giornalismo

Un “Semafor” per il mondo interconnesso: pregi e difetti della testata in bilico tra fast e slow journalism

L’obiettivo di Semafor è colmare il vuoto di una testata compiutamente globale che parli direttamente a un pubblico connesso, interessato a flussi sovranazionali e non necessariamente legato a una dimensione territoriale. Un progetto ambizioso e ben costruito, ma non senza qualche difetto

Pubblicato il 05 Dic 2022

Sabino Di Chio

Docente di Media e Consumi Culturali, Università degli Studi di Bari

semafor

Da qualche settimana è online una nuova testata giornalistica, Semafor. Fondata da Ben Smith e Justin Smith, ha accumulato aspettative di riguardo sia per il calibro dei giornalisti coinvolti sia per la volontà annunciata di irrompere nel game dell’informazione digitale producendo cambiamenti significativi, a partire dal formato dell’articolo. L’operazione ha già suscitato, come prevedibile, entusiasmi e diffidenze di ogni tipo. In questo articolo proviamo a leggere Semafor dalla prospettiva “slow”, cercando di capire quali e quante delle istanze portate avanti dallo slow journalism siano state recepite o almeno affrontate nell’ambiziosa operazione di rinnovamento.

Il progetto Semafor

Semafor è stato annunciato a gennaio 2022 come un nuovo giornale online destinato a un pubblico di istruzione universitaria e lingua inglese. L’idea è colmare il vuoto di una testata compiutamente globale che parli direttamente a un pubblico connesso, interessato a flussi sovranazionali e non necessariamente legato a una dimensione territoriale. Ben Smith, il direttore, arriva da due anni come media columnist al New York Times e, prima, è stato a capo di BuzzFeed News trasformandola da testata focalizzata su contenuti leggeri ad interessante ibrido in grado di far emergere scoop virali tra memi, liste e classifiche. Justin Smith, invece, è l’ex ceo della multinazionale Bloomberg Media. Il progetto ha raccolto 25 milioni di dollari di investimenti, per più di un anno offrirà informazione gratuita sovvenzionata dalla pubblicità per poi passare ai paywall.

Il formato

Su uno sfondo ingiallito come un quotidiano invecchiato su uno scaffale, Semafor presenta una home page divisa in tre sezioni: a sinistra le breaking news contrassegnate dal continente d’appartenenza, a destra le newsletter d’approfondimento, al centro gli articoli redatti secondo un formato inedito, il “semaform”. Per reinventare la notizia scritta, gli Smith hanno optato per una netta separazione tra “fatti” ed “opinioni”, animati dall’intenzione di smarcarsi da quella commistione scabrosa tra soggetto e oggetto a loro dire complice della polarizzazione e della crescente sfiducia nelle news. Gli articoli di Semafor si presentano seguendo uno schema preciso: in apertura c’è “The News”, la notizia senza fronzoli, descritta attraverso dati che mettano tutti d’accordo; si prosegue con “Our view”, il punto di vista del giornalista, “Room for disagreement”, lo spazio per opinioni contrapposte, “Other views” da altre parti del mondo e infine ulteriori link collegati alla notizia.

Lo slow journalism contro l’informazione mordi e fuggi: così si riprende la fiducia del pubblico

Sfumature di slow

È estremamente complicato redigere una definizione univoca di slow journalism[1] ma l’analisi incrociata delle dichiarazioni di intenti e delle pratiche di alcune delle esperienze più significative che si rifanno esplicitamente a questo approccio (De Correspondent in Olanda, Delayed Gratification in UK, Zetland in Danimarca, Slow News in Italia) permette di estrapolare dei comuni denominatori. Il giornalismo lento è un giornalismo non attardato ma sostenibile, “buono, pulito e giusto” come il cibo di Slow Food. Per mettere in discussione il modello dominante di diffusione delle news digitali, incline all’allargamento del disordine informativo, si mettono in atto condotte anticonformiste come il distacco dal finanziamento pubblicitario a favore di abbonamenti, crowdfunding, contatto diretto con una comunità di lettori attraverso eventi o festival. Nei contenuti si investe in investigazione, verifica, messa in contesto, trasparenza, continuità nella copertura. Nel lavoro, si valorizza il ruolo del giornalista sia attraverso retribuzioni all’altezza, sia rivendicando il ruolo professionale di scelta e selezione.

