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Ma l’IA fa bene o male al lavoro? Lo studio Ocse



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Uno studio Ocse/Oecd è il primo a vedere le prime conseguenze reali dell’intelligenza artificiale su lavoro e lavoratori. Per ora nessun problema, ma lo scenario sta cambiando velocemente e bisognerà attrezzarsi, secondo gli studiosi, per evitare problemi a lavoratori e diseguaglianze

Pubblicato il 14 lug 2023

Angelo Alù

studioso di processi di innovazione tecnologica e digitale



intelligenza artificiale ai act

Comprendere come si evolverà il mercato del lavoro alla luce del rapido e sempre più pervasivo sviluppo dell’innovazione tecnologica rappresenta una delle principali, più complesse e incerte indagini.

Scenario complicato dall’avvento dell’Intelligenza Artificiale, che con le sue ultime, generative, evoluzioni consente di replicare la generalità delle attività umane, anche rispetto a mansioni altamente qualificate tradizionalmente subordinate al possesso di rilevanti abilità creative e intellettuali.

Lo studio Ocse sul lavoro, intelligenza artificiale

Ecco perché risulta di notevole interesse l’edizione (2023) dello studio Ocse/OECD Social, Employment and Migration Working Papers”, da cui si evince, nell’ambito di una puntuale analisi dedicata a descrivere l’impatto dell’Intelligenza Artificiale sul mercato del lavoro, l’urgenza e la necessità di riforme strutturali organiche. Tenuto conto delle attuali dinamiche occupazionali e salariali esistenti, per minimizzare i possibili effetti negativi e, al contempo, valorizzare la fruizione generale dei benefici derivanti dal progressivo sviluppo delle nuove tecnologie emergenti.

Nel contesto di una generale stabilizzazione del mercato del lavoro, in ripresa tendenzialmente positiva nel periodo post emergenza pandemica “Covid-19”, come dato rilevabile nella maggior parte dei paesi OCSE, ove il tasso medio di disoccupazione si attesta al 4,8% (in Italia è del 7,6%), a riprova di un generale incremento della percentuale di occupati rispetto agli anni precedenti, lo studio citato segnala il rilevante impatto che l’Intelligenza Artificiale potrebbe avere sulle professioni future, pur a fronte di un utilizzo di applicazioni IA ancora relativamente basso da parte delle imprese.

Concentrando l’attenzione sui settori manifatturiero e finanziario di sette paesi monitorati (Austria, Canada, Francia, Germania, Irlanda, Regno Unito e Stati Uniti d’America), lo studio OCSE predispone (anche sulla base di interviste somministrate a oltre 5.000 lavoratori e oltre 2.000 imprese), un’indagine generale per cercare di comprendere il livello di percezione attuale sulle implicazioni dell’Intelligenza Artificiale nel mercato del lavoro e focalizzare le principali opportunità offerte da tale nuova tecnologia.

Lo studio afferma, ad esempio, che tra il 66% e il 72% dei datori di lavoro operanti nel settore finanziario e manifatturiero riferisce di aver predisposto processi di automazione gestiti da applicazioni IA per lo svolgimento di mansioni precedentemente svolte da lavoratori umani, o comunque in grado di incrementare il ritmo di produttività e di intensità dei dipendenti nell’espletamento dei compiti assegnati mediante procedure di assistenza oggetto di un più efficace monitoraggio di misurazione delle performance individuali.

La maggior parte dei lavoratori riporta un conseguente miglioramento di produttività, stato mentale e fisico perché l’IA ha preso funzioni noiose/pericolose e loro hanno potuto concentrarsi su quelle a maggiore valore aggiunto.

La sfida ChatGpt et similia

Se da una parte secondo lo studio l’IA ancora non ha avuto un impatto negativo sul lavoro – nessun azienda ha licenziato per questo motivo – gli autori notano che ci sono segnali preoccupanti che arrivano dagli USA.

In particolare, il report OCSE sottolinea, come rilevante variabile di cambiamento evolutivo, la rapida implementazione progettuale dell’Intelligenza Artificiale Generativa in grado di ridurre i costi di produzione e automatizzare gran parte delle professionali, quantificandone il calcolo ipotetico di una possibile perdita occupazionale entro una soglia verosimile di circa il 27% degli attuali posti di lavoro. Al punto da determinare una vera e propria “rivoluzione” che richiede, pertanto, interventi politici innovativi finalizzati a fronteggiare i rischi prospettati.

A rischio, notano gli autori, sono soprattutto i lavori cognitivi (non manuali) a bassa qualifica-esperienza, come giovani avvocati, periti assicurativi, banchieri, segretari d’ufficio, customer center, programmatori in erba. Queste figure cominciano a essere sostitute dall’IA generativa negli USA, mentre i lavoratori ad alta qualifica resterebbero insostituibili e dall’IA avrebbero solo una funzione di supporto.

