Cryptoeconomy

DDL criptovalute al Senato: cosa prevede sulle misure fiscali e tutte le criticità

Nel ddl depositato al Senato tutte le criptovalute sono equiparate a valute estere: niente tassazione sugli scambi ma solo su conversioni in valuta tradizionale che superino la soglia di 51.600 euro oltre i sette giorni consecutivi. I dettagli e le conseguenze

Pubblicato il 03 Mag 2022

Alberto Franco

Professore a Contratto di Diritto Tributario presso l’Università di Torino, Ph.D. Of Counsel, Genta & Cappa

Nelle scorse settimane è stato depositato il nuovo ddl criptovalute al Senato, “Disposizioni fiscali in materia di valute virtuali e disciplina degli obblighi antiriciclaggio”.

Il disegno di legge n. 2572, d’iniziativa della senatrice Botto, si compone di due soli articoli: l’art. 1 si prefigge di uniformare la definizione di “valuta virtuale” all’interno dell’ordinamento[1], l’art. 2 prevede alcune misure fiscali in materia di valute virtuali.

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Ddl criptovalute al Senato: come verranno tassate le plusvalenze

Innanzitutto, il ddl criptovalute al Senato conferma in via di principio gran parte degli orientamenti già manifestati dall’Agenzia delle Entrate in precedenti pronunce di prassi[2].

Infatti, il ddl andrebbe ad integrare il comma 1-ter dell’articolo 67 del TUIR, il quale attualmente prevede in sostanza che le plusvalenze derivanti dalla cessione a pronti di valute estere concorrano a formare il reddito solo a condizione che la giacenza media delle stesse sia superiore ad euro 51.645,69 (i “vecchi” cento milioni di lire, in sostanza) per almeno sette giorni lavorativi continui nel periodo d’imposta.

L’Amministrazione finanziaria aveva ritenuto in passato che la cessione di valute virtuali dovesse essere assimilata a quella di valute estere “tradizionali” (c.d. valute FIAT), e quindi estendendo l’applicazione di quanto sopra alla cessione di criptovalute.

Il ddl non si discosta da tale impostazione, ma integra il comma 1-ter in parola con alcune ulteriori disposizioni, secondo cui:

  1. «le plusvalenze derivanti da operazioni che comportano il pagamento o la conversione in euro o in valute estere di valute virtuali concorrono a formare il reddito a condizione che nel periodo d’imposta il controvalore in euro delle valute virtuali complessivamente possedute dal contribuente, calcolato avendo riguardo al costo o al valore di acquisto soggetto a tassazione, sia superiore a 51.645,69 euro per almeno sette giorni lavorativi continui»
  2. «per le valute virtuali per le quali manchi la documentazione del costo di acquisto o un valore di acquisto soggetto a tassazione, il controvalore in euro è calcolato, ai fini di cui al secondo periodo, avendo riguardo al cambio utilizzato nell’ultima operazione eseguita dal contribuente in relazione alle medesime valute virtuali o, in assenza, al cambio rilevato all’inizio del periodo d’imposta da documentazione raccolta a cura del contribuente»

Con riferimento al primo periodo, si può notare come il tenore letterale sia molto simile al vigente comma 1-ter, per cui il regime fiscale sarebbe sostanzialmente analogo a quello evincibile dalle attuali linee guida fornite dall’Amministrazione finanziaria.

Tuttavia, il ddl reca alcune novità (ed alcune conferme di orientamenti della dottrina e degli operatori) molto importanti rispetto all’impostazione attuale.

In primo luogo, stabilisce espressamente che hanno rilevanza fiscale soltanto le operazioni che comportano il pagamento o la conversione in euro o in valute estere, e pertanto non hanno rilievo fiscale le conversioni tra una criptovaluta ed un’altra, ovverosia i c.d. “crypto-to-crypto trades”: la tassazione avverrà quindi solo nel momento in cui il contribuente ritorna alle valute tradizionali, realizzando in quel momento la plusvalenza imponibile.

