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Portali dedicati al Made in Italy? Meglio accordi con le piattaforme (senza vendersi l’anima)

Investire in un portale nazionale o in portali settoriali o regionali per promuovere prodotti tipici e eccellenze del territorio significa invece confrontarsi con sfide improbe sul piano della fiducia, della tecnologia e della comuicazione. Meglio supportare la presenza delle aziende sui marketplace. Vediamo come e perché

Pubblicato il 16 Lug 2021

Andrea Boscaro

Partner The Vortex

italia_digitale (2)

Il “Netflix della cultura italiana”, il “Linkedin della PA”, l'”Amazon del Made in Italy”: non c’è progetto digitale organico che riguardi il nostro Paese che la politica non definisca a partire dalle grandi piattaforme che accompagnano la nostra vita online.

Non sarebbe grave se questo atteggiamento si limitasse a dare un titolo alle idee, ma diventa un freno al loro sviluppo se indica invece un orizzonte concreto, un modus operandi perché prescinde dal fatto che il comportamento oggi in Rete è organizzato attorno a grandi piattaforme ed è oneroso e complesso, se non azzardato, crearne di nuove, soprattutto in un contesto internazionale.

Platform economy: vantaggi e rischi per imprese e cittadini sotto la lente del digital package Ue

Il caso ItsArt

Con 3.600 utenti dai motori di ricerca nel mese di giugno stimati da Semrush, ItsArt – questo il nome della joint venture fra Cassa Depositi e Prestiti e Chili lanciata in pieno lockdown dal Ministro Dario Franceschini – non si scontra solo con le altre piattaforme di streaming, ma anche con le tante iniziative intraprese dalla Rai (Raiplay ha un catalogo molto ricco anche nelle aree concorrenti a ItsArt ed è una app gratuita), da Google (ad esempio, con il suo portale Arts & Culture) e con i musei e le istituzioni culturali italiane che nel corso del 2020 hanno premuto sull’acceleratore quanto ai contenuti pubblicati online e sui social media: la strada per arricchire il catalogo fino a renderlo distintivo, per raggiungere gli utenti e convertirli in abbonati e per supportare in tal modo un modello di business sostenibile è dunque ancora molto lunga.

La necessaria collaborazione con le piattaforme digitali

In attesa di capire cosa sarà il “Linkedin della PA” annunciato dal Ministro Brunetta per l’autunno, lo stesso rischio a cui deve fare fronte ItsArt si corre ogni qualvolta si immagina di creare un “Amazon del Made in Italy” o, a livello locale, di intraprendere iniziative condotte per portare a vendere online le aziende del nostro Paese con la realizzazione di portali dedicati ai prodotti tipici e alle eccellenze del territorio.

Tali progetti rischiano infatti di scontrarsi con un mercato, quello degli acquisti online da parte di consumatori stranieri, nel quale elevata è la concentrazione attorno ai marketplace e ai grandi operatori e-commerce internazionali: se la percentuale del volume d’affari realizzato sui marketplace a livello mondiale è rilevato da Statista.com nel 47% del totale del valore delle transazioni cross-border, a livello europeo sale addirittura al 59%. Ecco perché un progetto di vendita online all’estero non può prescindere dallo sviluppo di collaborazioni e di processi volti a rendere presenti i prodotti e i servizi delle aziende italiane su tali piattaforme nel rispetto delle risorse e delle competenze necessarie a tali attività.

Le sfide di un investimento in un portale nazionale

Investire in un portale nazionale o in portali settoriali o regionali significa invece confrontarsi con sfide improbe:

  • la fiducia, difficile da costruire in un mondo digitale, e frutto non di un’astratta conoscenza del brand, ma di onerosi investimenti in servizi logistici, di assistenza al cliente e in politiche di resi e guasti spesso gratuiti che i grandi operatori dell’e-commerce hanno negli anni dovuto sostenere e che però rappresenta il loro asset più importante;
  • la tecnologia, non solo in relazione all’esperienza offerta all’utente, ma al “dietro le quinte” del sito che deve essere improntato in software e processi volti a rendere possibile la comunicazione adeguata dei prodotti e delle offerte commerciali nel rispetto delle disponibilità effettive presso le aziende produttrici e dei tempi di consegna promessi;
  • la comunicazione che non può limitarsi al brand “Italia”, ma che deve intercettare e valorizzare, sui motori di ricerca e sui social media, gli specifici prodotti disponibili e le aziende coinvolte.

Considerando che, secondo il Politecnico di Milano, nel 2020 l’export digitale italiano B2C ha raggiunto un valore di 13,5 miliardi di euro (+14% vs. 2019), il 9% dell’export complessivo, le aziende che occorre portare a vendere online sono soprattutto medie e piccole imprese della moda (che oggi vale 7,1 miliardi di euro, il 53% delle esportazioni digitali B2C) e dell’agroalimentare (1,9 miliardi di euro con una crescita del 46% rispetto al 2019 e un valore pari al 14% dell’export digitale), aziende il cui livello di digitalizzazione è ancora tutto da costruire e alimentare.