E’ la conseguenza della mancanza di nuove competenze aggiornate che presuppongono una rigenerazione organica degli attuali sistemi di istruzione e di apprendimento sotto il profilo contenutistico e metodologico per la fruizione di conoscenze multidisciplinari in costante aggiornamento professionale durante tutto il percorso della vita lavorativa di un individuo.

Si tratta di una necessaria capacità di adattamento ai costanti mutamenti che si determineranno nell’immediato futuro, ben oltre l’attuale staticità formativa riscontrabile nella generale visione culturale delle persone e delle società.

Nell’ambito di una generale necessaria riqualificazione formativa della propria dotazione organica interna o, in alternativa, ricorrendo, in via surrogatoria, al supporto di società esterne specializzate per l’erogazione dei servizi richiesti, si ritiene indispensabile, incrementare il livello di competenze dei lavoratori mediante programmi mirati di apprendimento in grado di stimolare un mix cognitivo di “hard” e “soft” skills, riguardanti tra l’altro, le abilità creative e comunicative, nonché le tecniche di programmazione, unitamente al perfezionamento cognitivo di pensiero critico e capacità di ragionamento.

Rispetto alle prospettive future, emerge una generale preoccupazione per la possibile perdita di opportunità lavorative nei prossimi 10 anni, o comunque per l’inevitabile diminuzione dei salari come effetti collaterali provocati dallo sviluppo pervasivo dell’Intelligenza Artificiale.

Nel merito dei risultati raccolti, lo studio rileva, al netto di valutazioni positive manifestate sulla capacità dell’IA di migliorare la qualità dei processi produttivi e occupazionali (secondo le risposte espresse da circa l’80% degli utenti), il rischio di possibili insidie per la tutela della privacy individuale, unitamente al pericolo di pregiudizi (razziali, di genere, ecc.) nascosti nella codificazione progettuale di applicazioni in grado di alimentare diseguaglianze ed emarginazioni sociali su larga scala, oltremodo ingannevoli a causa di processi tecnici opachi e poco trasparenti che pertanto non consentono sempre di identificare con facilità eventuali falle di funzionamento nella incorporazione di discriminazioni associate all’utilizzo massivo di algoritmi.

Formazione e partecipazione dei lavoratori

Per tale ragione, lo studio suggerisce l’opportunità di valorizzare, nell’ambito di una generale ed organica riforma regolatoria del settore, il ruolo della consultazione dei lavoratori nel processo di implementazione progettuale delle applicazioni di Intelligenza Artificiale.

E’ necessario per stimolare la condivisione di proposte e suggerimenti in grado di risolvere o contenere le criticità di funzionamento tecnico riscontrate grazie alla costante circolarità di informazioni al fine di migliorare l’usabilità delle tecnologie.

Facilitare il processo di transizione digitale nella società e nell’economia mediante l’elaborazione di soluzioni flessibili e sostenibili adottate nell’interesse dei datori di lavori e, al contempo, a presidio della salvaguardia degli occupati.

Le sfide: che fare per un mercato del lavoro equilibrato

Tante le sfide e le domande. E se l’automazione raggiungesse un livello talmente elevato da assicurare l’espletamento di qualsivoglia prestazione professionale, al punto da determinare, superando l’attuale approccio “umano-centrico”, un vero e proprio “reset” del mercato del lavoro, soprattutto  a svantaggio di coloro che sono privi di adeguate competenze specialistiche al passo con i tempi?

Come può un Paese reagire a sfide inedite inevitabili e presto non più rinviabili che si presentano su scala planetaria da cui dipende la stabilità generale della società?

Venendo meno, infatti, la “certezza” della consacrazione lavorativa su cui si basa il tradizionale percorso che ogni essere umano nutre nel delineare le proprie aspettative teoriche di realizzazione personale e sociale, quali potrebbero essere le soluzioni alternative per garantire fonti di sostentamento reddituale per gli individui massivamente colpiti dall’incalzante dominio del progresso tecnologico e, al contempo, verificare la sussistenza di residui ambiti per selezionare esperti effettivamente in grado di soddisfare il nuovo fabbisogno professionale richiesto?

Quali effetti redistributivi ed equitativi potrebbe innescare un simile processo di radicale cambiamento del mercato del lavoro anche dal punto di vista delle eventuali ricadute sociali rispetto all’elaborazione di nuove politiche di Welfare State?

Domande a cui è ora difficile dare una risposta. Se non due, preliminari a una soluzione: è necessario studiare il cambiamento in atto, da vicino e con attenzione; e predisporre la società a un adattamento che non crei scompensi e non lasci indietro i lavoratori meno qualificati, con una responsabilità sia delle aziende sia delle policy dei Governi.

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