Tale aspetto è molto importante, in quanto l’orientamento espresso dall’Agenzia delle Entrate nei documenti di prassi sembrava attribuire rilevanza fiscale anche alle conversioni di una criptovaluta con un’altra criptovaluta, e ciò era stato (ed è) oggetto di un vivace dibattito in dottrina. È pertanto molto positivo che il decreto intervenga espressamente in relazione a tale questione, dissipando i dubbi e le incertezze degli operatori.

Ci si chiede tuttavia se tale orientamento non meriti ulteriori precisazioni, poiché in talune ipotesi la lettera delle norme proposte dal ddl (ed in specie delle integrazioni ai commi 1-ter ed 1-quater dell’articolo 67) potrebbe forse comportare alcuni effetti paradossali, tra cui ad esempio il differimento dell’imposizione “ad libitum” da parte del contribuente.

Si pensi ad esempio il caso in cui un soggetto ottenga una cospicua plusvalenza in relazione ad una cessione di bitcoin, e poi converta tutto il ricavato in una stablecoin: in base alla lettera della norma proposta dal ddl, tale plusvalenza continuerebbe ad essere latente anche successivamente alla conversione in stablecoin, e tuttavia è innegabile che la plusvalenza in parola abbia trovato una qualche “cristallizzazione” che potrebbe giustificarne, in via di principio, l’assoggettamento a tassazione.

Inoltre, il ddl interviene anche in relazione al fatto che, mentre nel caso delle valute “tradizionali” l’approssimarsi della soglia di Euro 51.645,69 può essere considerata in maniera (relativamente) agevole, a causa del fatto che, di regola (e fatte salve pur rilevanti eccezioni), il rapporto di cambio tra valute FIAT non è estremamente volatile, nel caso delle criptovalute il valore-soglia di Euro 51mila circa può essere superato (anche di molto), ad esempio, per qualche settimana, e poi successivamente ridiscendere precipitosamente sotto il limite.

Questa questione sembrerebbe aver trovato un chiarimento, in quanto il ddl al riguardo fa espresso riferimento al costo o al valore di acquisto tassato per il contribuente, per cui le successive variazioni di valore verrebbero ad essere sterilizzate. Ciò è senz’altro positivo, anche se in realtà si avrebbero alcuni effetti paradossali legati all’andamento del (peculiare) mercato delle criptovalute, andando a discriminare la tassabilità o meno della plusvalenza solo in ragione del valore di carico dell’asset.

Ddl criptovalute al Senato: la tassazione delle operazioni di earning, staking e farming

Nel regime delle operazioni di staking, di farming e simili, in estrema sintesi, si impiega una criptovaluta – o una coppia di criptovalute, come nel caso dei liquidity pool (LP) tipici degli exchange decentralizzati (DEX) – al fine di ottenere una rendita passiva, solitamente corrisposta nella stessa criptovaluta messa a rendita, oppure in un’altra criptovaluta.

Nel ddl tali rapporti si inseriscono nel novero di quelli produttivi di redditi di capitale, mediante l’integrazione dell’articolo 44 del TUIR, e più in dettaglio nell’ambito degli interessi e degli altri proventi derivanti da altri rapporti aventi per oggetto l’impiego del capitale, esclusi i rapporti attraverso cui possono essere realizzati differenziali positivi e negativi in dipendenza di un evento incerto.

Infatti, l’articolo 2 del ddl prevede che tra i redditi di capitale siano inseriti anche «i rapporti attraverso cui possono essere gratuitamente acquisite, a qualunque titolo, valute virtuali».

Ora, ricondurre in ogni caso l’acquisizione “gratuita” di criptovalute, a qualunque titolo, al novero dei redditi di capitale è chiaramente una semplificazione, poiché non sempre l’acquisizione di criptovalute in dipendenza di tali rapporti è qualificabile come un reddito di capitale: ad esempio, nei pool di liquidità dei DEX una parte importante della remunerazione è costituita dalla ripartizione delle fee tra i partecipanti al pool.

Tuttavia, è una semplificazione utile e che consente di snellire il trattamento fiscale a beneficio del contribuente, per cui sembra potersi valutare positivamente.

