lotta ai virus

Un sistema di “early warning” per le pandemie: come si muove la scienza

Un sistema di early warnig, come quelli riguardanti il meteo, le eruzioni vulcaniche e perfino gli asteroidi, potrebbe essere cruciale individuare in tempo possibili pandemie. Gli scienziati ci stanno lavorando

Pubblicato il 29 Apr 2021

Vincenzo Patruno

Data Manager e Open Data Expert - Istat

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Consapevoli della pericolosità dei virus, gli scienziati stanno lavorando su un sistema di “early warning” in grado di fornire informazioni quasi in tempo reale su quali infezioni sono in atto e dove, in modo da intercettarle sul nascere prima che si diffondano. Al momento è un progetto pilota, ma ci sono le potenzialità per andare oltre e soprattutto oggi, a differenza che in passato, possiamo contare sui dati.

L’importanza dei dati per comprendere e prevenire le pandemie

Le riflessioni sulla necessità di realizzare un sistema di questo tipo in ambito pandemico sono scaturite dalla lettura di un libro dal titolo “Breve storia del corpo umano”, dell’autore statunitense Bill Bryson, geniale e divertentissimo giornalista e scrittore che seguo da tempo e di cui ho letto tutti i libri. In particolare, questo libro è una sorta di passeggiata all’interno del corpo umano ricca di aneddoti e informazioni curiose. È anche un libro rigoroso dal punto di vista dell’informazione scientifica e mi è rimasto in mente questo episodio.

L’autore si incontra con Michael Kinch, accademico americano della Washington University di St. Louis (e autore tra le altre cose di “Between Hope and Fear: A History of Vaccines and Human Immunity”) e gli chiede quale fosse, secondo lui, la malattia più pericolosa in assoluto. La risposta è stata “l’influenza”, aggiungendo che “L’influenza è di gran lunga più pericolosa di quanto si pensi. […] Inoltre si evolve molto rapidamente, ed è questo che la rende pericolosissima. […] Il punto è che oggi non siamo pronti a gestire una grave epidemia più di quanto lo fossimo cent’anni fa, quando l’influenza spagnola uccise decine di milioni di persone. Se non abbiamo ancora vissuto un evento simile non è perché siamo stati particolarmente attenti, è perché abbiamo avuto fortuna”. Il libro è stato scritto nel 2019 e l’autore non poteva sapere che la fortuna sarebbe durata ancora per qualche mese, fino a quando i primi casi di COVID-19 non sarebbero stati scoperti in Cina. Da quel momento in poi sappiamo tutti come è andata.

Ho voluto citare questo passaggio del libro in quanto lo ritengo significativo almeno sotto due aspetti. Il primo è che all’interno degli ambienti scientifici si è perfettamente consapevoli della pericolosità dei virus. Il secondo aspetto è che nonostante questo, abbiamo potuto vedere quanto fossimo comunque impreparati a gestire l’epidemia. E in Italia ancora di più. Eravamo talmente impreparati che non avevamo pronto neanche un piano pandemico aggiornato.

Ma se c’è una cosa oggi che traccia una profonda differenza rispetto al passato è la possibilità di utilizzare dati in modo del tutto nuovo. Rispetto al passato, infatti, abbiamo la possibilità di disegnare processi per raccogliere in modo continuativo grandi quantità di dati e di processarli agevolmente grazie alle tecnologie disponibili. Dati che possono essere utilizzati per capire immediatamente o in “near-real time” quello che sta accadendo. Ma anche per disegnare gli scenari futuri e prevedere quello che potrà accadere a breve.

