L'approfondimento

Come fare shopping con i fondi del PNRR: all’Italia serve un nuovo modello di procurement

I fondi del PNRR sono un’ottima occasione di rilancio, ma non è scontato che li si sappia usare al meglio per raggiungere gli obiettivi di sviluppo prefissati: ecco quali sono gli ostacoli e come superarli attraverso un oculato uso degli strumenti di procurement

Pubblicato il 14 Set 2021

Partenariato Pubblico Privato

Con il DL Semplificazioni bis, sulla “Governance del Piano nazionale di rilancio e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure”, il legislatore ha introdotto uno strumento per facilitare il ricorso alle ingenti risorse del PNRR introducendo pacchetti di semplificazioni e strumenti operativi per rendere più snello e rapido l’accesso. Quello che non è chiaro ai più, è “chi” e “cosa” debba fare per accedere a questi fondi e soprattutto quale sia il tempo a disposizione per portare a casa questa straordinaria iniezione di liquidità.

Ricordiamo che Il PNRR italiano si inquadra nel programma comunitario Next Generation EU (NGEU), il pacchetto da complessivi 750 miliardi di euro varato dall’Unione Europea in risposta alla crisi pandemica, nell’ambito del quale l’Italia, come noto, ha potuto giovare della quota più alta, pari a 191,5 miliardi di euro rappresentati dal c.d. Recovery Fund, cui si aggiungono i 30,6 miliardi del Fondo complementare, quest’ultimo coperto con scostamento di bilancio. Di fatto un bazooka di liquidità per una opera di ricostruzione del sistema paese dopo il sisma pandemico che ha devastato l’intero sistema economico. Problema risolto? Purtroppo non è così semplice.

La governance del PNRR

La catena di comando del PNRR può essere rappresentata come una struttura piramidale a 3 livelli:

  1. indirizzo e coordinamento
  2. controllo e monitoraggio
  3. realizzazione

Il PNRR individua i Soggetti Attuatori della Spesa nella PA (Ministeri, Regioni, ed Enti Locali in genere) con il supporto tecnico operativo dei soggetti individuati dall’art. 10 del DL 77/2021 (Consip ed i Soggetti Aggregatori Regionali, qualificati ai sensi dell’art. 38 D. Lgs 38/2016), ovvero avvalendosi di Soggetti Attuatori esterni. Su tale ultima opzione torneremo a breve; concentriamoci dunque sulla fase della realizzazione a cura della PA, evidentemente individuata dal legislatore del PNRR quale soluzione di default per la realizzazione degli interventi.

Proviamo a semplificare ulteriormente: entro il 2026 i fondi devono essere spesi e rendicontati. Il meccanismo standard di utilizzo dei fondi comunitari si fonda su un processo a tre livelli:

  1. impegno della spesa
  2. espletamento dell’appalto e realizzazione della fornitura/servizio
  3. rendicontazione della spesa

Guardiamo alla Transizione Digitale, leva strategica fondamentale del PNRR per reingegnerizzare la competitività del paese. Ebbene nella Missione 1 del PNRR troviamo circa 38 Mld da spendere. Bene. Ma saremo capaci di farlo?

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E qui viene la parte critica: una recente inchiesta sulla capacità di spesa delle Regioni in materia di Fondo Sociale Europeo e di Fondo Europeo di Sviluppo Regionale ha dimostrato, numeri alla mano, come nel settennato 2014-2020 le Regioni abbiano mediamente speso solo il 30% della spesa impegnata; la ragione è molto semplice: i primi 3 anni sono stati impiegati per redigere i bandi; successivamente ci si è potuti concentrare sulla verifica della corretta esecuzione e sul pagamento della spesa e conseguente rendicontazione.

Prendiamo (non a caso) gli investimenti delle Regioni in ICT del 2020 per combattere il digital divide. Scopriamo che la gran parte delle Regioni non riesce a spendere quanto ha effettivamente impegnato. Risultato finale: contributi revocati e mancata occasione di sviluppo. I dati ci dimostrano che le regioni del Sud, proprio quelle nelle quali il fabbisogno di digitale e ricerca è più elevato, hanno privilegiato i grandi lavori infrastrutturali rispetto al contrasto del digital divide.