Un’esperienza come quella di Semafor, sbocciata nelle city del giornalismo mainstream, non ha e non vuole avere alcuna connessione diretta con approcci critici o militanti. Il solo fatto che sia pensata come un’operazione diretta ad un pubblico già attrezzato la connota come bene elitario, inadatto ad affrontare la disconnessione tra fasce più deboli della popolazione e dibattito pubblico. Eppure, nelle scelte editoriali intraprese è possibile leggere l’esito di una riflessione sulle derive del giornalismo fast che ormai sembra aver fatto breccia anche nel cuore delle elite.

Semafor, il giornalista al centro

Innanzitutto, Semafor riafferma la centralità del giornalista: la redazione è formata da grandi personalità strappate alla concorrenza, il cui nome e volto campeggiano sul titolo dell’articolo con un protagonismo ansioso di restituire alle competenze il ruolo che meritano. Dopo anni di sbornia da disintermediazione, l’opacità persistente del mondo costringe a ripensare l’utilità del gatekeeper, sollecitato a modificare gli strumenti (ad esempio, le newsletter) ma non a vergognarsi del potere che deve esercitare per ridurre la complessità. Non può esistere un reale trasferimento di conoscenze, infatti, se non si parte da un’asimmetria di competenze, sulla differenza tra chi sa e chi no. Se compiuta senza abusi né derive personalistiche, la capacità del giornalista di arrivare e capire prima degli altri è un’affermazione di superiorità che va accettata perché ammorbidita dalla redistribuzione connaturata all’atto di informare.

Nel “semaform”, all’autore è chiesto di usare la professionalità per selezionare i fili del racconto che godano di un consenso di fondo (i “fatti”), di elaborare un’interpretazione che permetta al lettore di orientarsi nella comprensione (“l’opinione”), di corredare il tutto con la ricerca di punti di vista alternativi che diano profondità al dibattito. La distinzione tra fatti e opinioni è certamente problematica, così come la pretesa di nascondere le inclinazioni personali dietro alla selezione di presunte “obiettività”, ma è difficile non accostare questo metodo alla richiesta di contestualizzazione che emerge potentemente dalle esperienze di slow journalism, inclini ad un’opera non sempre facile di allargamento della notizia dalle maglie strette della breaking news.

Occuparsi non solo del problema ma ipotizzare soluzioni, non solo dell’oggi ma guardare al domani, spiegare ai lettori l’origine e la conclusione delle vicende non limitarsi al resoconto semplificato di episodi sono alcune delle istanze maggiormente sostenute da chi prova a resistere all’accelerazione delle news oltra la soglia di tolleranza. L’home page di Semafor, inoltre, non è affollata ma presenta solo sette storie principali. Anche in questa rivendicazione del “less is more”, si intravede una forma di critica al sovraccarico informativo, più teso alla ricerca della distrazione che alla comprensione.

Conclusioni

Il punto di maggior distanza resta infine il modello di business. Sebbene sia ipotizzata in futuro un’apertura alle sottoscrizioni, il modello pubblicitario attuale posiziona Semafor troppo vicino alla principale fonte di entropia del giornalismo digitale: la sudditanza al clic. La dimostrazione arriva dalla polemica più insidiosa che la testata ha affrontato nelle prime settimane di vita: la sponsorizzazione da parte di una compagnia petrolifera della newsletter su temi ambientali e cambiamento climatico. Un’ombra di sospetto difficile da far svanire con il solo esercizio libero e competente della professione.

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