non solo rider

Servono più tutele per chi lavora con le piattaforme digitali: ecco quali

La diffusione di nuovi modelli organizzativi della produzione e del lavoro basati sull’uso delle piattaforme digitali ha portato alla luce nuovi rischi per i lavoratori, che rendono quanto mai attuale il tema della salute e della sicurezza. Occorre ripensare i principi di tutela base ma servono anche tutele ad hoc

Pubblicato il 24 Nov 2022

Federica Nizzoli

Avvocata - Dottoranda in Lavoro, Sviluppo e Innovazione, Unimore - SC Centro Studi

gig economy

Attualmente il diritto del lavoro ha cominciato a confrontarsi frequentemente con il tema della digitalizzazione delle attività economiche nonché dei riflessi e delle implicazioni che essa determina nell’organizzazione del lavoro. Il quadro normativo attuale in materia di digitalizzazione muove sicuramente dall’obiettivo di migliorare le condizioni di lavoro delle persone che operano tramite le piattaforme digitali garantendo una interazione tra lavoratore e digital economy il più tutelata possibile.

Sulla scorta di questo obiettivo, la diffusione di nuovi modelli organizzativi della produzione e del lavoro basati sull’utilizzo delle piattaforme digitali ha portato alla luce nuovi rischi per lavoratori e lavoratrici, i quali rendono, oggi più che mai, attuale il tema della salute e della sicurezza altresì sulle digital labour platforms.

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I rischi legati al lavoro gestito dalle piattaforme

Sono stati gli stessi lavoratori digitali e i loro movimenti collettivi ad aver posto l’accento sulla pericolosità che deriva dalle peculiari condizioni lavorative propria delle piattaforme, con particolare riferimento a una specifica categoria di lavoratori su piattaforma, vale a dire quella dei ciclofattorini, i cosiddetti rider.

La stessa Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro non ha mancato di evidenziare come i rischi, per i platform workers, siano addirittura superiori e più gravi a causa della perdita dell’effetto protettivo derivante dallo svolgere la prestazione in un luogo di lavoro stricto sensu.

Molte di queste attività, infatti, hanno luogo in automobili private o in case, senza contare l’incoraggiamento a ritmi di lavoro estremamente veloci e senza pause, a loro volta più esposti al rischio di infortuni.

Risulta necessario premettere che i rischi nei quali possono incorrere i lavoratori su piattaforma non differiscono da quelli cui gli stessi sarebbero soggetti nell’eventualità in cui la prestazione lavorativa fosse eseguita senza l’intervento del device informatico. A mero titolo esemplificativo, infatti, il rischio per un ciclofattorino di incorrere in un sinistro stradale è il medesimo, sia che l’ordine venga assegnato tramite un’applicazione online, sia direttamente a voce o telefonicamente. Per converso, è la probabilità che un determinato rischio si concretizzi a essere mutevole e, possibilmente, oggetto di aumento, per effetto delle condizioni in cui opera il platform worker.

L’approccio del legislatore europeo

Nel quadro della Strategia per il mercato unico digitale in Europa (COM(2015)0192), le istituzioni europee hanno fatto proprio un approccio certamente favorevole al riconoscimento dei diritti fondamentali dei prestatori d’opera; tra questi non manca la tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro.

La significativa importanza assunta dalla platform economy ha portato a riconoscere una fisionomia più unitaria e compatta del lavoro digitale medesimo, prevedendo standard minimi di condizioni di lavoro e diritti sociali. In questo senso l’Unione ha sempre sollecitato i singoli ordinamenti nazionali affinché intervenissero senza tralasciare i singoli metodi di lavoro connessi allo sviluppo tecnologico.

La stessa Direttiva in materia di condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili ha rafforzato aspetti quali la durata del tempo di lavoro, in modo tale da incidere positivamente sulla tutela della salute e della sicurezza, calando il suddetto approccio nel contesto dei lavoratori digitali.

Ecco che è possibile notare come, a livello europeo, sia ormai insediato un fulcro di tutele sociali a favore del lavoratore, a prescindere dall’inquadramento operato da parte degli ordinamenti nazionali. L’approccio che viene prediletto, infatti, mira a garantire protezione sulla base dell’effettivo svolgimento di attività, anziché pregiudicarla o renderla dipendente dal soddisfacimento di particolari vincoli qualificatori.

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La figura del fattorino digitale nel quadro della legislazione nazionale

Per quanto concerne strettamente la realtà nazionale, la prima risposta fornita da parte dell’ordinamento si è concretizzata nelle previsioni contenute all’interno della recente L. n. 128/2019, la quale ha apportato modifiche significative al D.Lgs. n. 81/2015, prevedendo addirittura l’introduzione del Capo V-bis, il quale è chiamato a disciplinare la “tutela del lavoro attraverso piattaforme digitali”.

Nella prospettiva definitoria, l’art. 47-bis della summenzionata legge definisce le piattaforme informatiche come “i programmi e le procedure informatiche utilizzati dal committente che, indipendentemente dal luogo di stabilimento, sono strumentali alle attività di consegna di beni, fissandone il compenso e determinando le modalità di esecuzione della prestazione”.

