La riflessione

Digitalizzazione della PA in Italia, la strategia delle tre C

A ostacolare lo sviluppo digitale della PA in Italia intercorrono diversi fattori di criticità, che nonostante gli strumenti messi a disposizione ancorano la macchina pubblica impedendole di completare la propria trasformazione digital. Occorre valutare la strategia delle tre C: Centralizzazione, contabilità, cittadini

Pubblicato il 02 Apr 2019

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Centralizzazione, contabilità, cittadini: sono gli elementi della strategia delle tre C, possibile strada maestra per dare slancio alla trasformazione digitale della PA. La quale, nonostante gli sforzi e gli strumenti, è un po’ impantanata in diversi fattori di criticità.

Media ed istituzioni ci bombardano con il concetto che il digitale è la risposta al rilancio dello sviluppo di un Paese e della sua economia. Il miracolo della transizione digitale nella PA è di garantire da un lato risparmi significativi nella spesa della PA (che si sa, è una delle principali voci di spesa del Governo, alimentata con il prelievo fiscale) ma dall’altro di aprire nuovi mercati per le startup le platform companies e tutte le imprese innovative, con conseguenze rilevanti su occupazione, fatturato, PIL, welfare. Un mercato che vale circa 140 miliardi di euro all’anno e dal quale ci aspettiamo tutti risparmi, ma anche benessere e sviluppo. Tuttavia, la situazione attuale mostra una PA non così digital, per cui è bene approfondire una strategia che faccia da volano al settore.

Strumenti a disposizione e primi passi nel digital

Ma andiamo per ordine e cerchiamo di capirci qualcosa di più. Facciamo un passo indietro al 2012, anno nel quale si inizia seriamente a parlare di digitalizzazione in Europa ed in Italia. Il D.Lgs 179/2012 declina il nuovo paradigma digitale di derivazione comunitaria introducendo i concetti di anagrafe unica nazionale, di dematerializzazione, di posta elettronica certificata, di cittadinanza digitale e di piattaforme abilitanti. C’è entusiasmo, si respira il cambiamento. E sull’onda di quell’entusiasmo iniziano le stime e le previsioni. Un articolo del 24 maggio 2012 su Digital4Executive riportava una stima dell’Osservatorio Fatturazione e Dematerializzazione della School of Management del Politecnico di Milano che titolava così: “Con la digitalizzazione si possono risparmiare 200 miliardi di euro all’anno in Italia”. La stima era ovviamente riferita sia al mercato della PA (40 miliardi) che al mercato delle imprese private (160 miliardi).

Poco dopo, era il 19 ottobre 2012, è il Sole 24 ore a riportare uno studio (sempre del Politecnico di Milano) presentato allo SMAU di Milano che stimava risparmi per 20 miliardi di euro dalla digitalizzazione della PA (7 miliardi grazie all’eprocurement, ed i restanti equamente divisi tra pagamenti elettronici verso la PA, fatturazione elettronica e digitalizzazione di processi). Da allora ne sono successe di cose nella digital transformation. La PA dell’anno 2019 usa correntemente la PEC e la FatturaPA, monitora i tempi di pagamento sulla PCC, utilizza (parzialmente) il nodo PagoPA per ricevere pagamenti dall’utenza, è dotata di piattaforme digitali per condividere, modificare ed archiviare documenti sia in entrata che in uscita.

I fattori di criticità

Nel frattempo la Commissione parlamentare di inchiesta sulla digitalizzazione della Pubblica Amministrazione (dopo un lavoro di un anno, 60 audizioni e circa un terabyte di documentazione raccolta) ha recentemente restituito una fotografia dai colori foschi sullo stato del digitale nella PA in Italia. Tra le varie criticità emerse preoccupano “la scarsa conoscenza ed applicazione della normativa relativa al digitale”, “la mancata dotazione negli anni da parte della PA di competenze tecnologiche, manageriali e di informatica giuridica necessarie”, i responsabili della transizione digitale, quando esistono (solo il 26% della PA ha nominato un RTD), risultano inadeguati, il più delle volte nominati per mero adempimento simbolico piuttosto che con la logica del cambio di paradigma. Sul fronte della spesa per ICT le cose non vanno meglio, tra scarsa capacità di controllo della spesa per i sistemi informativi e, soprattutto, totale assenza di misurazione degli impatti che la spesa in ICT dovrebbe produrre in tema di miglioramento della qualità dei servizi e di riduzione della spesa: “La mancanza di competenze interne adeguate, soprattutto nei livelli apicali, impedisce alla PA di contrattare adeguatamente con i fornitori, di progettare correttamente le soluzioni necessarie, di scrivere bandi di gara che selezionino il prodotto o il servizio più adeguato, e (cosa più strategica di tutte) di controllare efficacemente lo sviluppo e la realizzazione delle soluzioni informatiche”.

