l'analisi

Big tech, fine della corsa? Come crisi e nuove regole pesano sul futuro

Le Big Tech sono fra le maggiori imprese al mondo non solo per capitalizzazione, ma anche per ricavi e utili netti. Ma sono anche assai ingombranti e insieme all’ascesa, aumenta l’ostilità nei loro confronti. E non è il solo problema all’orizzonte. Riusciranno a mantenere i livelli di crescita a cui ci hanno abituati?

Pubblicato il 01 Giu 2022

Umberto Bertelè

professore emerito di Strategia e chairman degli Osservatori Digital Innovation Politecnico di Milano

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Così come sono uscite più forti di prima dalla pandemia, Meta-Facebook, Apple, Amazon, Microsoft e Alphabet-Google riusciranno a emergere dalla crisi in corso ancora più potenti?

Molti analisti stanno facendo il punto sulla situazione attuale delle big tech e sui rischi per il futuro: non solo di natura congiunturale, ma anche regolamentare e politica.

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Il futuro delle big tech: luci e ombre all’orizzonte

Iniziamo questa nostra riflessione da un articolo del New York Times del 20 maggio: “Big Tech Is Getting Clobbered on Wall Street. It’s a Good Time for Them”, ossia,“Le Big Tech sono colpite duramente in Borsa [rispetto all’inizio dell’anno valgono 2,7 trilioni di dollari in meno (l’equivalente del PIL inglese o francese)]. Ma è un buon momento per loro”. Con un sottotitolo che precisa meglio: “Ricolme di liquidità, Meta-Facebook, Apple, Amazon, Microsoft e Alphabet-Google sono posizionate in maniera tale da poter emergere da questa congiuntura negativa più forti e più potenti. Come al solito”.

Il ragionamento alla base di questa tesi espressa senza incertezze: la posizione dominante in alcuni dei settori più redditizi dell’economia – social media, smartphone di fascia alta, ecommerce, cloud computing e search – e insieme la possibilità di poter continuare a investire e fare acquisizioni (date le risorse di cui dispongono) durante una fase quasi sicuramente recessiva, a differenza dei tagli cui la maggior parte delle altre imprese sono costrette, permette loro di creare le condizioni per uscire dalla crisi più forti, così come (aggiungo io) sono uscite molto più grandi e ricche dalla pandemia.

Più attento ai rischi a breve è un articolo del Financial Times di venti giorni prima – “Big Tech trims its sails as it braces for a bruising quarter: IT spending is strong but headwinds from inflation, supply chains and Ukraine war cast a chill over Silicon Valley”, cofirmato da Richard Waters (capo del team del giornale che segue la Silicon Valley) – che poneva in evidenza l’insieme di problemi che anche le Big Tech, con alle spalle un primo trimestre ancora molto brillante (seppur caratterizzato da una minor crescita), dovranno affrontare nei prossimi mesi: quali (limitandomi ai principali) la perdurante carenza di semiconduttori, le rotture delle supply chain causate dalla guerra in Ucraina e dai lockdown in Cina, l’esplosione dei costi di trasporto, l’inflazione e le connesse restrizioni nella politica monetaria per contenerla, nonché – a causa del più limitato potere di acquisto – la minor propensione alla spesa da parte dei consumatori e la minor propensione al digital advertising da parte delle imprese.

Una serie di prospettive, quella della caduta della crescita in particolare, che terrorizzano la Borsa.

Meta-Facebook il 2 febbraio ha visto il suo titolo calare nell’after-market trading del 24% (ben 232 miliardi di $ in meno di capitalizzazione), nonostante i 10 miliardi di utile netto realizzati nel trimestre, per l’annuncio di un calo sui suoi social dei follower più giovani a favore di Tik Tok; a Snap il 24 maggio è bastato un memo ai dipendenti del CEO Evan Spiegel – in cui si prospettava un deterioramento più veloce e più consistente rispetto alle attese del contesto macroeconomico – per far crollare istantaneamente il titolo e la capitalizzazione del 40%.

