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Banda ultra larga a rischio ritardi, per lo scontro Stato-Regioni

Ci troviamo dunque di fronte a due posizioni contrapposte per l’utilizzo dei fondi pubblici. E la scelta del Governo presenta tre rischi che vanno affrontati subito. La partita è difficile, ma l’Italia deve correre per recuperare i ritardi

Pubblicato il 08 Feb 2016

Rossella Lehnus

Director at Deloitte Financial Advisory

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La Conferenza Stato-Regioni non è giunta per ora a un accordo sulla ripartizione delle risorse nazionali (2,2 miliardi di euro da delibera cipe del 6 agosto 2015) per l’implementazione del piano nazionale banda ultralarga.

Le ragioni del disaccordo sono molte e sebbene tutti gli attori abbiano il massimo interesse a giungere quanto prima ad una soluzione, non sarà facile far ingoiare la pillola amara proprio ai più virtuosi. La scelta intrapresa dal Governo è quella di pianificare risorse ingenti in base al fabbisogno, rispondendo così all’esigenza di procedere secondo finalità di equilibrio dell’offerta infrastrutturale fra le diverse aree del territorio. In questo modo, le Regioni del centro-nord che hanno già avviato autonomamente piani di sviluppo (v. per es. Valle d’Aosta o FVG) e/o che hanno utilizzato proprie risorse per colmare il digital gap (Lazio, Abruzzo, ecc) potranno beneficiare delle risorse statali in misura minore rispetto a quelle altre regioni che invece hanno optato per un atteggiamento attendista confidando nel sostegno del Governo centrale.

Anche le Regioni del Sud che hanno investito propri fondi della programmazione precedente 2007-2013 anticipando gli obiettivi comunitari fissati per il 2020 saranno penalizzati dalla ripartizione proposta visto che ormai il Sud, grazie agli investimenti pubblici nel 2012, vanta connessioni paragonabili a quelle degli Stati Membri più avanzati con il 75% della popolazione del Mezzogiorno connessa a 30 mbps e tutte le sedi della Pubblica Amministrazione coperte ad oltre 100mbps.

Ci troviamo dunque di fronte a due posizioni contrapposte:

– Il Governo, che segue una logica di ripartizione delle risorse volte ad uniformare i livelli di copertura dell’intero territorio, intervenendo quindi dove né il mercato né le Regioni investono. La proposta governativa non è dunque volta a realizzare progetti sostenibili e capaci di fare leva su capitali privati, ma al contrario propone modalità di sviluppo autosufficienti (intervento diretto) e indipendenti dalla domanda reale registrata dal mercato e dalle Regioni.

– Le Regioni, che vorrebbero veder riconosciuto il loro sforzo, non perdendo il vantaggio acquisito ma al contrario esaltando quanto fatto per ottenere risultati ancora più importanti grazie alle risorse deliberate dal CIPE. Un discorso che vale per tutte le Regioni che hanno sempre lavorato su questo fronte e che, talvolta, hanno maturato un expertise tale da saper portare a termine, autonomamente, progetti per la diffusione della banda ultralarga in tempi rapidi.

I 150 milioni di euro assegnati nel 2012 al completamento del Piano Nazionale Banda Larga, per esempio, sono stati impegnati premiando le Regioni che co-investivano maggiormente nel progetto e facendo leva su capitali privati. Questo approccio ha permesso di azzerare il digital divide nel rispetto dei tempi previsti dalla Commissione europea. 150 milioni di euro erano davvero pochi rispetto al fabbisogno totale del tempo, ma cooperando insieme fra pubbliche amministrazioni e ascoltando il mercato l’Italia riuscì a tagliare un traguardo inimmaginabile qualche anno prima. Le gare furono gestite a livello locale e crearono lavoro diretto sul territorio.

La nuova proposta di ripartizione invece segue logiche opposte, puntando su una gara unica a livello centrale per realizzare un’infrastruttura posseduta pro-quota dalle autorità pubbliche che vi hanno investito. Una scelta che presenta tre rischi:

– le ricadute occupazionali saranno solo in parte registrabili nelle singole regioni che partecipano

– la distanza tra domanda / offerta potrebbe dar vita a cattedrali nel deserto

– la complessità organizzativa del piano ritarderà ulteriormente la sua partenza

Questi rischi vanno affrontati da subito perché siamo già in ritardo considerando che entro 4 anni l’Italia si è impegnata a completare un piano da 12 miliardi di euro e, per realizzarlo, non deve sottovalutare il contributo prezioso di tutti i soggetti interessati, coinvolgendoli attivamente nelle decisioni.

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