i passi avanti

Digital Tax dal 2020: tra Ocse e l’Italia ecco le mosse in campo

Potrebbe essere raggiunto già nella prima metà del 2020 un accordo politico sulla struttura e sull’implementazione della proposta Ocse sulla digital tax. Mentre l’Italia parte a gennaio. Ecco in cosa consiste, quali sarebbero gli impatti e perché sarebbe meglio evitare il rischio che i vari Stati procedano “in ordine sparso

Pubblicato il 16 Ott 2019

Alberto Franco

Professore a Contratto di Diritto Tributario presso l’Università di Torino, Ph.D. Of Counsel, Genta & Cappa

digital-tax

L’Italia va avanti da sola, come la Francia, sulla digital tax: nella Legge di Bilancio appena approvata stabilisce il 3% dei ricavi generati nel Paese da aziende che offrono servizi digitali, al netto dell’Iva, alle imprese che a livello globale fatturano almeno 750 milioni, e che fanno almeno 5,5 milioni da servizi digitali. Si applica dal 2021 sui ricavi 2020.

E già incassa le proteste del presidente Usa Donald Trump, secondo cui è discriminatoria, anti-americana; e che se l’Europa agisce unilateralmente nel tassare i big della Silicon Valley, l’America risponderà con ritorsioni. Il riferimento è al lavoro internazionale in ambito Ocse. Nella Legge di Bilancio si legge appunto che la digital tax italiana resta in vigore fino all’attuazione delle disposizioni che deriveranno da accordi raggiunti nelle sedi internazionali in materia di tassazione dell’economia digitale.

Tra le esclusioni, quelli di fornitura di un’interfaccia digitale il cui scopo esclusivo o principale è quello di fornire agli utenti contenuti digitali, servizi di comunicazione o di pagamento. Esclusi i servizi finanziari regolamentati a parte di entità finanziare regolamentate.

Ma il mondo su questo punto è in fermento.

Con l’elezione di Ursula Von der Leyen alla presidenza della Commissione Europea, l’impegno dell’Unione per la definizione di una digital tax ha fatto un significativo passo in avanti, e le istanze europee non sono rimaste inascoltate anche a livello OCSE.

Infatti, secondo le linee guida elaborate dalla Presidente Von der Leyen per la futura Commissione Europea, tra le priorità che possono essere individuate nell’ambito della fiscalità vi è la tassazione delle grandi società tecnologiche per mezzo di una digital tax.

Più in dettaglio, nelle linee guida in parola si precisa espressamente che, se entro la fine del 2020 non ci saranno ancora soluzioni globali per una digital tax, l’Unione Europea con ogni probabilità procederà in ogni caso con una “sua” imposta. Nello stesso senso si è espresso nel settembre scorso anche il neo commissario europeo all’Economia, Paolo Gentiloni.

In effetti, come si accennava in precedenza, questa moral suasion sembra avere avuto alcuni risultati, specie nell’accelerare a livello OCSE lo sviluppo di una proposta da sottoporre al prossimo G20 dei Ministri delle Finanze e dei Governatori delle Banche Centrali (G20/OECD IF), previsto a Washington DC per il 17 e 18 ottobre prossimi.

La proposta OCSE sul Pillar One e la procedura di consultazione pubblica

La proposta di recente presentata dal Segretario Generale dell’OCSE, Angel Gurrìa, riprende innanzitutto i due “pilastri” (pillars) contenuti nel programma di lavoro adottato a livello OCSE nel maggio scorso.

La proposta si concentra soprattutto sul Pillar One, ovverosia la previsione di una nuova ripartizione delle potestà impositive degli Stati attraverso nuovi criteri di collegamento e di allocazione dei redditi, e si prefigge di unificare i tre approcci alternativi considerati nel programma di lavoro sopra menzionato.

L’OCSE giunge quindi a formulare uno “Unified Approach” che, in sintesi, si esplica in una serie di misure che redistribuiscono la potestà impositiva tra gli Stati, attraverso criteri ulteriori (distinti e separati) rispetto a quello “classico” della sussistenza di una stabile organizzazione.

Tale redistribuzione consentirebbe quindi agli Stati di assoggettare a tassazione una parte degli utili che le imprese multinazionali (o meglio, quelle multinazionali che eccedono una certa soglia di ricavi) realizzano in loco senza una corrispondente presenza fisica. In sintesi, ciò avverrebbe per mezzo di una formula basata sulle risultanze dei bilanci consolidati, nonché mediante la previsione di un tasso di rendimento predeterminato per le attività di distribuzione.