Inoltre, anche in questo caso, secondo la relazione al ddl la rilevanza fiscale di tali proventi sarebbe rinviata al momento della conversione in valuta FIAT, poiché, come già descritto in precedenza, il ddl prevede l’irrilevanza fiscale di quelle «operazioni che consentono di acquisire gratuitamente, a qualunque titolo, valute virtuali», rinviando anche in tal caso la manifestazione di ricchezza imponibile al momento del “ritorno” alle valute FIAT, per cui valgono le considerazioni già esposte in precedenza.

Ddl criptovalute in Senato: le modifiche sul monitoraggio fiscale

Punto decisamente molto apprezzabile del ddl sono le modifiche che tale testo si prefigge di inserire in relazione al tema, invero molto dibattuto, del monitoraggio fiscale.

Infatti, secondo l’attuale interpretazione dell’Amministrazione finanziaria, la (asserita) natura giuridica di “valuta estera” comporta che, qualora un contribuente sia detentore di valute virtuali, sia tenuto a rispettare la disciplina dettata in tema di monitoraggio fiscale.

Pertanto, secondo questo orientamento, il contribuente è tenuto a dare indicazione delle criptovalute possedute nella dichiarazione annuale dei redditi, mediante compilazione del quadro RW[3].

Il decreto conferma questa impostazione di fondo ma ne prevede alcune modifiche: il mancato obbligo di monitoraggio è consentito se il costo o il valore di acquisto complessivo delle criptovalute possedute nel corso del periodo d’imposta non è superiore a 15.000 euro, in maniera simile a quanto avviene per i conti correnti e depositi esteri.

Inoltre, ai fini dell’IVAFE, si conferma l’orientamento dell’Agenzia delle Entrate, secondo cui le valute virtuali non sono imponibili ai fini di tale imposta.

Ddl criptovalute al Senato: tutte le criticità

Non si può che valutare positivamente l’espresso riconoscimento, in via legislativa, del regime fiscale precedentemente enunciato solo da documenti di prassi amministrativa, soprattutto nell’ottica di una maggiore certezza sia per l’Amministrazione finanziaria, sia per il contribuente.

Un intervento legislativo, del resto, era stato richiesto da tempo da più parti, e soprattutto dagli operatori del settore.

Ciò nonostante, dato che il ddl conferma in molte parti l’impostazione già adottata dall’Amministrazione finanziaria, rimangono inevitabilmente anche le perplessità già espresse dalla dottrina in relazione a detta impostazione, ed in specie all’assimilazione tra criptovalute e valute estere, soprattutto ai fini del monitoraggio fiscale.

Infatti, secondo una parte significativa della dottrina, ritenere che una criptovaluta si trovi, per sua stessa natura, all’estero stride con la sua natura decentralizzata, e il fatto che le valute virtuali siano a-territoriali non implica necessariamente che le stesse debbano essere considerate extra-territoriali: si pensi soprattutto alla fattispecie in cui la chiave privata è in possesso di un residente in Italia[4].

Ciò che dovrebbe rilevare, pertanto, non è il luogo dove la valuta virtuale viene conservata, ma la possibilità di disporne, dato che «nella realtà la criptovaluta resta “salvata” sul ledger e, in quanto tale, non risiede in alcuna giurisdizione»[5]

Una criticità del ddl riguarda inoltre la previsione delle medesime condizioni previste per l’esenzione da imposizione relative alle valute FIAT. Infatti, è necessario interrogarsi se, e per quale motivo, prevedere una soglia di esenzione piuttosto ampia (oltre 51mila euro). Occorre a tal fine fare un passo indietro, interrogandosi sulla ratio del vigente comma 1-ter dell’articolo 67 TUIR.

La dottrina individua tale ratio nel fatto che l’imponibilità sarebbe circoscritta soltanto alle plusvalenze derivanti dalla cessione a titolo oneroso delle valute di cui si sia acquisita ovvero mantenuta la disponibilità per finalità d’investimento[6], ma non alle valute estere acquisite o detenute come mezzo di scambio, ovverosia per il pagamento di beni o servizi.