Scegliere di supportare la presenza di tali aziende sui marketplace permette dunque di concentrarsi sull’onboarding di queste ultime sfruttando la fiducia, l’infrastruttura e i servizi che le piattaforme hanno acquisito nei mercati di destinazione e mettono per lo più già a disposizione. Si tratta di un percorso altrettanto importante, ma il cui focus risiede in attività di project management differenti:

  • scegliere la piattaforma più adeguata in ragione della domanda potenziale che un mercato nazionale può esprimere, con una particolare attenzione alle piattaforme locali e non solo internazionali (esempio JD, WeChat e Tmall in Cina, Lazada in Thailandia, Flipkart in India e non solo l’onnipresente Amazon);
  • studiare tale domanda potenziale attraverso i tool nativi e indipendenti disponibili che, attingendo alle serie storiche di vendite, agevolano la costruzione delle schede prodotto, il pricing da attore, le politiche commerciali e promozionali da perseguire;
  • organizzare risorse e processi volti a gestire le richieste provenienti dalla presenza sulle piattaforme orientate a buyer e acquirenti professionali come Alibaba.com dove non è sufficiente essere presenti, ma occorrono investimenti per ottenere visibilità e consapevolezza della lunghezza del processo di vendita;
  • attivare forme di visibilità adeguate a valorizzare il marchio e l’offerta delle aziende (come la Gold Supplier su Alibaba o la Brand Page su JD);
  • valutare di volta in volta l’uso dei servizi logistici offerti dai marketplace per rendere più efficienti i processi di sdoganamento e consegna (es. JD Logistics, Wiseplatform di Tannico) potendo in questo modo raggiungere quelle aree del sito effettivamente visualizzate dagli acquirenti locali e non solo quelle dedicate ad una presenza cross-order;
  • favorire la collaborazione con operatori locali per le iniziative di comunicazione e assistenza al cliente.

La sovranità digitale di cui oggi si parla molto in riferimento ai dati e alle infrastrutture dunque non deve passare da progetti chimerici come nel passato il portale Italia.it, ma dall’autorevolezza che permette a realtà locali o nazionali come l’Istituto Commercio Estero di stipulare accordi vantaggiosi con le piattaforme e dalla solidità con cui vengono allestiti processi formativi, di affiancamento, di mediazione culturale e di efficienza logistica grazie ai quali le aziende rappresentate possono essere portate online.

Se il successo di tali attività è influenzato dall’attenzione e dalle risorse che le imprese possono impiegare – necessario del resto in ogni iniziativa di internazionalizzazione – non secondario è infatti il ruolo che gli accordi svolgono per rendere possibile:

  • la creazione e la promozione di ambienti “Made in Italy” a supporto del posizionamento dei marchi delle imprese coinvolte;
  • l’attivazione di spazi in cui sia possibile la valorizzazione dei prodotti e dei processi produttivi da cui discendono;
  • la disponibilità di servizi volti a prevenire casi di contraffazione;
  • un supporto operativo efficace e una capillare offerta di contenuti e strumenti di carattere formativo;
  • l’accesso non solo ai dati di vendita e alle informazioni necessarie per la gestione degli ordini, ma anche a elementi che permettano di valutare la presenza online, di ottimizzarla, di promuoverla in modo efficiente;
  • una crescente trasparenza delle logiche che determinano la visibilità dei risultati di ricerca tanto più per portali, come Amazon, dove l’algoritmo che regola la “Buy Box” (ovvero la prima offerta scelta per un prodotto) vede spesso la competizione fra i venditori e Amazon stessa nella sua doppia veste di marketplace e sito e-commerce.

Conclusioni

I marketplace infatti interpretano in molte occasioni più ruoli in commedia: vasti campi da gioco, sono talvolta anche giocatori rivendendo in prima persona beni acquistati dal produttore o realizzati in private label, arbitri grazie al controllo della visibilità data alle offerte e persino VAR in virtù delle controversie fra acquirenti e merchant in cui talvolta intervengono: non è un caso che il Digital Markets Act europeo miri a rendere più trasparente proprio questi meccanismi.

La crisi legata al Covid ha senz’altro accresciuto in tutti la consapevolezza per la quale il digitale è il sistema operativo delle informazioni e delle relazioni in cui siamo inseriti: una delle vie per uscirne è dunque accrescere la capacità del nostro Paese di diffondere competenze e modelli perché il commercio elettronico sia un canale efficace per valorizzare l’offerta turistica e commerciale delle PMI italiane senza però ricorrere a facili, ma illusorie scorciatoie.

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