La proposta presentata in relazione al Pillar One, invero piuttosto dettagliata, è oggetto di una procedura di consultazione pubblica, per cui ogni soggetto interessato potrà inviare le proprie osservazioni e i propri commenti in relazione ad una serie di questioni ritenute di particolare standing dall’OCSE, circa l’ambito di applicazione delle nuove disposizioni, i criteri di collegamento adottabili, e così via. La procedura di consultazione terminerà il 12 novembre prossimo, e il 21 e 22 novembre si terrà a Parigi, presso la sede dell’OCSE, un Public consultation meeting.

Il Pillar Two “rimandato” a dicembre

In relazione al cosiddetto Pillar Two, vale a dire un meccanismo globale anti-erosione delle basi imponibili che conduca ad un livello minimo di tassazione per le imprese multinazionali, finora non è ancora stata formalizzata una proposta da parte dell’OCSE.

E’ probabile che in relazione al Pillar Two l’OCSE rilasci una proposta ad inizio novembre, e che quindi si apra anche in questo caso una consultazione che terminerebbe nel prossimo dicembre, per poi arrivare ad accordarsi su alcune delle caratteristiche principali nel G20/OECD IF del gennaio 2020.

Gli impatti dei criteri proposti dall’OCSE e la deadline

E’ possibile fare una preliminare valutazione delle proposte OCSE, sulla base della stessa analisi degli impatti (impact assessment) effettuata dall’OCSE. Tale analisi mette in luce risultati invero interessanti, che possono essere così riassunti:

  • l’effetto combinato di Pillar One e Pillar Two parrebbe incrementare in modo significativo le entrate fiscali globali e la redistribuzione delle stesse tra gli Stati;
  • l’effetto medio sarebbe in proporzione maggiore negli Stati che hanno un reddito nazionale lordo pro capite medio-basso rispetto agli Stati in cui tale parametro è più alto (anche se, in termini assoluti, gli Stati con un mercato più ampio ne beneficerebbero ovviamente di più);
  • i centri di investimento e i poli finanziari, spesso utilizzati nella digital economy, subirebbero significative riduzioni della base imponibile.

L’OCSE prevede che un accordo politico sulla struttura e sull’implementazione di entrambi i pillars si raggiunga nella prima metà del 2020. Certamente tale termine è molto sfidante, per l’OCSE stessa e per gli Stati coinvolti, tuttavia lo stesso Segretario Generale OCSE riconosce come un mancato accordo nel 2020 aumenterebbe notevolmente il rischio che i vari Stati procedano “in ordine sparso”, con una proliferazione di diverse web tax nazionali, ciascuna con proprie regole. Questo elemento, secondo Angel Gurrìa, potrebbe essere suscettibile di avere pesanti conseguenze su una già fragile economia mondiale.

L’Italia e la digital tax

L’Italia, come detto, ha scelto la via del procedere da sola – anche se con un anno di ritardo rispetto a quanto previsto nella Legge di Bilancio 2019 di dicembre 2019. Per incassare i previsti 600 milioni di euro l’anno nel 2021. Ma è un procedere con riserva, con un atteggiamento tattico: alla finestra di quanto accade a livello internazionale.

In realtà, dati gli ultimi sviluppi a livello internazionale, si potrebbe sostenere che l’Italia abbia fatto bene a rinviare l’attuazione della web tax “domestica” (ipotizzata nel 2018 e ora ribrandizzata digital tax, con accezione quindi più ampia), soprattutto se la proposta OCSE avrà un buon esito nel giro di un anno.

Ma l’ultima soluzione di accelerare non sembra invero del tutto condivisibile: fare entrare in vigore un’imposta senza aspettare la fine delle procedure indette dall’OCSE potrebbe comportare la necessità di rimettere mano alla web tax italiana già dalla metà del 2020. Questo comporterebbe inevitabili costi ed incertezze per le imprese coinvolte, per cui sarebbe forse preferibile attendere pochi mesi per introdurre tale imposta, così da valutare appieno gli sviluppi a livello internazionale, tenuto anche conto che le questioni ancora “sul tavolo” per definire una digital tax globale sono tutt’altro che marginali.

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