Dato che sarebbe stato «assai problematico accertare, volta per volta, quando la disponibilità di una determinata valuta sia stata acquisita o mantenuta» per la finalità di speculare sull’andamento del rapporto di cambio, è stata quindi introdotta la norma di cui sopra, la quale è quindi da inquadrare nel novero delle presunzioni assolute e non in quello delle agevolazioni[7].

Ora, ci si chiede se tale regime sia invero riproponibile “sic et simpliciter” alle criptovalute, dove la funzione di mezzo di pagamento è senz’altro presente (e ne rappresenta molto spesso lo use case) ma sovente posta in secondo piano rispetto alla funzione di investimento o speculazione.

Del resto, la funzione di pagamento è ad oggi sicuramente più attribuibile alle stablecoin – le quali tuttavia, essendo per lo più basate sul dollaro, per loro natura non dovrebbero essere suscettibili di produrre rilevanti plusvalenze, o almeno le plusvalenze non sarebbero dissimili a quelle relative alla detenzione dei “normali” dollari e a quelle strettamente collegate alla variazione del tasso di cambio USD/EUR.

Tuttavia, mentre la detenzione di bitcoin e di ether, che non sono certo stablecoin e presentano una marcata volatilità, può in effetti avere comunque una apprezzabile funzione di pagamento, anche in ragione della loro dominance[8], difficile pensare ad una funzione di pagamento di beni e servizi tramite altre criptovalute decisamente più “speculative”.

In altri termini, è evidente che è ragionevole equiparare il possessore di una stablecoin basata sul dollaro al possessore di dollari “ordinari”, e quindi prevedere una soglia di esenzione, ma è corretto applicare tale (ampia) soglia alle fattispecie in cui un contribuente acquista una memecoin o una shitcoin al solo fine di speculare e di realizzare, magari, un 100x (i.e., un aumento di 100 volte tanto rispetto al valore iniziale) in pochi giorni?

Alla luce di ciò, sembra possibile chiedersi se in effetti il trattamento fiscale proposto (rectius confermato) nel ddl sia o meno appropriato, o se al contrario non sia necessario un grado maggiore di dettaglio ed una maggiore discriminazione in relazione alla tipologia di criptovalute, o financo se non sia il caso di abbandonare del tutto l’assimilazione alle valute estere e proporre un autonomo sistema di tassazione per gli asset in questione.

Infatti, le criticità relative all’assimilazione alle valute estere non si limitano a quella, sopra esposta, di applicare un’ampia soglia di esenzione anche ad operazioni chiaramente speculative, ma anche al fatto che un sistema di tassazione basato sulla detenzione di un quantitativo minimo (i già citati 51mila euro) per sette giorni lavorativi continui appare agevolare gli speculatori, i trader, a discapito degli holder, ovverosia di coloro che detengono la criptovaluta per un maggiore lasso di tempo.

Infatti, è evidente che all’approssimarsi del valore-soglia, oppure dei sette giorni lavorativi continui (ammesso che si possa parlare di “giorni lavorativi continui” in un mercato come quello delle criptovalute, il quale, come noto, non conosce interruzioni), vi sarà un forte incentivo a cedere la criptovaluta da parte del contribuente per evitare di essere assoggettati ad imposizione[9].

Conclusioni

L’intento che il ddl si prefigge, ovverosia la previsione in via legislativa di un regime fiscale per le criptovalute (o, più correttamente, per le persone fisiche che detengono criptovalute) è sicuramente una circostanza da valutare in maniera più che positiva.

Del resto, come già esposto in precedenza, un espresso intervento legislativo era stato richiesto da più parti, e all’Agenzia delle Entrate va dato merito di essersi trovata in passato a dover individuare un trattamento fiscale per mezzo di documenti di prassi, sostanzialmente per sopperire alla carenza di un quadro normativo in materia, per dirimere le incertezze dei contribuenti.

Occorre tuttavia chiedersi se sia opportuno mantenere l’assimilazione tra criptovalute e valute estere, anche alla luce del fatto che a livello internazionale l’approccio predominante è di considerare tali asset come “beni” e non come valute estere, dato che sono decisamente più numerosi gli Stati che considerano le criptovalute come beni immateriali o come strumenti finanziari [10].