Cosa succede alla capitalizzazione delle Big Tech

Cinquecento miliardi di dollari, è banale dirlo, sono tanti. Ci sono solo otto imprese al mondo che oggi (fine maggio 2022) hanno una capitalizzazione (market cap) – ovvero un valore di Borsa – superiore a 500 miliardi, e sono quelle riportate nella prima tabella:

  • le Big Tech, già citate in precedenza, ovvero Apple, Microsoft, Alphabet-Google, Amazon e Meta-Facebook;
  • Saudi Aramco, che vale quasi 800 miliardi in più rispetto al 31 marzo 2020 (suo momento di minimo nel triennio 2020-2022 da me preso in considerazione), sotto la spinta della crescita dei prezzi di gas naturale e petrolio iniziata con la ripresa post-pandemia dell’economia mondiale e acceleratasi con la guerra in Ucraina;
  • Tesla, un’impresa quasi-tech divenuta il simbolo dell’elettrificazione dell’auto, che dai 97 miliardi del 31 marzo 2020 è stata proiettata ai 1230 del 6 novembre 2021, per poi scendere di quasi 440 al valore attuale, sotto l’influenza alterna delle mosse (ultima la scalata annunciata di Twitter) del suo fondatore e CEO Elon Musk;
  • Berkshire Hathaway, l’impresa finanziario-assicurativa trascinata al successo da molti anni dall’ora ultranovantenne Warren Buffett, quinto uomo più ricco del mondo nella classifica di Forbes.

500 miliardi di dollari sono tanti anche se rapportati al PIL dei diversi Paesi del mondo e rappresentano un quarto circa del PIL italiano.

Immagine che contiene tavoloDescrizione generata automaticamente

Tabella 1

Un ragionamento oltre i valori assoluti: un paragone con gli indici di Borsa

Ma ragionare in termini di valori assoluti può essere molto ingannevole. Apple e Meta-Facebook hanno avuto una caduta – 519 miliardi la prima e 512 la seconda – quasi uguale rispetto ai loro massimi (l’11 dicembre e il 10 settembre 2021 rispettivamente). Molto diversa però in termini percentuali: – 17,7% per Apple, – 47,9% (quasi un dimezzamento) per Meta-Facebook – a causa delle diverse prospettive che il mercato a torto o ragione vede per esse. E in mezzo si collocano le altre: – 20,8% Microsoft, – 26,7% Alphabet-Google e – 37% Amazon, colpita dai problemi di possibile eccesso del personale (1,6 milioni di addetti diretti contro i 154 mila di Apple in un momento di forte tensione del mercato del lavoro statunitense), di rottura delle supply chain e di forte crescita dei costi di trasporto.

Un altro paragone può essere interessante, quello con gli indici generali di Borsa (con gli statunitensi dal momento che le big five sono nate e sono quotate negli US): un paragone che in parte però risente del peso che esse hanno nell’ambito degli indici stessi. Ho preso in considerazione il Nasdaq 100, che in larghissima misura è riferito a imprese tech, e lo S&P 500, molto più generale.

Il Nasdaq 100 ha perso il 23,5% rispetto al massimo raggiunto il 19 novembre 2021 – più di Apple e Microsoft, un po’ meno di Alphabet-Google, molto meno di Amazon e soprattutto Meta-Facebook – ed è cresciuto del 121,2% (esattamente in linea con Apple) rispetto al minimo del triennio toccato il 20 marzo 2020.

Lo S&P 500 (massimo raggiunto il 29 dicembre 2021 e minimo del triennio toccato il 20 marzo 2020), invece, ha perso solo il 13,2% – meno quindi di Apple – e ha avuto una crescita rispetto al minimo del 81,3% (più o meno in linea con Microsoft e Alphabet-Google).

Perché le big five hanno perso più dell’indice generale, anche se in misura molto diversa tra loro? Non tanto per i dati di bilancio, che, come detto e come rivedremo nel seguito, sono stati (con qualche eccezione per Amazon) molto brillanti, ma per i timori sulla crescita.

Al di là del nervosismo degli investitori, e dell’ottica speculativa di breve termine con cui molti di essi operano, anche la teoria ci spiega come il valore di un’impresa sia legato alla profittabilità attesa e alla crescita, oltre che ovviamente al rischio; e sicuramente le Big Tech hanno goduto di un premio di prezzo per la crescita, particolarmente rilevante durante la pandemia.

Big Tech: non solo grande capitalizzazione, anche grande consistenza

A differenza della situazione al momento dello scoppio della bolla Internet all’inizio di questo secolo, le Big Tech non sono fra le più importanti imprese del mondo solo per il valore loro attribuito dalla Borsa, ma anche per il livello dei loro ricavi e del loro utile netto e – per Amazon – anche dell’occupazione.