Un sistema di early warning per le pandemie

Se ci pensiamo, è una cosa che abbiamo cominciato già a fare in un recente passato. Le previsioni meteo sono oggi probabilmente l’informazione più attendibile che possiamo ottenere su quello che accadrà in un prossimo futuro. Informazione che diventa fondamentale per l’agricoltura, per la sicurezza del traffico aereo, per la navigazione in mare, per gli operatori turistici e così via. Ma anche e soprattutto per consentire di individuare e prevedere possibili eventi estremi come alluvioni e tempeste, potendo così allertare per tempo la popolazione interessata. L’accuratezza delle previsioni meteo che siamo riusciti a raggiungere oggi dipende essenzialmente dalla enorme quantità di dati che i metereologi oggi hanno a disposizione. Satelliti, sonde, stazioni meteo a terra che rilevano dati attraverso i loro sensori in modo continuo. Ma i sistemi di early warning non riguardano soltanto il meteo. Nel tempo si è provato a rendere operativi sistemi di questo tipo per allertare per tempo la popolazione in caso di eruzioni vulcaniche o di tsunami. Abbiamo addirittura un sistema di early warning per gli asteroidi. Si chiama ATLAS, che sta per Asteroid Terrestrial-impact Last Alert System e dovrebbe avvertirci per tempo quando c’è la concreta possibilità che un asteroide possa entrare in collisione con il nostro pianeta. Speriamo ovviamente mai.

Perché non pensare quindi ad un sistema di early warning anche per le pandemie? È un tema su cui la comunità scientifica sta tentando di dare una risposta. Jessica Metcalf (Princeton University) e Michael Mina (Harvard University) hanno ad esempio concepito l’idea del “Global Immunological Observatory” (GIO), un sistema che possa fornire informazioni “quasi” in tempo reale su quali infezioni sono in atto e dove, in modo da intercettare sul nascere nuove infezioni prima che si diffondano nella popolazione.

Al momento è un progetto pilota utilizzato per monitorare la propagazione del COVID-19 ma più in là potrebbe essere implementato su una più ampia scala.

Oggigiorno è infatti molto più facile che in passato trovare fondi per sistemi che possano contribuire a mitigare le future pandemie. Abbiamo infatti visto quanto devastante sia stato l’impatto del COVID-19 sull’economia mondiale. Investire in sistemi che possano aiutare a individuare per tempo possibili pandemie diventa così un tema di interesse globale. Il “Global Immunological Observatory” si basa sul fatto che il nostro sangue conserva negli anticorpi tutta la storia delle infezioni che ha subito.

Analizzando dati relativi a milioni di campioni di sangue di persone di tutto il mondo per tracciarne gli anticorpi e capire come sono state infettate dagli agenti patogeni consentirebbe di disegnare una mappa dello stato immunitario della popolazione sul territorio e in particolare in quelle che sono considerate le aree a rischio. Per capire così dove e come si sta propagando un determinato virus. Sarebbe sufficiente una goccia di sangue che potrebbe ad esempio essere ottenuta attraverso un kit inviato periodicamente per posta a volontari di tutto il mondo. O anche utilizzando campioni presenti nelle banche del sangue e nei laboratori di analisi. Ma anche andando a monitorare cosa accade negli ospedali, ad esempio, dotando il singolo ospedale di un algoritmo per identificare se ci sono pazienti di una determinata classe di età che hanno avuto determinati sintomi nelle ultime 24 ore.

Conclusioni

Ci sono 264 virus che possono infettare l’uomo. E ce ne sono 800.000 che invece si trasmettono tra animali, ma che potrebbero fare il salto di specie e infettarci. Vanno monitorati entrambi i gruppi affinché un sistema di early warning funzioni. Quello che è certo è che abbiamo bisogno di un sistema globale, che possa integrare le informazioni dei vari sistemi di sorveglianza utilizzati attualmente, come ad esempio i dati che provengono dal sequenziamento del genoma.

Le tecnologie per farlo stanno diventando sempre meno costose e sempre più alla portata di tanti laboratori sparsi per il mondo. I virus sono oggi il punto più vulnerabile del nostro mondo globalizzato. Abbiamo bisogno così di un sistema decentralizzato che non sia sotto il controllo di un singolo governo ma che sia invece open e patrimonio di tutti. Che venga alimentato in modalità crowdsourcing e che rilasci Open Data all’intera comunità scientifica. Come accade ad esempio con l’iniziativa GISAID.  Mai come in questa emergenza abbiamo infatti potuto toccare con mano una cosa ovvia: che la salute di ognuno di noi è anche la salute di tutti.

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