Altro fattore di criticità che emerge è rappresentato dal mancato rispetto dell’obbligo di quantificazione dei risparmi derivanti dall’applicazione dell’art. 15 del CAD in capo ai dicasteri. Tra gli inadempienti si registrano Ministeri “pesanti” (su tutti il MEF, ma anche Difesa e Interni). Dei sette ministeri che hanno risposto alla chiamata solo Giustizia e Sviluppo Economico hanno fornito cifre certificate. Gli altri hanno pubblicamente dichiarato di non essere riusciti a certificare quanti soldi abbiano risparmiato grazie alla digitalizzazione. Tanto per avere una idea, il Ministero della Giustizia ha certificato un risparmio di 63 milioni di euro all’anno.

Nonostante tutto ciò la Commissione ribadisce e certifica che le attese di risparmio derivanti dalla dematerializzazione e dalla digitalizzazione dei processi sono rilevanti, e dunque non possono non essere perseguite. Si accoda il Ministro Giulia Bongiorno, che il 13 febbraio scorso ha lanciato la Conferenza dei Responsabili per la transizione al digitale, in seno all’AgID che avrà il compito di centralizzare competenze e metterle a supporto della PA: “La completa digitalizzazione della macchina pubblica rappresenta l’unico futuro possibile per la PA” spiega il Ministro, “in Italia, da questo punto di vista, siamo all’anno zero” e ancora: “per la nostra PA voglio i migliori”.

Le strade per lo sviluppo

Un supporto concreto potrebbe venire dal recente recepimento della normativa europea in materia di trattamento dei dati (GDPR) che ha reso obbligatoria la figura del DPO anche nella PA. Il corretto recepimento della normativa imponeva un assessment preliminare che tutti i DPO dovrebbero aver espletato (il Dpia) al fine di fotografare la realtà dell’ente sotto varie angolature, tra cui, sicuramente, quella afferente lo stato di digitalizzazione dei processi e degli archivi, ossia ciò che la normativa si prefigge di proteggere. I dati contenuti nei Dpia sono un prezioso spaccato dello stato dell’arte della digital transformation nella PA. Se immaginassimo una piattaforma centralizzata presso Agid di condivisione dei dati da alimentarsi a cura dei DPO si configurerebbe una dashboard centrale dalla quale orientare, governare ed armonizzare il processo di digitalizzazione. Sarebbe inoltre auspicabile che presso il Ministero della PA si attivasse una task force di professionisti dotati competenze adeguate e selezionati dal Ministero da mettere a disposizione di tutte le PA sprovviste di competenze adeguate per espletare i ruoli di DPO e di Responsabili della Transizione Digitale.

In altre parole competenze e informazioni andrebbero gestite in maniera centralizzata e somministrate alle PA. Questo favorirebbe una gestione consapevole del processo di transizione digitale del Paese. Le scelte effettuate dall’amministrazione centrale, invece non sembrano andare in questa direzione. Non è stato ancora sciolto l’eterno equivoco di competenze tra AgID e Team Digitale, che ad oggi non ha garantito una vera regia. La recente modifica della governance dell’agenda digitale (art.8 del decreto-legge n.15/2018, decreto “concretezza”), trasferisce alla Presidenza del Consiglio dei Ministri o al Ministro delegato i poteri del Commissario del Team digitale, ma non solo: costituisce una ulteriore “società per azioni, interamente partecipata dallo Stato, (…) utilizzando ai fini della sottoscrizione del capitale sociale iniziale quota parte delle risorse finanziarie già destinate dall’Agenzia per l’Italia digitale per le esigenze della piattaforma”. Dunque si prosegue su binari paralleli piuttosto che su una unica strada maestra.

E nonostante ciò, tutti crediamo ancora alle enormi potenzialità del digitale. E allora? E allora bisogna ripartire da una nuova strategia, ripartire dalle 3 C: centralizzazione, contabilità, cittadini. Bisogna centralizzare funzioni e programmazione in capo ad un unico soggetto, garantendo la disponibilità di adeguate competenze che rispondano al Governo ma siano comandate presso la PA, di eccellenze ed inserite nei ruoli chiave, individuando procedure di reclutamento agevolate e con carattere di urgenza e nel contempo rendere obbligatoria e massiva la formazione mirata del personale esistente. Bisogna investire in accountability, ossia standardizzare regole certe ed uguali per tutta la PA per rendicontare in tempo reale le performances della PA; i progressi ed i risparmi della transizione digitale, cui va collegata la gran parte del premio di risultato dei dirigenti e del personale devono essere rendicontabili ed accessibili dal centro in tempo reale. Ma soprattutto bisogna rimettere al centro delle strategie della PA il cittadino, con i suo i bisogni, le sue difficoltà quotidiane; bisogna ripensare tutti i servizi al cittadino in chiave digitale e nell’ottica della disintermediazione privilegiando user experience, facilità di accesso, inclusività ed utilità dei servizi digitali intesa come capacità di migliorare la qualità della vita dei cittadini utenti. Esiste una vasta community di innovatori che alimenta un dibattito interno costante e costruttivo, ma che aspira a dire la sua al livello politico, a confrontarsi con tutti gli altri stakeholders per la ricerca del giusto case mix di fattori produttivi per rilanciare il paese. In conclusione, forse quello che più è mancato sino ad oggi alla PA ed al sistema paese è la capacità di programmare in modalità open innovation.

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