Nondimeno, l’assimilazione tra valute virtuali e valute estere avrebbe anche il paradossale risultato che non potrebbe essere applicabile nel contesto delle imprese, dato che i principi contabili, pur non avendo ad oggi fissato un trattamento contabile esplicito per le criptovalute, sarebbero orientati ad escludere che le stesse siano considerate “valuta”: l’IFRS Interpretations Committee, ovverosia l’organo di interpretazione degli standard contabili dello IASB, nel giugno 2019 si è infatti espresso in merito al trattamento contabile delle criptovalute inquadrandole tra gli “intangible asset”[11].

È quindi evidente come sia piuttosto insolito che un asset venga assimilato ad una valuta estera per un contribuente (persona fisica), e rappresenti invece un bene immateriale per un altro contribuente (impresa). Non è un problema insormontabile nel sistema tributario, tuttavia si ritiene che ciò sia un ulteriore indicatore della necessità di considerare ulteriormente l’assimilazione alle valute estere.

Nondimeno, ai fini della previsione di un quadro fiscale per le criptovalute sarebbe assolutamente di buon senso individuare differenti regimi a seconda che si tratti di stablecoin, per le quali può invero esservi una forte assimilazione alle valute estere alla luce delle loro stesse caratteristiche intrinseche, oppure di altre tipologie di criptovalute – ovverosia, in sostanza, quelle prive di un sistema di “ancoraggio” (peg) ad una valuta FIAT.

Criptovalute che hanno caratteristiche del tutto differenti rispetto alle stablecoin, e la cui acquisizione rispecchia maggiormente l’intento del trader o dell’investitore di trarre profitto da eventuali variazioni positive di valore o dal buon esito del progetto stesso. In quest’ultimo caso, l’acquisizione di una coin o di un token avrebbe una motivazione non dissimile da quello dell’investimento in start-up tecnologiche o dell’angel investing.

In conclusione, quindi, il ddl ha sicuramente il merito di “mettere ordine” e di colmare alcune lacune presenti nell’attuale contesto in relazione al regime fiscale delle criptovalute; l’auspicio è che ciò sia solo l’inizio di un processo, e che il ddl presentato in Senato possa stimolare ulteriormente una positiva discussione da parte degli operatori e del legislatore nel corso dell’iter parlamentare del provvedimento.

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Note

  1. Principalmente mediante la modifica e l’integrazione del D. Lgs. 21 novembre 2007, n. 231
  2. Si consenta a tal fine il rinvio a A. Franco, “Criptoasset: come criptovalute, token e NFT vengono classificati dal fisco italiano”, in Agenda Digitale, 31 gennaio 2022
  3. Si veda al riguardo, tra i vari contributi sul tema, G. Corasaniti, “Il trattamento tributario dei bitcoin tra obblighi antiriciclaggio e monitoraggio fiscale”, in Strumenti Finanziari e Fiscalità n. 36/2018, 60-61.
  4. Si veda G. Iaselli, A. Tomassini, “La territorialità (che non c’è) obbliga ancora al quadro RW”, ne Il Sole 24 Ore, 7 marzo 2022
  5. Ibidem.
  6. I.e., effettuare una speculazione in relazione all’andamento del rapporto di cambio
  7. G. Escalar, “Il regime fiscale dei redditi delle criptovalute conseguiti dai privati”, in Corriere Tributario n. 10/2021, 835 ss.
  8. Ad esempio, diversi venditori accettano bitcoin, e le gas fee relative a smart contract e agli NFT sono per lo più corrisposte in ether
  9. Si veda sul punto N. Pini, “Criptovalute: aspetti tecnici, economici e fiscali”, Tesi di laurea discussa presso l’Università degli Studi di Torino, A.A. 2021/2022.
  10. Si veda al riguardo il documento OCSE “Taxing Virtual Currencies: An Overview Of Tax Treatments And Emerging Tax Policy Issues” e la disamina contenuta in A. Franco, op. cit., in Agenda Digitale, 31 gennaio 2022
  11. Cfr. V. M. Cirrito, P. Falchi, “Criptovalute e fisco, punti fermi e questioni aperte”, in “La Settimana Fiscale” n. 19 del 12 maggio 2021, 39-43

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