Nella seconda tabella – i dati aggiornati a fine maggio sono sempre di fonte companiesmarketcap.com/ – sono riportate, per le prime otto imprese per market cap, anche l’utile netto, i ricavi e il numero di addetti, nonché il posizionamento (per ciascuna voce) nell’ambito delle top 200 imprese per capitalizzazione a livello mondiale.

Immagine che contiene tavoloDescrizione generata automaticamente

Tabella 2

Apple non è solo al primo posto per market cap, ma e:

  • al secondo posto per utile netto, oltre 100 miliardi di $ negli ultimi quattro trimestri, alle spalle di Saudi Aramco che gode come detto di un momento particolarmente favorevole per le big oil;
  • al quinto posto per ricavi, 386 miliardi a fronte dei 576 della leader Walmart (leader anche per numero di addetti e per questi motivi riportata nonostante la diciannovesima posizione nella classifica per market cap);
  • solo in posizione 109 come numero di addetti, data la preferenza accordata all’outsourcing per larga parte delle attività della sua filiera (in particolare quelle più tipicamente manifatturiere).

Alphabet-Google è quarta per utile netto, Microsoft quinta e Meta-Facebook decima. E Amazon è seconda per ricavi e per numero di addetti, alle spalle di Walmart.

I rischi per il futuro, di natura congiunturale, regolamentare e politica

Negli articoli che ho citato all’inizio viene posta più enfasi sui rischi a breve-medio termine, legati a una possibile/probabile congiuntura recessiva, che su quelli connessi con la regolamentazione e più in generale con l’ostilità a livello politico che il loro potere crescentemente incontra.

Parto dal secondo punto, perché è uno stimolo anche per il primo: le Big Tech sono oggettivamente ingombranti, al di là della bontà o meno dei loro comportamenti. Qualche numero:

  • la somma attuale delle capitalizzazioni, come si può vedere dalla prima tabella, è pari a 7,6 trilioni di $, poco meno del 40% del PIL statunitense e quasi il doppio di quello tedesco;
  • la somma dei massimi valori da esse raggiunti, quasi tutti a fine 2021, è pari addirittura a 10,4 trilioni, oltre la metà del PIL statunitense e più del 11% del PIL mondiale (stimato pari a prezzi correnti a 92 trilioni di $).

La capacità di entrare nei comparti più diversi, portando disruption negli assetti esistenti, non aumenta le simpatie nei loro riguardi. E la loro presenza è in molti Paesi vista come un limite allo sviluppo di attività locali.

L’UE è stata la prima nell’introdurre regole e sanzioni, che sinora hanno avuto però una ricaduta limitata, e si sta lanciando (anche se con difficoltà nel procedere):

  • verso una logica antitrust molto diversa dalla tradizionale, che vuole individuare a priori i cosiddetti gatekeeper, le imprese cioè che controllano l’accesso a reti divenute fondamentali (l’ecommerce di Amazon piuttosto che l’App Store di Apple), e stabilire per essi regole ad hoc;
  • verso una normativa molto più severa nella gestione dei contenuti nei social network, con sanzioni estremamente severe per chi viola le regole, e verso una rinnovata attenzione alla tematica della privacy: con ricadute potenzialmente pesanti sul digital advertising.

Il Regno Unito (UK), dopo l’uscita dalla Ue, sta mettendo a punto regole simili. E così, almeno sino a poco tempo fa, sembravano orientati gli Usa sotto la presidenza Biden, dopo prese di posizione della sinistra del partito democratico che auspicavano addirittura lo smembramento delle Big Tech stesse e la cancellazione di M&A – quali quelli di Instagram e WhatsApp da parte di Facebook (ora Meta) – autorizzati una decina di anni fa.

Le regole possono fare molto male, come il cosiddetto tech backlash cinese – l’attacco di Xi Jinping alle imprese tech del Paese – ha mostrato: Tencent, che valeva oltre 900 miliardi all’inizio del 2021, ha perso il 54% della sua capitalizzazione; Alibaba, che ne valeva 840 miliardi a inizio novembre 2020 ed era alle soglie del più grande IPO della storia (con Ant), ha perso addirittura il 70%. Ma l’evoluzione del contesto geopolitico, con il crescente clima di confronto fra US e Cina, potrebbe venire in soccorso delle Big Tech, che comunque rappresentano una componente significativa del potere e del prestigio degli US nel mondo. E la stessa UE, spesso accusata di colpire con le sue leggi solo le imprese statunitensi, potrebbe essere in qualche misura condizionata nel porre in atto le nuove regole dal bisogno di alleanze che l’attacco russo all’Ucraina ha provocato.

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