Facendo, invece, strettamente riferimento al tema della tutela della salute e sicurezza sul lavoro, le previsioni maggiormente significative sono contenute all’interno dell’art. 47 septies del d.lgs. n. 81/2015. I primi due commi dell’articolo in esame fanno riferimento al regime applicabile in materia di copertura assicurativa contro infortuni e malattie professionali.

Nello specifico, i lavoratori su piattaforma sono soggetti alla copertura assicurativa obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali prevista dal d.P.R. n. 1124/1965. Il premio di assicurazione INAIL è determinato in base al tasso di rischio corrispondente all’attività svolta.

Ciononostante, la dottrina non ritiene possibile parlare di efficacia generalizzata, da parte delle disposizioni del Capo V-bis, nei confronti dei platform workers. Non a caso, infatti, limitatamente al Capo de quo, si è parlato addirittura di “labirinto senza uscita”, sulla scorta del fatto che la definizione di piattaforme digitali, contenuta nell’art. 47-bis, comma 2, D.Lgs. n. 81/2015, subordinando l’efficacia della disciplina ivi stabilita in favore dei riders auto-organizzati alla condizione che sia la piattaforma a fissare il compenso e le modalità con cui la prestazione deve essere eseguita, si sovrappone alla definizione di collaborazioni organizzate dal committente, come previsto dall’art. 2, comma 1 del decreto medesimo.

Ad ogni modo, vista la natura autonoma dei rapporti di lavoro con i quali i platform workers prestano la propria attività, un discorso improntato sulla loro salute e sicurezza non può fare a meno di prendere in considerazione altresì le disposizioni di cui al D.Lgs. n 81/2008, la cui integrale applicabilità è stata confermata anche a livello giurisprudenziale.

Ciononostante, sorge il dubbio relativamente alla possibilità di estendere anche ai collaboratori e ai prestatori d’opera che svolgono attività lavorativa in ambienti diversi dalla tradizionale unità produttiva aziendale, le tutele previste dal D.Lgs. n. 81/2008. Ad oggi queste, infatti, risultano essere indirizzate unicamente ai lavoratori autonomi e ai collaboratori coordinati e continuativi fisicamente operanti in ambienti dei quali il committente dispone giuridicamente.

Tale aspetto problematico è, a maggior ragione, posto alla luce nella misura in cui la dottrina stessa ha rilevato come l’avvento della digitalizzazione nonché la conseguente emersione di nuovi lavori, lontani dallo “stabile luogo fisico”, porti alla luce la necessità di superare l’ormai pregressa equazione organizzazione-luogo di lavoro, lasciando dunque posto ad una organizzazione vista come “insieme delle regole mediante le quali si realizza il progetto produttivo del datore di lavoro o del committente”.

La prevenzione nella digital economy: adeguamento e prospettive future

Volendo trarre le somme dall’analisi effettuata, sicuramente la risoluzione del dilemma qualificatorio risulta essere un dato essenziale ai fini della possibilità di garantire ai platform workers adeguate tutele in materia di salute e sicurezza sul lavoro. In questa prospettiva, l’impianto del D.Lgs. n. 81/2008 guarda ampiamente alla figura del prestatore di lavoro subordinato. D’altra parte, il legislatore, con la l. n. 128/2019, ha sicuramente tentato di stabilire livelli minimi di tutela spingendo la qualificazione dei rapporti di lavoro dei platform workers verso la strada dell’etero-organizzazione, portando, allo stesso tempo, la questione dei ciclofattorini all’attenzione degli enti preposti alla vigilanza.

Vero è che, ad oggi, pare i tempi siano divenuti maturi per una estensione delle tutele a prescindere dalla qualificazione giuridica dei rapporti di lavoro interessati. Nel contempo, tuttavia, tale estensione deve tenere a mente il carattere eterogeneo del lavoro digitale, operando dunque un ripensamento dei principi di tutela base nonché di tutele ad hoc, indirizzate a questi specifici prestatori d’opera.

Un esempio a cui fare riferimento

In questo senso, un esempio cui fare riferimento potrebbe essere contenuto all’interno della “Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale nel contesto urbano”, promossa dal Comune di Bologna nel 2021, di concerto con Riders Union Bologna, Cgil, Cisl, Uil e piattaforme digitali.

La Carta muove infatti dallo scopo di “migliorare le condizioni di lavoro dei lavoratori e collaboratori digitali operanti nel Comune di Bologna, promuovendo un’occupazione più sicura e prevedibile e garantendo nel contempo l’adattabilità del mercato del lavoro digitale nel contesto urbano (…) indipendentemente dalla qualificazione dei rapporti di lavoro che si servono per l’esercizio della propria attività lavorativa di una o più piattaforme digitali” (artt. 1 e 2).

Tali riferimenti paiono certamente interessanti e degni di nota, in quanto mirano a trascendere il mero dilemma qualificatorio in favore di un vincolo maggiore a standard protettivi che, una volta applicati, possono fungere da motore propulsivo dello sviluppo socioeconomico.

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