Una corretta analisi del fenomeno della sottoutilizzazione della spesa non può tuttavia prescindere da una fotografia dello stato attuale del procurement in Italia. Ovvero: di quante competenze tecniche ed amministrative dispongono oggi Ministeri, Regioni, Province e Comuni per fare le gare di appalto? Altro quesito fondamentale: le gare di appalto sono davvero l’unica strada percorribile per spendere le risorse del PNRR?

I dati

Proviamo a rispondere alle due domande. Partendo dai dati ufficiali disponibili. Dall’ultimo rapporto del Consiglio di Stato emerge che nel 2017 la PA centrale ha bandito 71.578 procedure per un controvalore pari a 43,7 Mld; nel 2018 le procedure bandite scendono a 60.466 ed il controvalore sale sino a quota 58 Mld, per effetto dell’aggregazione della spesa condotta dai Soggetti Aggregatori Regionali, la cui operatività, proprio nel biennio 2017-18 inizia a manifestarsi in maniera più evidente. Tralasciando per semplicità l’impatto del contenzioso (ulteriore fattore di rallentamento della efficacia e della tempestività degli appalti pubblici) appare in tutta la sua evidenza che abbiamo un problema concreto di volumi.

Le strategie

Se cioè la potenza di fuoco media della PA è di appaltare circa 60 Mld all’anno per tutto il fabbisogno della PA, ante PNRR, come possiamo ipotizzare che si possano aggiungere i 220 Mld del PNRR? La strategia messa in campo per contrastare il fenomeno descritto si fonda sul rafforzamento delle competenze e della capacità di analisi. Il 27 luglio il Ministro Giovannini ha annunciato la nascita della PNRR Academy, il piano di formazione per l’aggiornamento professionale in materia di appalti, promosso dal Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili per agevolare l’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza promuovendo la qualificazione delle stazioni appaltanti.

Due ottime iniziative. E’ infatti universalmente riconosciuto il deficit di competenze dell’esercito di RUP, Dirigenti e Tecnici della PA in materia di appalti e la leva della formazione continua non può che giovare alla alfabetizzazione delle classi dirigenti attuali e future. A mio avviso tuttavia non basta a garantire la titanica impresa cui la PA è chiamata. Giova ribadirlo: numeri alla mano la PA è chiamata ad aggiungere 220 miliardi ai circa 60 (che devono comunque essere mantenuti) di appalti. In altre parole la PA deve quadruplicare il volume degli appalti. Richiamando quanto riportato nella prima parte dell’articolo (media 3 anni per redigere i bandi necessari ad accedere ai Fondi Europei) e ricordando che il termine entro il quale rendicontare (quindi non solo appaltare ma eseguire e rendicontare la spesa) è il 2026 dovrebbe essere lapalissiano che stiamo parlando di Mission Impossible (per rimanere in tema il PNRR si articola in Missioni).

L’alternativa agli appalti

E allora veniamo all’ultimo quesito fondamentale: ma chi ha detto le gare di appalto sono l’unica strada percorribile per spendere le risorse del PNRR? In un articolo di qualche tempo fa, che sembra oggi premonitore, introducevo i concetti di OBC (Outcame Based Contracts) riconducibili alla vasta categoria del Partenariato Pubblico Privato, la cui disciplina è tratteggiata al comma 8 dell’art. 180 del codice dei contratti pubblici come volano per un serio ripensamento dell’approccio al procurement pubblico.

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Nel tempo trascorso dalla redazione di quell’articolo (del gennaio 2020) ad oggi, mi sono ulteriormente convinto che la più grande transizione che bisogna favorire, prima ancora di quella digitale, sia la transizione da un paradigma di procurement basato sugli appalti ad un modello di acquisto che utilizzi il partenariato pubblico privato, in tutte le sue forme e le sue declinazioni, quale strumento ordinario di acquisto relegando l’utilizzo dell’appalto tradizionale ai casi in cui non sia utile o tecnicamente possibile utilizzare. E poiché sono un amante della tecnologia e della innovazione più spinta, mi spingo ad affermare che sarebbe anche ora di iniziare a sperimentare l’utilizzo degli smart contract e degli NFT (ovvero contratti stipulati in ambiente e modalità nativamente digitale all’interno della blockchain) nei contratti della PA.

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