bene assicurarsi che in quel 50% ci sia almeno una parte dei fondatori in modo da ridurre il rischio di non poter evitare di assistere alla vendita della propria azienda prima del momento auspicato.

  • Decisioni vincolate all’approvazione dell’investitore

Nel term sheet analizzato, l’investitore ha il diritto di veto su: piani di incentivazione con stock option, emissione di nuove quote, aumenti di capitale, cambio del business, partnership con altre aziende o Joint Ventures, modifiche al budget o al Business Plan, bonus per i dipendenti, tutti gli stipendi e tutte le spese superiori a 50 mila euro.

In pratica, tutto dovrà essere controllato dall’approvazione dell’investitore. È bene che l’investitore con più esperienza sia di supporto al team in occorrenza di decisioni strategiche, non è però un bene che tutte le più importanti decisioni debbano passare da approvazione esterna. Il rischio diventa quello di immobilizzare la startup se ci si rifiuta di seguire le idee dell’investitore. In fase seed, questo è inconcepibile: il business farà numerosi pivot e i founders sbaglieranno e riproveranno.

  • Obbligo di assicurazione della responsabilità professionale a spese della società

L’investitore richiede alla società di pagare una polizza assicurativa sulle responsabilità professionali dei fondatori.

Questa clausola è un grande campanello d’allarme perché segnala la scarsa fiducia che l’investitore ripone nei confronti del team. Di fatto, in fase seed, si investe sulla fiducia riposta nei fondatori per perseguire l’idea imprenditoriale: è ossimorico proteggersi dai fondatori stessi. Inoltre, il pagamento della polizza a carico delle esigue casse della società non è ottimale: ogni somma di denaro raccolta deve essere canalizzata alla validazione e alla crescita del modello.

  • Diritto di recesso senza condizioni

L’investitore ha la possibilità di recedere dall’investimento quando lo ritiene opportuno e senza motivazioni specifiche. Può quindi recedere in ogni momento e richiedendo alla società di rimborsare il capitale dell’investitore appena possibile, e tenendo conto del tasso di interesse di cui gode in caso di disinvestimento.

Il diritto di recesso in un investimento in startup fa sorridere, perché chiedere di vedersi restituito il capitale investito è completamente disallineato al motivo per cui l’investitore spera di essere premiato col tempo: il rischio stesso di fallimento.

  • Clausola di non diluizione per l’investitore

Se il successivo aumento di capitale porta la valutazione della startup ad un valore inferiore a quello precedente, l’investitore non si diluisce.

Significa che se un nuovo socio entra a far parte della società ad una valutazione più bassa rispetto a quella dell’investitore, la percentuale del capitale destinata al nuovo socio sarà sottratta esclusivamente dai founders. L’investitore avrà dunque una percentuale del capitale sociale dal valore pari a quello in cui è entrato: in pratica, le sue quote aumenteranno fino a raggiungere la valutazione pari al momento del suo ingresso.

  • Contratto di consulenza con l’investitore

L’investimento è subordinato all’accettazione di un contratto di consulenza stipulato tra l’investitore e la startup. Tale contratto prevede una durata e delle condizioni economiche già prefissate.

Infine, il capolavoro: di fatto, l’azienda sta ripagando indietro l’investimento effettuato in cambio di consulenza erogata dallo stesso investitore.

Conclusioni: clausole troppo vincolanti segnalano poca fiducia

Le clausole analizzate risultano essere inopportune se considerata, in particolar modo, la fase e la maturità del round. È inconcepibile proporre un term sheet così abbondante, con clausole molto dettagliate e vincolanti. I founders non dovrebbero firmare questi term sheet: danneggiano la loro idea e creano enormi difficoltà al round successivo. È importante avere in cap table investitori che per primi credono nella loro idea, anche se ciò significa rischiare maggiormente: è il lavoro degli investitori.

In una successiva analisi, saranno studiate in dettaglio le clausole che di solito richiede un investitore statunitense in occasione di un round seed, così da comprenderne le differenze e tentare di individuare un modello comune che possa funzionare anche in Italia.

Se si vuole stimolare il nostro Paese a produrre nuove idee, ad attrarre talenti e a non far scappare quelli che ci sono già, copiare le best practice di chi è avanti potrebbe essere una buona idea, anche nel Venture Investing.

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